venerdì 5 novembre 2021

Mi sono svegliata piangendo - Maria Galindo

 

Dedicato al “Transcomando” che mi rallegra la vita a distanza, mentre volo come un pipistrello perseguitato nella notte del COVID-19

 

Sono già diversi giorni che mi sveglio piangendo. A farmi aprire gli occhi sono le lacrime che corrono sul viso, oppure è l’impulso di piangere ancora. Non è un dolore cosciente che viene dalla perdita di una persona amata, morta per coronavirus, che provoca quel pianto. Non è neanche una depressione frutto del confinamento. È una sensazione provocata da fuori, come se i morti comunicassero con me, mentre abbandonano questo mondo. Non hanno bandiera, né età, né pelle. Non hanno nemmeno volto. È solo l’impulso della stessa vita che va via e che, nel cammino, mi cerca per depositare nei miei sogni un ultimo vento d’addio, un odore, una sensazione, un soffio di morte che se ne va.

Mi alzo stremata dalla fatica notturna che questo legame comporta e cerco di collocarlo da qualche parte, guardo il soffitto, cerco altri segnali. Niente da fare.

Il mondo è diventato un cimitero carico di energie funebri?

Sono i morti di Guayaquil che, nel loro cammino, vengono ad avvertirmi dell’inevitabile? Sono quelli che vengono da più lontano, magari dalle fosse comuni di New York, e arrivano fino al mio corpo vivo, a chiedermi un commiato?

Mi trovano così, per caso, mentre sperimentano le loro morti desolate?

Mi alzo e senza pensarci mi vesto come per andare a un funerale. Sotto la doccia, mi ricordo di come i morti apprezzassero quando, nel mio lavoro in Germania, mi toccava di pettinarli, lavarli e vestirli dei loro sudari. A me piacerebbe, e questo è un incarico, che le mie compagne mi bruciassero con un bidone di benzina e mucchi di palo santo sulla porta della nostra amata casona rossa.

Mentre penso alla mia stessa morte e vedo gli abiti che sto per indossare trasformati nel mio sudario, capisco perché i morti vengono a trovarmi nella notte: vengono a depositare le loro testimonianze nel mio petto come si trattasse di una cassetta della posta, è per questo che sono così esausta, anche se ho dormito tanto profondamente e a lungo.


Ricostruzione della visita all’obitorio

Mi apre le porte una donna che avrebbe dovuto avere davanti certamente molti altri anni di vita. È morta come tutti, ma non si è sdraiataha preferito fare lo sforzo di aprirmi la porta per compiere il rito che ha caratterizzato tutta la sua vita: prendere lei la responsabilità dell’ultimo sforzo. Mi dice che è morta lentamente, che non riusciva a distinguere la stanchezza della vita dai sintomi mortali del coronavirus. È cosciente di esser morta di coronavirus, però pensa che la malattia letale che lentamente l’ha uccisa sia stata l’essere “donna”.

Dall’altro lato della vita chiede, per favore, che questa storia del “Resta in casa” sia cambiata in “Abbi cura della tua vita e di quella degli altri”. L’imperativo “Resta in casa!” sembra inventato da una madre tiranna che ti impedisce di appropriarti della notte, da un padre controllore che non ti lascia andare all’università, da un marito insopportabilmente geloso. È convinta che questo “Resta in casa” sia parte di una cospirazione patriarcale degli uomini che dirigono l’Organizzazione Mondiale della Sanità contro le donne del mondo. La guardo perplessa e mi dice: “Ero infermiera, so come ragionano i medici e i direttori di ospedali, ragionano come mariti repressori”.

Mentre parliamo, si avvicina una casalinga e dice: “Il problema non è la casa ma la famiglia; la quarantena in famiglia è un inferno, avrei preferito che ci fossimo organizzate per passarla tra amiche o vicine di casa”; “Tra amanti!”, grida qualcuno dal fondo. Noi infermiere avremmo dovuto passarla insieme la quarantena, ci saremmo capite meglio e accolte con amore al ritorno dal lavoro; ci saremmo massaggiate i piedi a vicenda, avremmo fatto i turni secondo la stanchezza e nessuna si sarebbe azzardata ad accusare l’altra di portare la malattia in casa. Una venditrice ambulante aggiunge: “Sai che bello mettere la squadra di calcio del quartiere in quarantena nella stessa casa!“. Nell’immaginarlo scoppia a ridere, mentre man mano le si staccano i denti che subito diventano stelle.

E i poliziotti? “Che facciano la quarantena insieme, così si sopportano tra di loro”. Si comincia a creare un gran baccano e allora torna a prendere parola la casalinga: “Sentite, questo non è uno scherzo, la quarantena non può essere fatta in famiglia, perché siamo sempre noi donne a finire sfruttate, a cucinare, lavare, pulire e a consolarli, a tavola come a letto”. “È vero”, dice un’altra, “però, se le cose stanno così, il punto non è la quarantena in famiglia, ma va dissolta la famiglia stessa, quello che stavamo già facendo prima che ci beccasse la pandemia”.

