Nucleare e sistemi elettrici
nel quadro della transizione energetica
Il dibattito, ampio e a tutto campo, che
riguarda il tema della transizione ecologica è spesso attraversato da una sorta
di schizofrenia concettuale che riguarda l’inquadramento stesso del problema:
si tratta di cambiare il modo di produrre l’energia, o si tratta di cambiare i
“connotati” più marcati di questa società?
Nel primo caso il compito sarebbe ridotto (si
fa per dire) a individuare le fonti di energia meno impattanti dal punto di
vista delle emissioni totali, fermo restando l’impianto generale delle attività
industriali e terziarie che sono alla base di questo sistema-mondo. Nel
secondo, sarebbe necessario un intervento di chirurgia plastica per cambiare
almeno la “faccia” di questo sistema; vale a dire abbattere, insieme alle
emissioni, il volume complessivo delle merci prodotte e consumate,
riqualificandole in termini di utilità sociale, durata e “compatibilità
socio-ambientale” (cioè sia per la natura che per le persone).
La “Transizione ecologica”, stricto
sensu, dovrebbe corrispondere al secondo caso, ma nella trattazione
corrente si è finiti a parlare esclusivamente del primo che a questo punto,
nonostante gli imbellimenti delle dichiarazioni ufficiali e la propaganda che
le accompagna, altro non è che una surrogazione di fonti di energia che per
eleganza viene chiamata “Transizione energetica”.
Per fare che cosa? Esplicitamente per
abbattere le emissioni, implicitamente per dare corso alla industria 4.0, cioè
maggiore informatizzazione dei processi produttivi e del terziario, oltre a un
deciso impulso alla robotizzazione. Ciò comporta la trasformazione dell’attuale
mix energetico in una “monocultura” basata esclusivamente (o quasi)
sull’utilizzo di energia elettrica.
Nei confronti di questo “modello tutto
elettrico”, mentre si registra una sostanziale convergenza tra ambientalisti e
una cospicua parte del mondo imprenditoriale (vedi discorso di Emma Marcegaglia
al summit del B20 svoltosi lo scorso 7 ottobre, con la presenza di Mario
Draghi), persistono forti divergenza sul come arrivarci, cioè se con le sole
energie rinnovabili (come sostengono gli ambientalisti) o se, come caldeggiato
dalle imprese, anche con un utilizzo rimodulato delle fonti tradizionali, quali
il gas naturale e l’energia nucleare. Su questa ultima impostazione convergono
tutte le nazioni del mondo che conta: Stati Uniti, Canada, Cina, Russia,
Giappone, India, Corea del Sud, Unione Europea (dove pende addirittura la
richiesta francese di equiparare il nucleare alle fonti rinnovabili) a cui
vanno aggiunti Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Iran ed Egitto, oltre alle
agenzie internazionali come l’IEA che nelle proiezioni al 2050 (anno fatidico
per il raggiungimento delle emissioni zero) arriva a contemplare un apporto
doppio di fonte nucleare rispetto al 2020 e una riduzione del gas naturale
dall’80% del 2020 al 20% del 2050, sia pure condizionato dall’uso del CCS
(Cattura e sequestro della CO2).
Prima di entrare nel merito delle due opzioni,
è necessario fare una premessa: l’enunciato delle emissioni zero al 2050, anche
se raggiunto, presuppone (senza dichiararlo) che il divario tra paesi ricchi e
poveri aumenti, dato che questi ultimi, non possedendo le risorse economiche
per mettere in atto la trasformazione dei loro sistemi energetici (sia che si
tratti della versione ambientalista che di quella imprenditoriale), dovranno
indebitarsi ancor più di quanto lo sono ora. In caso contrario i paesi ricchi
potranno anche vantarsi -per esempio – del fatto che nelle loro metropoli si
respirerà meglio, grazie ad un sistema di mobilità elettrica che nei paesi
poveri, invece, sarà ancora alimentato dai carburanti di origine fossile, ma
questo non risolverà i problemi legati al riscaldamento globale dato che
l’atmosfera non ha confini. Tertium non datur, a meno che i ricchi
non paghino la transizione dei poveri.
Ciò premesso, l’opzione imprenditoriale, per
quanto appaia più percorribile, non risolve i problemi del riscaldamento globale
essendo, più che altro, una grande opera di mitigazione dei cambiamenti
climatici, peraltro basata su artifici concettual-tecnologici come il CCS,
l’idrogeno “blu” o l’assimilazione dell’energia nucleare a una fonte pressoché
rinnovabile.
