Dedicato al “Transcomando” che mi
rallegra la vita a distanza, mentre volo come un pipistrello perseguitato nella
notte del COVID-19
Sono già diversi giorni che mi sveglio piangendo. A farmi aprire gli occhi
sono le lacrime che corrono sul viso, oppure è l’impulso di piangere ancora.
Non è un dolore cosciente che viene dalla perdita di una persona amata, morta
per coronavirus, che provoca quel pianto. Non è neanche una
depressione frutto del confinamento. È una sensazione provocata da
fuori, come se i morti comunicassero con me, mentre abbandonano questo mondo. Non
hanno bandiera, né età, né pelle. Non hanno nemmeno volto. È solo l’impulso
della stessa vita che va via e che, nel cammino, mi cerca per
depositare nei miei sogni un ultimo vento d’addio, un odore, una sensazione, un
soffio di morte che se ne va.
Mi alzo stremata dalla fatica notturna che questo legame comporta e cerco
di collocarlo da qualche parte, guardo il soffitto, cerco altri segnali. Niente
da fare.
Il mondo è diventato un cimitero carico di energie funebri?
Sono i morti di Guayaquil che, nel loro cammino, vengono ad avvertirmi
dell’inevitabile? Sono quelli che vengono da più lontano, magari dalle fosse
comuni di New York, e arrivano fino al mio corpo vivo, a chiedermi un commiato?
Mi trovano così, per caso, mentre sperimentano le loro morti desolate?
Mi alzo e senza pensarci mi vesto come per andare a un funerale. Sotto la
doccia, mi ricordo di come i morti apprezzassero quando, nel mio lavoro
in Germania, mi toccava di pettinarli, lavarli e vestirli dei loro sudari. A
me piacerebbe, e questo è un incarico, che le mie compagne mi
bruciassero con un bidone di benzina e mucchi di palo santo sulla porta della nostra amata
casona rossa.
Mentre penso alla mia stessa morte e vedo gli abiti che sto per
indossare trasformati nel mio sudario, capisco perché i morti vengono a
trovarmi nella notte: vengono a depositare le loro testimonianze nel mio petto
come si trattasse di una cassetta della posta, è per questo che sono così
esausta, anche se ho dormito tanto profondamente e a lungo.
Ricostruzione della visita all’obitorio
Mi apre le porte una donna che avrebbe dovuto avere davanti certamente
molti altri anni di vita. È morta come tutti, ma non si è sdraiata, ha
preferito fare lo sforzo di aprirmi la porta per compiere il rito che ha
caratterizzato tutta la sua vita: prendere lei la responsabilità dell’ultimo
sforzo. Mi dice che è morta lentamente, che non riusciva a distinguere la
stanchezza della vita dai sintomi mortali del coronavirus. È cosciente di esser
morta di coronavirus, però pensa che la malattia letale che lentamente
l’ha uccisa sia stata l’essere “donna”.
Dall’altro lato della vita chiede, per favore, che questa storia del “Resta
in casa” sia cambiata in “Abbi cura della tua vita e di quella degli
altri”. L’imperativo “Resta in casa!” sembra inventato da una madre
tiranna che ti impedisce di appropriarti della notte, da un padre controllore
che non ti lascia andare all’università, da un marito insopportabilmente geloso.
È convinta che questo “Resta in casa” sia parte di una cospirazione patriarcale
degli uomini che dirigono l’Organizzazione Mondiale della Sanità contro le
donne del mondo. La guardo perplessa e mi dice: “Ero infermiera, so come
ragionano i medici e i direttori di ospedali, ragionano come mariti repressori”.
Mentre parliamo, si avvicina una casalinga e dice: “Il problema non è la
casa ma la famiglia; la quarantena in famiglia è un inferno, avrei preferito
che ci fossimo organizzate per passarla tra amiche o vicine di casa”; “Tra
amanti!”, grida qualcuno dal fondo. Noi infermiere avremmo dovuto passarla
insieme la quarantena, ci saremmo capite meglio e accolte con amore al ritorno
dal lavoro; ci saremmo massaggiate i piedi a vicenda, avremmo fatto i turni
secondo la stanchezza e nessuna si sarebbe azzardata ad accusare l’altra di
portare la malattia in casa. Una venditrice ambulante aggiunge: “Sai che bello
mettere la squadra di calcio del quartiere in quarantena nella stessa casa!“.
Nell’immaginarlo scoppia a ridere, mentre man mano le si staccano i denti che
subito diventano stelle.
E i poliziotti? “Che facciano la quarantena insieme, così si sopportano tra
di loro”. Si comincia a creare un gran baccano e allora torna a prendere parola
la casalinga: “Sentite, questo non è uno scherzo, la quarantena non può essere
fatta in famiglia, perché siamo sempre noi donne a finire sfruttate, a
cucinare, lavare, pulire e a consolarli, a tavola come a letto”. “È vero”, dice
un’altra, “però, se le cose stanno così, il punto non è la quarantena in
famiglia, ma va dissolta la famiglia stessa, quello che stavamo già facendo
prima che ci beccasse la pandemia”.