Quest’obitorio gigante in cui mi trovo è un luogo di fortuna, i cadaveri non sono ordinati né classificati, sarebbe impossibile. La maggior parte si è già distesa con le mani sul petto, altri ancora in piedi mi fissano senza occhi, mi parlano senza bocca, alcuni si sono arrampicati sui muri e altri si sono sdraiati sul tetto. A poco a poco, vado perdendo lo spavento con cui ero arrivata, nulla è paragonabile all’immagine di ciò che mi trovo davanti. Penso all’obitorio di La Paz, che dev’essere uno dei più sinistri al mondo, dove tante volte sono andata a cercare donne fatte scomparire o assassinate; lì tengono i cadaveri per terra, mentre si vanno decomponendo.

Qui è diverso, i morti, come gli animali, hanno preso uno spazio gigantesco nella città vuota e stanno in quello che sembra essere un parlamento. A momenti mi pare il Pentagono, il Vaticano, la più grande cattedrale del mondo, oppure uno studio cinematografico… Non riesco a distinguere bene, perché tutto è occupato dai cadaveri senza spazio per niente altro.

 

Più che morti, siamo rifiuti

Sono arrivata qui attratta da un magnetismo a cui non potevo opporre resistenza, ma non so perché e non mi azzardo a domandarlo. Sono viva tra queste centinaia di migliaia di morti, non so cosa vogliano da me, né so cosa fare. Non so cosa dire, non ho parole, né penso di provare a consolarli, sarebbe ridicolo. Vorrei riuscire a nascondere la mia paura, ma davanti a loro è impossibile. Hanno il potere dei morti di percepire tutto, i loro sguardi mi si conficcano nel petto che pulsa come stesse per esplodere. Resto muta, impaurita, immobile, non ho nulla da offrire a questa gente, nemmeno la conosco, so solo che, anche se già morta, sta per cessare di esistere ed è a questa transizione finale che vuole che assista.

Perdo la nozione del tempo, ho la febbre, l’immagine è nebulosaRiconosco mani, cavità oculari, frammenti di gambe, teste con il collo ma senza corpo. Non c’è sangue, i corpi sono inglobati gli uni negli altri senza che si distingua bene dove termina uno e inizia l’altro; c’è un liquido turchese denso e splendente che sembra accoglierli, circola capriccioso tra i corpi facendo le curve, salendo per le gambe e scendendo dalle spalle in mezzo a tutti. Sottovoce chiedo del liquido turchese alla donna che mi ha aperto, lei mi risponde: “Sono le nostre lacrime, è il nostro pianto che ci bagna, ci illumina e ci unisce”.

Cominciano a parlare in un coro multilingue e all’unisono gridano una frase che mi si conficca nel cuore come un coltello: “Siamo la prima generazione di morti spazzatura, come immondizia siamo trattati e gettati via, si disfanno di noi senza alcun congedo. Nessuno inventa un funerale, nessuno inventa un commiato, nessuno ci accompagna nell’ultimo viaggio, tu che appartieni ai vivi, appartieni anche alla prima generazione umana che tratta i suoi morti come rifiuti”.

Le fosse comuni dei morti nel Mediterraneo, uccisi mentre cercavano di arrivare in Europa, le fosse comuni dei senzatetto a San Paolo – che la polizia (brasiliana, ndt) raccoglie la mattina per poter pulire le strade -, le fosse comuni senza nome non sono più una lontana eccezione che voi potevate scegliere di ignorare, oggi sono diventate una norma sanitariaCi gettano via nella notte, mentre dormono, con gli stessi procedimenti con cui si svuotano i cassonetti all’angolo.

La nostra ultima volontà non è di contagiarli, ma di rompere quest’equilibrio sanitario che ci nasconde per non andarcene senza dire addio.

Vogliamo attraversare le buste dell’immondizia con cui hanno avvolto i nostri corpi. Vogliamo oltrepassare i numeri dei rapporti militari del mondo che, in bocca ai ministri della sanità, annunciano il numero dei morti del giorno, quei rapporti di cifre con cui cancellano i nostri nomi per trasformarci in quantità. Quantità di morti che, insieme a Trump, i capitalisti del mondo celebrano perché ogni morte è un risparmio in sicurezza sociale, in spazio, in contaminazione, in ricerca, maternità o alloggio. Ogni morto una celebrazione, meglio se vecchio, meglio se povero, meglio se del terzo mondo, perché, anche se dirlo non è più di moda, ci sono un terzo e un quarto mondo e in ogni società c’è un sud. Quando i morti vengono da questo sud dove non hanno nomi, né volti, la celebrazione capitalista è maggiore e si considera il COVID-19 un lavoro di igiene sociale.