L’opzione con le sole rinnovabili è senza
dubbio la più corretta dal punto di vista dell’impatto sull’ambiente ed è in
grado, teoricamente, di conseguire gli obiettivi previsti nel 2050. Tuttavia,
per come è formulata, non è esente da controindicazioni realizzative e contraddizioni
concettuali che se non affrontate, rischiano di compromettere seriamente la sua
validità. Fra queste ci sono: un bilanciamento non propriamente favorevole tra
riduzione della CO2, conseguente alla abolizione dei motori a combustione
interna, e produzione della CO2 dovuta alla fabbricazione e smaltimento di
batterie per autotrazione elettrica che comporta un consistente aumento delle
attività estrattive di minerali come il litio1, ma anche di altri minerali
pregiati (come le terre rare) che sono indispensabili nel settore
automobilistico e in quello della generazione elettrica (eolico e
fotovoltaico); una sottovalutazione del ruolo e del peso della energia nucleare
nella realizzazione della transizione energetica; un approccio superficiale
alle problematiche relative ai sistemi elettrici integrati.
Il rilancio del nucleare
Non sono pochi coloro che, specie nel nostro
paese, danno per scontata la non credibilità di una rinnovata opzione nucleare,
anche se a riproporre il tema è il ministro della Transizione ecologica. In
realtà queste esternazioni, accolte da numerose critiche (comprese le mie)2, sono poco più di un vagito se
rapportate all’incessante lavorio che la lobby nucleare sta svolgendo nel mondo
e che non può essere rimosso solo perché, in quanto vincitori di due
referendum, non ci riguarda da vicino: l’obiettivo delle emissioni zero, con
tutti gli annessi e connessi, o è per tutti o non è, non solo per “riguardo”
all’etica ma, più semplicemente, perché l’atmosfera è la stessa per tutti.
Negli ultimi anni si è assistito ad una sorta
di effetto rimbalzo per quanto riguarda l’atteggiamento dell’opinione pubblica
nei confronti del nucleare e dei combustibili fossili: più cresceva (a ragione)
la preoccupazione per gli effetti dei cambiamenti climatici più si è fatta
evidente l’insofferenza verso tutto ciò che brucia e fa fumo, provocando -di
rimbalzo – una maggiore attenzione alla proposta nucleare, cosa prontamente
sfruttata dalla WNA (World Nuclear Association) che propone di costruire 1000
reattori nucleari nei prossimi 30 anni facendo leva su questi aspetti:
– l’energia nucleare si assume tutti i costi
del ciclo produttivo (decommissioning e trattamento rifiuti) mentre ciò non è
richiesto ad altre fonti che usano l’atmosfera come discarica, ma nemmeno alle
rinnovabili cui non è imposto di smaltire gli impianti a fine vita:
– l’energia nucleare previene molte migliaia
di morti causate ogni anno dall’inquinamento dell’aria da fonti fossili che per
di più godono di sovvenzioni che l’energia nucleare non ha;
– l’energia nucleare è svantaggiata rispetto
ad altre fonti a causa delle diverse normative nazionali che la regolano. Ci
vuole quindi una licenza standard valida internazionalmente.
Tanto è forte la tensione ingenerata
dall’obiettivo delle emissioni zero, che pochi giorni prima della conferenza
sul clima svoltasi a Madrid nel dicembre 2019, il Parlamento Europeo ha
approvato due risoluzioni: una contenete la dichiarazione di stato di emergenza
climatica e ambientale (come richiesto dai movimenti ambientalisti) e l’altra
in cui si “ritiene che l’energia nucleare possa contribuire al
conseguimento degli obiettivi in materia di clima in quanto non produce gas a
effetto serra e che possa altresì assicurare una quota consistente della
produzione di energia elettrica in Europa.”
Questo tentativo di accrescere il gradimento
dell’energia nucleare presso l’opinione pubblica è accompagnato da ingenti
programmi di investimento nei paesi a più consolidata vocazione nucleare, con
l’esclusione della Francia che, al momento, sconta una crisi (anche economica)
del settore.
In Russia, dopo l’incidente di Chernobyl,
l’intero settore delle tecnologie nucleari è stato ristrutturato ed adeguato
agli standard occidentali, attraverso la valorizzazione del vecchio complesso
militare-industriale che oggi, nella sigla Rosatom, racchiude una summa di
conoscenze scientifiche e tecnologiche che in occidente risultano disperse e
confliggenti: oltre 350 società con più di 255.000 addetti fanno del settore
nucleare russo la punta avanzata di questa tecnologia, specie per ciò che attiene
la nocciolistica (sviluppo di codici di calcolo nucleari e termoidraulici), la
ricerca sui materiali (leghe speciali e combustibili nucleare).
I cinesi, che come in altri campi, imparano in
fretta, dopo aver “sperimentato” la tecnologia occidentale, hanno sviluppato
una loro filiera nucleare (anche nei reattori avanzati) che per ora non punta
alle esportazioni avendo da soddisfare una domanda interna gigantesca per
raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero: oltre 500 nuovi reattori di modo
che, nel 2050, il nucleare rappresenti il 28% della produzione elettrica e le
rinnovabili circa il 60%.