Quest’obitorio gigante in cui mi trovo è un luogo di fortuna, i cadaveri
non sono ordinati né classificati, sarebbe impossibile. La maggior parte si è
già distesa con le mani sul petto, altri ancora in piedi mi fissano senza
occhi, mi parlano senza bocca, alcuni si sono arrampicati sui muri e altri si
sono sdraiati sul tetto. A poco a poco, vado perdendo lo spavento con
cui ero arrivata, nulla è paragonabile all’immagine di ciò che mi trovo
davanti. Penso all’obitorio di La Paz, che dev’essere uno dei più
sinistri al mondo, dove tante volte sono andata a cercare donne fatte
scomparire o assassinate; lì tengono i cadaveri per terra, mentre si vanno
decomponendo.
Qui è diverso, i morti, come gli animali, hanno preso uno spazio gigantesco
nella città vuota e stanno in quello che sembra essere un parlamento. A momenti mi pare il
Pentagono, il Vaticano, la più grande cattedrale del mondo, oppure uno studio
cinematografico… Non riesco a distinguere bene, perché tutto è occupato dai
cadaveri senza spazio per niente altro.
Più che morti, siamo rifiuti
Sono arrivata qui attratta da un magnetismo a cui non potevo opporre
resistenza, ma non so perché e non mi azzardo a domandarlo. Sono viva tra queste
centinaia di migliaia di morti, non so cosa vogliano da me, né so cosa fare.
Non so cosa dire, non ho parole, né penso di provare a consolarli, sarebbe
ridicolo. Vorrei riuscire a nascondere la mia paura, ma davanti a loro
è impossibile. Hanno il potere dei morti di percepire tutto, i loro sguardi mi
si conficcano nel petto che pulsa come stesse per esplodere. Resto muta,
impaurita, immobile, non ho nulla da offrire a questa gente, nemmeno la
conosco, so solo che, anche se già morta, sta per cessare di esistere ed è a
questa transizione finale che vuole che assista.
Perdo la nozione del tempo, ho la febbre, l’immagine è nebulosa. Riconosco
mani, cavità oculari, frammenti di gambe, teste con il collo ma senza corpo.
Non c’è sangue, i corpi sono inglobati gli uni negli altri senza che si
distingua bene dove termina uno e inizia l’altro; c’è un liquido
turchese denso e splendente che sembra accoglierli, circola capriccioso tra
i corpi facendo le curve, salendo per le gambe e scendendo dalle spalle in
mezzo a tutti. Sottovoce chiedo del liquido turchese alla donna che mi ha
aperto, lei mi risponde: “Sono le nostre lacrime, è il nostro pianto che ci
bagna, ci illumina e ci unisce”.
Cominciano a parlare in un coro multilingue e all’unisono gridano
una frase che mi si conficca nel cuore come un coltello: “Siamo la prima
generazione di morti spazzatura, come immondizia siamo trattati e gettati via,
si disfanno di noi senza alcun congedo. Nessuno inventa un funerale, nessuno
inventa un commiato, nessuno ci accompagna nell’ultimo viaggio, tu che
appartieni ai vivi, appartieni anche alla prima generazione umana che tratta i
suoi morti come rifiuti”.
Le fosse comuni dei morti nel Mediterraneo, uccisi mentre
cercavano di arrivare in Europa, le fosse comuni dei senzatetto a San
Paolo – che la polizia (brasiliana, ndt) raccoglie la
mattina per poter pulire le strade -, le fosse comuni senza nome non
sono più una lontana eccezione che voi potevate scegliere di ignorare, oggi
sono diventate una norma sanitaria. Ci gettano via nella notte,
mentre dormono, con gli stessi procedimenti con cui si svuotano i cassonetti
all’angolo.
La nostra ultima volontà non è di contagiarli, ma di rompere
quest’equilibrio sanitario che ci nasconde per non andarcene senza dire addio.
Vogliamo attraversare le buste dell’immondizia con cui hanno avvolto i
nostri corpi. Vogliamo oltrepassare i numeri dei rapporti militari del mondo che, in
bocca ai ministri della sanità, annunciano il numero dei morti del giorno, quei
rapporti di cifre con cui cancellano i nostri nomi per trasformarci in
quantità. Quantità di morti che, insieme a Trump, i capitalisti del
mondo celebrano perché ogni morte è un risparmio in sicurezza sociale, in
spazio, in contaminazione, in ricerca, maternità o alloggio. Ogni morto una
celebrazione, meglio se vecchio, meglio se povero, meglio se del terzo mondo,
perché, anche se dirlo non è più di moda, ci sono un terzo e un quarto mondo e
in ogni società c’è un sud. Quando i morti vengono da questo sud dove
non hanno nomi, né volti, la celebrazione capitalista è maggiore e si considera
il COVID-19 un lavoro di igiene sociale.