Ogni morto è una celebrazione capitalista, perché è una dose gratuita di paura con cui iniettare il quartiere, il sindacato, il paese, il mondo. Per questo la rigorosa comunicazione quotidiana dei governi con la società serve ad annunciare il numero di morti; non ci possono vegliare, nominare, né dire addio; ma, comunque, non possono smettere di contarci.

Abbiamo deciso di abbandonare l’umanità per integrarci come resti umani nel mondo animale, un mondo che ci ha ricevuto divorando i nostri corpi, riempiendoli di vermi, disintegrando con la terra la nostra solitudine e, nel nostro dolore, ci sono cresciute zampe di capra, maiale, mucca, gallina, pipistrello; ma prima di diventare un tutt’uno con gli animali vogliamo lasciare questo testamento.

 

Un testamento dalla frontiera tra i vivi e i morti, tra i sani e i malati

Il COVID-19 è l’ebola dell’Africa o la dengue dell’America Latina, ma ha la forza di paralizzare il mondo, perché i corpi che ha colpito in massa sono corpi europeiQuello che succederà al resto della gente del pianeta e quando il virus colpirà in massa i corpi del sud del mondo cesserà di essere una notizia. Perciò è importante parlare di questa tragedia quanto prima, per dire ciò che oggi il mondo intero è ancora disposto ad ascoltare: alla frontiera tra vivi e morti è stato eretto un muro fatto di regole, obbedienza, rassegnazione, paura e silenzio. Non serve a proteggere le vite dei vivi ma il potere dei potenti. Quel muro di paura funziona come un plotone di esecuzione, così come l’igienica e clandestina eliminazione dei corpi, invece di seppellirli, è parte di quello stesso terrore di Stato.

L’affanno nel determinare, tracciare, accertare e precisare da dove venga la malattia, distinguendo l’origine del contagio, il paziente zero e facendo sapere al mondo che si stava cercando il corpo dell’untore, è il vessillo che è servito per chiudere le frontiere, controllare i movimenti e alimentare razzismi, nazionalismi e regionalismi.

Non c’è paziente zero, perché se ci fosse allora dovrebbero esserci anche superficie zero, luogo zero e merce zero. Grazie al concetto di paziente zero, noi abbiamo smesso di poterci muovere, mentre le merci hanno continuato a circolare. Frenare la mobilità della gente non è servito a frenare il contagio, ma a generare sospetto e a sparare il proiettile del contagio su tutti i corpi della terra, a spararci il virus addosso a noi tutti.

Non potrà evitare il contagio chi deve uscire di casa per sopravvivere, né chi si prende cura degli altri per lavoro; non potrà evitarlo chi non ha una casa dove rifugiarsi, né chi ha un corpo debole. Non potrà evitare il contagio chi abita i sud del mondo, né chi si prende cura di sua madre, dell’amante, di una figlia o un’amica malata perché nessun altro può farlo; non potrà evitare il contagio chi non ha a disposizione mascherine protettive o disinfettante; né potranno farlo coloro che non hanno acqua e sapone. A centinaia di migliaia si consegneranno a un’infezione imminente, in molti casi inevitabile e in altri volontaria.

Molti vivranno la loro malattia in segreto, come chi commette un delitto, per non essere isolati dalla polizia, espulsi dai vicini, ripudiati dallo Stato, e perché non gli venga impedito di oltrepassare una frontiera. Con il passare del tempo, la malattia diventerà un delitto che deve essere segnalato e denunciato.

La militarizzazione, non solo delle città ma perfino del linguaggio con cui si viene gestita l’epidemia, vuole collocarci su due versanti: vigilanti sani e malati sacrificabili, separati entrambi dal panico.

La militarizzazione delle strade non agisce sull’epidemia, ma sull’ordine sociale per legittimare il controllo governativo sul comportamento delle persone, come meccanismo di protezione dal contagio.

L’isolamento individuale e in famiglia, il solo permesso, non è un provvedimento per contenere l’epidemia, ma per rafforzare un ordine sociale più facile da controllare, intimidire, idiotizzare, sfruttare e neutralizzare.

In questa patologia, tutte le frontiere geografiche si sono moltiplicate e rafforzate, ma se ne sta costruendo anche una nuova, una frontiera del significato della vita stessa: la frontiera tra i vivi e i morti. Disfarsi di un corpo umano morto con lo stesso procedimento con cui ci si disfa della spazzatura, vuol dire spogliare i corpi vivi di valore.

Cosa accadrà nel cuore dei vivi, nelle loro abitudini e memorie, senza il lutto, senza la perdita, la sepoltura, con il ricordo infranto e igienicamente spezzato, come se noi morti non fossimo morti ma desaparecidos di un regime fascista?

È questa la domanda a cui voi dovrete rispondere.



Fonte: Blog El Rumor de la Moltitudes su El Salto

Traduzione per Comune-info: Leonora Marzullo


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