Negli Stati Uniti, dopo aver scontato gli
effetti conseguenti all’incidente di Fukushima (un disastro per la tecnologia
USA, essendo tutti reattori della General Electric), si sta cercando di
riconquistare le posizioni perse tanto che, nel 2020, il congresso ha approvato
un piano di rilancio del settore, centrato su tre aspetti:
1- Ripristinare la sovranità degli USA
nell’uso dell’elemento naturale più potente del pianeta – l’uranio – per usi
pacifici e scopi di difesa,
2- Riconquistare il primato USA nella
progettazione dei reattori ad acqua leggera;
3- Garantire il primato degli Stati Uniti
nella diffusione internazionale dei reattori di prossima generazione.
A questi bisogna aggiungere Giappone, Corea
del Sud, India e ovviamente la Francia che non può assolutamente permettersi di
essere tagliata fuori dalla partita, pena un crollo sostanziale della sua
economia. Il nucleare infatti è un settore dove la catena del valore assume
caratteristiche di assoluto rilievo per l’economia di una nazione, sia per la
numerosità dei comparti tecnologici interessati sia per il valore dei singoli
componenti prodotti, oltre allo sviluppo di settori di punta come
l’Intelligenza artificiale: e questo è un grande appeal che non va
sottovalutato.
Questa esposizione delle maggiori economie del
mondo verso un rilancio del nucleare costituisce una ipoteca sul futuro della
transizione energetica che sposta decisamente l’ago della bilancia in favore
della opzione impresariale.
Ma il nucleare è un’anatra
zoppa
Tralasciando le concezioni demonizzanti
dell’energia nucleare, i punti deboli (e irrisolti) che la contraddistinguono
sono: la sicurezza; la gestione dei rifiuti; l’efficienza termodinamica;
l’esauribilità del ciclo e l’inquinamento da CO2.
La sicurezza dei reattori
nucleari si valuta con metodi
probabilistici (PRA, Probabilistic Risk Assessment) e prima dell’incidente di
Fukushima era stimata in 10-5 eventi/anno per quanto riguarda gli
incidenti gravi (fusione del nocciolo) e 10-6 eventi-anno per consistenti
rilasci radioattivi nell’atmosfera, ovvero che incidenti di questo tipo
potevano accadere ogni 100.000 o 1.000.000 di anni, dove gli «anni» vanno
intesi come anni/reattore cioè ore di funzionamento cumulate. Ora considerato
che gli anni/reattore fino ad allora cumulati da tutti i reattori che avevano
funzionato e da quelli in funzione nel mondo ammontavano a 14.000
anni/reattore, si comprende che la probabilità dichiarata di 10-5 o
10-6 eventi-anno era frutto di calcoli basati in parte sulla casistica
incidentale accumulata fino ad allora, ma soprattutto sull’uso di modelli di
calcolo probabilistici di cui è assai difficile valutare l’attendibilità, anche
se posti in relazione con i migliori criteri di progetto. Dopo Fukushima però,
dato che gli incidenti di fusione nocciolo furono almeno 3 (perché ogni
reattore fa storia a sè), l’indice di probabilità di incidente grave deve
essere aumentato di ben tre ordini di grandezza. La sicurezza dunque si
conferma essere un’alea, tant’è che nessuna impresa, agenzia o ente nucleare si
permette più di fornire dati numerici sulla probabilità di incidenti.
La gestione dei rifiuti, dal punto di vista delle normative IAEA (International Atomic
Energy Agency) sui depositi geologici,3 è ferma al capitolo di Yucca
Mountain, quando, nel 2004, la corte federale del distretto di Columbia bocciò
il deposito sotterraneo di scorie ivi destinato, perché il progetto, peraltro
approvato dal DOE (Department of Energy) e dall’EPA (Environmental Protection
Agency), garantiva la sicurezza del deposito per 10.000 anni, mentre l’arco di
tempo da prendere a riferimento doveva essere di 300.000 anni che corrisponde
al tempo di dimezzamento radioattivo dei rifiuti nucleari più pericolosi, come
aveva sostenuto nel dibattimento la National Academy of Science. Tutti i
progetti di depositi geologici che oggi sono in fase di studio o realizzazione,
tendono ad aggirare questo scoglio insormontabile tacendolo all’opinione
pubblica. In sostanza la gestione dei rifiuti si conferma essere una pesante
eredità per le future generazioni.