Ogni morto è una celebrazione capitalista, perché è una dose gratuita di
paura con cui iniettare il quartiere, il sindacato, il paese, il mondo. Per questo la
rigorosa comunicazione quotidiana dei governi con la società serve ad
annunciare il numero di morti; non ci possono vegliare, nominare, né dire
addio; ma, comunque, non possono smettere di contarci.
Abbiamo deciso di abbandonare l’umanità per integrarci come resti umani nel
mondo animale, un mondo che ci ha ricevuto divorando i nostri corpi,
riempiendoli di vermi, disintegrando con la terra la nostra solitudine e, nel
nostro dolore, ci sono cresciute zampe di capra, maiale, mucca, gallina,
pipistrello; ma prima di diventare un tutt’uno con gli animali vogliamo
lasciare questo testamento.
Un testamento dalla frontiera tra i vivi e i morti, tra i sani e i malati
Il COVID-19 è l’ebola dell’Africa o la dengue dell’America Latina, ma ha la
forza di paralizzare il mondo, perché i corpi che ha colpito in massa sono
corpi europei. Quello che succederà al resto della gente del pianeta e quando il
virus colpirà in massa i corpi del sud del mondo cesserà di essere una notizia. Perciò
è importante parlare di questa tragedia quanto prima, per dire ciò che oggi il
mondo intero è ancora disposto ad ascoltare: alla frontiera tra vivi e morti è
stato eretto un muro fatto di regole, obbedienza, rassegnazione, paura e
silenzio. Non serve a proteggere le vite dei vivi ma il potere dei
potenti. Quel muro di paura funziona come un plotone di esecuzione,
così come l’igienica e clandestina eliminazione dei corpi, invece di
seppellirli, è parte di quello stesso terrore di Stato.
L’affanno nel determinare, tracciare, accertare e precisare da dove venga
la malattia, distinguendo l’origine del contagio, il paziente zero e facendo
sapere al mondo che si stava cercando il corpo dell’untore, è il vessillo che è
servito per chiudere le frontiere, controllare i movimenti e alimentare
razzismi, nazionalismi e regionalismi.
Non c’è paziente zero, perché se ci fosse allora dovrebbero esserci anche
superficie zero, luogo zero e merce zero. Grazie al concetto di paziente zero,
noi abbiamo smesso di poterci muovere, mentre le merci hanno continuato a
circolare. Frenare la mobilità della gente non è servito a frenare il contagio, ma a
generare sospetto e a sparare il proiettile del contagio su tutti i corpi della
terra, a spararci il virus addosso a noi tutti.
Non potrà evitare il contagio chi deve uscire di casa per sopravvivere, né
chi si prende cura degli altri per lavoro; non potrà evitarlo chi non ha una
casa dove rifugiarsi, né chi ha un corpo debole. Non potrà evitare il contagio
chi abita i sud del mondo, né chi si prende cura di sua madre, dell’amante, di
una figlia o un’amica malata perché nessun altro può farlo; non potrà evitare il
contagio chi non ha a disposizione mascherine protettive o disinfettante; né
potranno farlo coloro che non hanno acqua e sapone. A centinaia di migliaia si
consegneranno a un’infezione imminente, in molti casi inevitabile e in altri
volontaria.
Molti vivranno la loro malattia in segreto, come chi commette un delitto,
per non essere isolati dalla polizia, espulsi dai vicini, ripudiati dallo
Stato, e perché non gli venga impedito di oltrepassare una frontiera. Con il
passare del tempo, la malattia diventerà un delitto che deve essere
segnalato e denunciato.
La militarizzazione, non solo delle città ma perfino del linguaggio con cui
si viene gestita l’epidemia, vuole collocarci su due versanti: vigilanti sani e
malati sacrificabili, separati entrambi dal panico.
La militarizzazione delle strade non agisce sull’epidemia,
ma sull’ordine sociale per legittimare il controllo governativo sul
comportamento delle persone, come meccanismo di protezione dal
contagio.
L’isolamento individuale e in famiglia, il solo permesso, non è un
provvedimento per contenere l’epidemia, ma per rafforzare un ordine
sociale più facile da controllare, intimidire, idiotizzare, sfruttare e
neutralizzare.
In questa patologia, tutte le frontiere geografiche si sono moltiplicate e
rafforzate, ma se ne sta costruendo anche una nuova, una frontiera del
significato della vita stessa: la frontiera tra i vivi e i morti. Disfarsi di
un corpo umano morto con lo stesso procedimento con cui ci si disfa della
spazzatura, vuol dire spogliare i corpi vivi di valore.
Cosa accadrà nel cuore dei vivi, nelle loro abitudini e memorie, senza il
lutto, senza la perdita, la sepoltura, con il ricordo infranto e igienicamente
spezzato, come se noi morti non fossimo morti ma desaparecidos di
un regime fascista?
È questa la domanda a cui voi dovrete rispondere.
Fonte: Blog El Rumor de la Moltitudes su El Salto
Traduzione per Comune-info: Leonora Marzullo
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