L’efficienza termodinamica, in un contesto tecnologico decisamente orientato al risparmio
energetico, dovrebbe essere un criterio sufficiente, già di per sé, a bocciare
l’energia nucleare. Fra tutte le tecnologie affermatesi nel secolo scorso
infatti, quella nucleare mostra di non aver progredito affatto in termini di
rendimento: dopo 70 anni dall’avvio dell’atomo di pace i rendimenti di una
centrale elettro-nucleare sono passati dal 31% al 33%, mentre la generazione
elettrica da fonti convenzionali è passata dal 33 % ad oltre il 55% e perfino
l’odiato motore a combustione interna ha fatto passi da gigante, se appena si
confrontano i consumi specifici di un’automobile odierna con quelle di 50-60
anni fa. Da questo punto di vista i nuovi reattori (cosiddetta IV generazione
oppure gli SMR – Small Modular Reactors) non presentano miglioramenti
significativi, fermo restando che dei 72 progetti di SMR censiti dall’IAEA
nello yearbook del 2020, molti sono in fase di progettazione
concettuale, mentre gli altri non hanno superato la fase del prototipo e solo uno
(il reattore galleggiante russo) è divenuto operativo.
L’esauribilità del ciclo
nucleare è strettamente legata
alla disponibilità di uranio, senza il quale non è possibile far funzionare gli
attuali impianti nucleari. Ciò è tanto più importante perché in condizioni di
scarsità delle risorse energetiche e di crescente instabilità delle relazioni
mondiali come quelle attuali, il problema della sicurezza degli
approvvigionamenti energetici riveste grande importanza politica. Capita,
purtroppo non di rado, di imbattersi in affermazioni del tipo “il nucleare è
una fonte inesauribile” dato che è largamente diffuso nella crosta terrestre o
addirittura nell’acqua di mare e comunque, sostengono molti opinion maker,
quello che è già disponibile si trova in aree geopolitiche stabili ed affini al
punto di vista europeo-occidentale, come il Canada e l’Australia. Ai ritmi
attuali di consumo però, ed immaginando che le riserve di questi due paesi (42%
del totale mondiale) siano destinate a rifornire esclusivamente l’occidente,
l’uranio canadese ed australiano basterebbe a far funzionare le centrali
nucleari europee e del nord America per appena trenta anni. Giocoforza quindi
approvvigionarsi anche da altri paesi fornitori come la Nigeria e il Kazakhstan
che, secondo i canoni occidentali, non possono certo definirsi paesi stabili,
oppure rivolgersi alla Russia con la quale l’Europa e
gli usa intrattengono dei rapporti piuttosto problematici.
A conti fatti dunque la tesi per cui il
nucleare svincolerebbe le economie occidentali da certi fattori di rischio
geopolitici non è così convincente, anche perché c’è un altro aspetto
sottaciuto dell’attuale mercato dell’uranio che dovrebbe indurre a più
ponderate riflessioni: quello per cui l’approvvigionamento di questa materia
prima risiede nelle mani di un cartello internazionale. La produzione mondiale
di uranio infatti è controllata da quelle che potremmo chiamare «le sette
cugine dell’uranio»: sette compagnie che controllano l’85% della produzione
mondiale di uranio e che operano indistintamente su tutti i mercati con l’unico
interesse di valorizzare i propri investimenti, per di più in regime di
sostanziale monopolio e dunque in grado di condizionare pesantemente i futuri
scenari energetici come, del resto, avvenne tanti anni fa per opera delle sette
sorelle del petrolio.
Quanto all’inesauribilità dell’uranio non
bisogna confondere tra disponibilità teorica ed effettiva sfruttabilità. Da un
lato bisogna considerare che i nuovi impianti sono progettati per una vita di
esercizio di 60 anni e che per molti di quelli in funzione ne è stata
prolungata la vita operativa; dall’altro gli scenari delineati per il rilancio
nucleare prevedono che il grosso dei nuovi reattori dovrebbe entrare in
funzione tra il 2030 e il 2040 (il condizionale è d’obbligo). Ciò implica che
la disponibilità di uranio necessaria al loro funzionamento dovrebbe essere
assicurata almeno fino all’anno 2100. Ai ritmi attuali di consumo di uranio nel
mondo e considerando il naturale turn over tra vecchi e nuovi impianti, le
riserve accertate bastano ad alimentare le centrali nucleari oggi in funzione
per un periodo di tempo non superiore ai 60 anni a far data da oggi. Un
rapporto della WNA (World Nuclear Association) del 2008 stima un fabbisogno
annuo di uranio al 2030 pari a 110.000 ton (scenario di riferimento) e di
150.000 t nel caso di maggiore crescita della potenza nucleare installata, cioè
almeno il 50% ed il 100% in più degli attuali consumi. Tralasciando le ipotesi
più temerarie, c’è da chiedersi dove verrà reperito l’uranio necessario al loro
funzionamento, tenuto conto che la sola Cina, ove realizzasse i programmi sopra
descritti, ne consumerebbe da sola 90.000 ton?
Secondo i propugnatori più accesi del
nucleare, in futuro si potrà estrarre uranio dalle formazioni granitiche o dal
mare dove il suo contenuto è, rispettivamente, di 4 ppm e 0,003 ppm. Ora 4 ppm
corrispondono a 4 parti di uranio su un milione di parti di granito, cioè 4
grammi su un milione di grammi che equivalgono ad una tonnellata. Per il funzionamento
di un reattore da 1000 mwe occorrono ogni anno circa 160 t di uranio
naturale (escluso il primo nocciolo). Per ottenere un simile quantitativo di
uranio dal granito occorre estrarre 40 milioni di tonnellate di roccia che deve
poi essere frantumata, trasportata, macinata e trattata chimicamente per
ottenere. Ma c’è un limite alla possibilità di estrarre tutto il contenuto di
uranio dalla sua matrice che, a questi livelli di diluizione, corrisponde ad un
grado di estraibilità del 50%, il che raddoppia il quantitativo di roccia da
estrarre per ottenere l’uranio necessario al funzionamento del reattore, cioè
80 milioni di tonnellate all’anno.4
Per l’acqua di mare i conti sono ancor più
alti: per ottenere 3 grammi di uranio occorre distillare 1000 ton di acqua di
mare (concentrazione 0,003 ppm) che moltiplicate per 160 ton fanno 53 miliardi
di t di acqua (un volume pari al lago di Garda) da trattare ogni anno per la
cui distillazione occorre spendere almeno 1 kwh/t di acqua, cioè 53 miliardi di
kwh/anno mentre un reattore da 1.000 mwe non produce più di 8,7 miliardi
di kwh/anno.
L’aspetto della concentrazione dell’uranio in
natura diviene esiziale anche per un altro motivo. Ad essa infatti si lega
indissolubilmente la presunta bassa emissione delle centrali nucleari in quanto
i processi di lavorazione (estrazione da miniere e trattamenti successivi)
avvengono con impiego di apparecchiature alimentate con combustibili fossili.
Già con un grado di concentrazione dell’uranio pari al 0,10% (attualmente la
concentrazione media dell’uranio estratto è del 0,15%) e tenuto conto dei
quantitativi di materiale di scavo da trattare, le emissioni associate a questi
processi divengono significative fino a raggiungere e superare, nel caso di
concentrazioni via via inferiori, quelle di un impianto a gas a ciclo combinato
di pari potenza di una centrale nucleare.
Il nodo dei sistemi elettrici
Uno slogan diffuso tra gli ambientalisti di
tutto il mondo rivendica l’uscita immediata dai combustibili fossili e,
giustamente, critica gli atteggiamenti dilatori e/o ambigui dei vari governi
che, nel mentre si dichiarano convinti di questa richiesta (chi non è d’accordo
con Greta Thunberg!), operano in senso diverso se non addirittura opposto.
Un caso esemplare è rappresentato dalla
dismissione delle centrali a carbone italiane, prevista nel 2025, in
sostituzione delle quali si prevede, non parchi tecnologici basati su energie
rinnovabili come richiesto dai movimenti ambientalisti, ma un certo numero di
centrali a gas in ciclo aperto e combinato.
Non c’è dubbio che ciò rappresenti un vulnus
all’idea stessa di transizione energetica e induca a sospettare fortemente
delle reali intenzioni del governo; ma se, come detto in apertura, per
transizione si intende qualcosa che cambi solo il modo di produrre
l’energia, senza nulla incidere sul modo di produzione capitalista,
allora bisogna mettere in conto che il funzionamento del “sistema” nel suo complesso
non deve subire cambiamenti eccessivi. Nel caso specifico il sistema è quello
elettrico che nessuna delle opzioni avanzate intende modificare, ovvero un
sistema integrato dove una estesa rete di cavi trasporta e distribuisce
l’energia prodotta dalle centrali elettriche e da singoli produttori, fino
all’ultimo consumatore. Può sembrare una cosa scontata, ma non è così, perchè
il Giappone, ad esempio, è elettricamente diviso in due: una parte opera con
una frequenza di rete di 60 Hertz, mentre l’altra opera a 50 Hertz per cui il
sistema è interconnesso solo in due punti dove operano grandi convertitori di
frequenza che costituiscono un vero e proprio collo di bottiglia. Altro esempio
è l’Arabia Saudita che ha un sistema elettrico a 60 Hertz ed è circondata da
paesi che operano tutti a 50 Hertz, cosa che complica enormemente gli scambi di
energia e, tanto per restare in Italia, è bene ricordare che l’interconnessione
Nord- Sud della rete elettrica a 380 Kv fu iniziata solo nel 1968 e terminata
nel 1970, grazie alla quale diminuirono, specialmente al Sud, i ripetuti
disservizi di rete.
Sono lontani, ormai, i tempi in cui si
verificavano sbalzi di tensione e frequenza con le lampadine che si
affievolivano o che disturbavano radio e Tv, per non parlare dei lunghi
black-out in cui si ricorreva alle candele o al lume a petrolio. I moderni
sistemi elettrici ci hanno abituato ad uno standard di funzionalità tale che se
appena la frequenza “balla”, una parte non secondaria del nostro modo di
vivere, legata all’elettricità, ne risente con evidente fastidio. Sulla rete
europea, che è totalmente interconnessa, la variazione massima consentita della
frequenza è del 1% ( 50 Hertz± 0,5) e del 10% per la tensione (220 V± 22)
per tempi comunque delimitati. Per giungere all’armonizzazione delle regole che
governano i sistemi elettrici (in Italia sono le norme CEI) ci sono voluti
molti anni e molti aggiustamenti procedurali, ma soprattutto si è reso
necessario sviluppare una serie di servizi di rete (cosiddetti ausiliari), che
svolgono una funzione importantissima ai fini della continuità e qualità
dell’erogazione di energia: Programmazione; Controllo e dispacciamento;
Controllo della tensione e della frequenza; Squilibri di rete; Potenza di
riserva calda e potenza di riserva fredda.
Tutto ciò deve essere realizzato in tempi
strettissimi, a volte istantanei, perché l’energia elettrica è un prodotto
particolare che non può essere immagazzinato (a meno di casi particolari e
limitati) per cui deve essere prodotta e immessa in rete solo al momento della
richiesta. L’accensione di una semplice apparecchiatura che avviene
contemporaneamente in milioni di abitazioni, di uffici o di fabbriche,
costituisce una richiesta di carico consistente che per essere esaudita deve
avere un corrispettivo di potenza disponibile istantaneamente da immettere in
rete e questa funzione possono assolverla determinati impianti di generazione
tra cui non ci sono quelli fotovoltaici e quelli eolici.
Questi ultimi, al contrario, costituiscono un notevole fattore di disturbo che
deve essere compensato da altri impianti di generazione che, grazie alla loro
massa rotante costituita dai turbogeneratori, consentono di tenere sotto
controllo la rete. Tipicamente gli impianti più adatti a queste funzioni sono
quelli termoelettrici tradizionali funzionanti a combustibili fossili; quelli
idroelettrici con bacino e quelli turbogas in ciclo aperto per quanto riguarda
i picchi di potenza improvvisi.
La questione delle centrali a carbone italiane
rientra in questa casistica: la loro messa fuori servizio priva la rete del
bilanciamento necessario a compensare i disturbi indotti dalle rinnovabili che,
oltre ad avere un peso rilevante (più di un terzo della generazione) hanno
priorità nel dispacciamento (cioè nella loro immissione in rete); questo
bilanciamento quindi va ricercato in altri impianti che teoricamente esistono,
ma praticamente non possono assolvere alla bisogna. Per comprenderlo occorre
valutare l’insieme della rete elettrica e del parco di generazione italiano.
Rinnovabili vs rete elettrica
La rete elettrica è ”costituzionalmente”
sbilanciata dato il profilo dell’Italia (stretto e lungo) per cui una buona
distribuzione delle sue “maglie” è assolutamente indispensabile. Ciò significa
in primo luogo, distribuire, al meglio delle caratteristiche del territorio,
gli impianti di generazione perché quanto più breve è il percorso che si fa
fare all’energia in rete prima di essere consumata, tanto più si risparmia
(perdite di carico) e tanto meglio funziona la rete: in genere non più di
150-200 Km.
Il parco generazione è altrettanto
sbilanciato, con una preponderanza di allocazione di impianti al Nord rispetto
al Centro sud, specie quelli idroelettrici che per il 73% della potenza si
trovano tra l’arco alpino e l’Appennino emiliano. Ciononostante la rete
elettrica italiana, sotto la gestione pubblica, aveva raggiunto caratteristiche
di assoluto rilievo internazionale, ma con l’avvento del libero mercato la
situazione si è deteriorata raggiungendo il culmine nel 2003, quando un black
out totale di 48 ore mise al buio l’intera penisola. Quell’episodio, invece di
far riflettere su alcune evidenti carenze di sistema, fu l’occasione per
attuare ulteriori provvedimenti di liberalizzazione per la costruzione di nuove
centrali elettriche (quasi tutti cicli combinati) al punto da sovradimensionare
il parco di generazione con margini di sovrapotenza ben oltre la soglia del 30%
(presa in genere a riferimento) e che non ha eguali nello scenario europeo.
Lo sviluppo successivo delle energie
rinnovabili, per la stragrande maggioranza concentrato nel Sud, ha creato un
ulteriore scompenso tecnico che è anche un paradosso economico: regioni come la
Puglia e la Calabria (fra le meno ricche del paese) esportano dal 60% all’80%
dell’energia che producono scontando delle servitù (occupazione di terre) che
giovano al paese, ma non producono benefici di ritorno per il territorio ed in
più complicano la gestione della rete (i cosiddetti “ingorghi” sulla
trasmissione).
In questo contesto viene spontaneo dire, per
quanto riguarda le centrali a carbone da dismettere, che la potenza che si
perde può essere sostituita facilmente, data la abbondanza di centrali
esistente, senza ricorrere a nuovi cicli combinati, ma per le cose dette non è
così scontato perché le centrali idriche del Nord sono troppo distanti dai
punti critici della rete che si trovano al Centro sud, ma anche perché l’acqua
accumulata negli invasi si fa sempre più “preziosa” data la diminuzione delle
piogge e soprattutto dell’innevamento, per cui, dal punto di vista economico,
le società elettriche non hanno interesse a utilizzare i pompaggi. Tra le
centrali a carbone da dismettere, forse solo quelle ubicate al Nord non hanno
bisogno di essere sostituite con impianti a ciclo combinato, ma non Civitavecchia
e Brindisi che sono fra i pochi grandi impianti in grado di stabilizzare la
rete del Centro sud. Tra l’altro questa è una soluzione di ripiego in quanto i
cicli combinati funzionano al meglio come erogazione di base (con modeste
variazioni della potenza) e quindi per impiegarli come centrali da regolazione
bisogna apportare delle modifiche agli impianti.
Nel caso dell’opzione con sole centrali ad
energie rinnovabili, nonostante la presenza delle idriche, la rete elettrica
diverrebbe ingestibile.
Mercato vs sostenibilità
Si può obiettare che esistono soluzioni
tecniche alternative (stazioni di rifasamento con motori e condensatori
adeguati) ed è vero: ma a prescindere dal costo (che non è irrilevante) chi le
dovrebbe realizzare? Le società elettriche? Il gestore della rete, o quello del
mercato elettrico?
Qui si entra nel nocciolo della questione che
rimanda a scelte politiche fatte in passato da tutte le forze politiche e da
tutti i movimenti ambientalisti: la privatizzazione del settore elettrico.
Il sistema elettrico attuale non ha che
pochissime regole vincolanti e tutte le funzioni in esso svolte devono essere
remunerate secondo criteri di mercato altrimenti non possono essere imposte.
Terna, GME (Gestore del mercato elettrico) ne assolvono alcune (dietro compenso
ovviamente) mentre altre sono svolte da alcuni (pochi) produttori di energia
previa remunerazione. Il capacity market che, giustamente, fa tanto discutere è
figlio indiretto del black out del 2003, quando si scoprì che mancava sia la riserva
fredda che la calda (una cosa vergognosa anche perchè l’istruttoria che ne
seguì assolse tutti) dato non che c’era nessun obbligo per i produttori e il
rimedio fu, inizialmente, di riconoscere un compenso tariffario a chi tra loro
si dichiarava disposto a fare da riserva, per poi arrivare all’oggi dove questa
funzione essenziale viene messa all’asta col capacity market. Se un impianto fa
regolazione di rete, questa è remunerata a parte così come sono remunerate
differentemente le riserve calde (come i turbogas in ciclo aperto) e quelle
fredde. Che cosa rappresenta il mercato del giorno prima (operato dal GME) se
non una buona parte della funzione di programmazione del carico? Con quali
criteri i singoli operatori mettono in manutenzione i loro impianti? Come si
stabilisce l’”ordine di merito” per cui una centrale viene dispacciata (messa
in rete) prima delle altre?
Tutte queste funzioni, sotto la gestione
pubblica, erano assolte dall’Enel e i loro costi facevano parte della tariffa
finale che era fissata dal CIP, ora invece sono sparse in diverse società e con
un groviglio di voci e criteri di calcolo piuttosto complicati. Certo, le
tariffe regolate dal CIP e dall’Enel non erano il massimo della trasparenza, ma
non si dica che quelle in vigore oggi lo siano e, soprattutto, che ne sia
giustificato il costo, così come ci vorrebbe maggior prudenza (e conoscenza)
nell’affermare che le tariffe attuali remunerano solo i grandi monopolisti,
perché fin dalla costituzione del mercato elettrico il famigerato price
cap è stato fissato sul costo marginale delle centrali a carbone
(tutte dell’Enel), costo che però era comunque alto rispetto a quello degli
altri impianti a vapore che, una volta dismessi dall’Enel e comprati dai nuovi
padroni del settore, promettevano lauti guadagni.
Negli anni successivi e fino ad oggi, nessun
governo ha messo mano ad una riforma radicale del sistema tariffario, lasciando
che “la mano invisibile del mercato” fungesse da regolatore. Ma così non è e lo
testimonia l’aumento delle tariffe elettriche di questo autunno 2021 che è
stato presentato all’opinione pubblica come conseguenza dell’aumento delle
materie prime, prima fra tutte il gas, ma non è del tutto vero. Innanzitutto
gli aumenti di questo combustibile non sono così elevati come è stato detto e
non c’è una riduzione significativa delle forniture anzi, le esportazioni dal
nord Africa sono aumentate così come quelle dal mare del Nord. Ciò che si è
ridotto sensibilmente, per speculazioni di mercato, sono le scorte di gas che
risultano ai minimi storici dal 2013, per cui è bastato alludere
all’eventualità di un prossimo inverno “rigido” per coprire tutta l’operazione.
Parallelamente, nel mercato europeo, sono aumentati i prezzi della CO2 cioè
degli ETS (Emission trading Scheme, altra “invenzione” truffaldina del libero
mercato) che rappresenta circa il 75% del fatturato globale del mercato
delle emissioni di carbonio europeo, e oltre l’85% del suo valore di mercato e
ciò, unitamente al calo della generazione da fonti rinnovabili, ha spinto in su
le tariffe elettriche seconda la consunta, ma pur sempre attuale, legge della
domanda e dell’offerta, con buona pace dei buoni propositi ambientali dato che,
con l’aumento delle tariffe, conviene mettere in funzione anche i più scassati
impianti di generazione a combustibili fossili.
Questi ed altri sono i frutti avvelenati del
neoliberismo applicato ai sistemi a rete per cui, a mio parere, vale ancora la
domanda: ma questi sistemi costituiscono un monopolio naturale? Forse che al
monopolista Enel non si è sostituito un trust di imprese (come quello
precedente al 1963) che dettano legge sul mercato? Con la differenza, non da
poco, che sono aumentati i costi generali dei servizi ausiliari di sistema ed è
diminuita l’affidabilità delle reti e la qualità del servizio, oltre al fatto
che, non esistendo più quegli strumenti di amministrazione e programmazione
della produzione che consentivano di ottimizzare i sistemi elettrici, tutto è
affidato al mercato: la costruzione di un impianto di generazione, una volta
ottenute le licenze di costruzione e ottemperato alle procedure di VIA, non
deve rispondere a nessun altro criterio (efficienza, utilità, programmabilità,
etc) perchè sarà il mercato a decidere della sua esistenza, ma siccome il
mercato è “taroccato” ci ritroviamo con un surplus di potenza elettrica che,
nonostante i bassi fattori di utilizzazione, risulta lo stesso remunerativa,
mentre i Piani energetici nazionali, quando dicono qualcosa di sensato,
risultano dei whisfull thinking non avendo carattere vincolante.
Questo ganglio peserà negativamente sulla
transizione energetica (e non solo in Italia), qualunque sia l’opzione che si
consideri perché non c’è modo di conciliare le ragioni del profitto con quelle
dell’ambiente a meno di sovvenzionare con denaro pubblico le riconversioni
necessarie, o di inserirle come costi aggiuntivi in tariffa: del resto non
paghiamo già lo smantellamento degli impianti nucleari e lo sviluppo delle
rinnovabili?
(Poche) considerazioni finali
L’obiettivo delle emissioni zero si dovrà
raggiunger fra trenta anni, ma per conseguirlo bisogna agire da adesso, in
questo decennio o non ci sarà più tempo sufficiente.
Sul cammino da percorrere per arrivarci ci
sono due punti di vista contrastanti in cui il nucleare rappresenta il convitato
di pietra: nessuno lo ha invitato espressamente, ma tutti sanno che è fra noi.
Questo gioco di schermaglie non può durare a
lungo perché, come detto, in questo decennio si decide tutto: se l’opzione
ambientalista non estende le sue rivendicazioni anche alla sfera della
produzione e del consumo di merci in senso anticapitalista, il modello “tutto
elettrico” risultante dalla transizione energetica, non potrà realizzarsi senza
il nucleare, o in subordine con un compromesso sul gas.
Anche nell’ipotesi di compromesso sulla
transizione energetica, c’è bisogno di una forte impronta pubblica in sede
Comunitaria e dei singoli Stati, affinché la pianificazione e la gestione della
transizione non sia condizionata dagli interessi del mercato dell’energia.
https://ilmanifesto.it/se-il-ministro-loda-lalternativa-dellenergia-nucleare/
https://ilmanifesto.it/transizione-ecologica-hic-sunt-leones/
3 Il testo
base di questi criteri è il “Safety Principles and Technical
Criteria for the Underground Disposal of High Level Radioactive Wastes” ed il
Principio n.1 così recita: “L’onere per le generazioni future deve
essere ridotto al minimo mediante lo smaltimento sicuro dei rifiuti radioattivi
ad alta attività al momento opportuno, tenendo conto dei fattori tecnici,
sociali ed economici.”
4 Per
avere una idea di cosa rappresenta 1 milione di tonnellate di roccia basta
pensare che una grande nave da carico porta 100.000 tonnellate di materiale:
dunque 1 milione di tonnellate di roccia riempiono 10 navi, per 40 milioni
occorrono 400 navi, per 80 milioni 800 navi. Un‘altra immagine efficace può
essere quella relativa al paesaggio: 80 milioni di tonnellate di roccia
equivalgono ad una collina alta 100 metri e larga oltre un kilometro.
da qui
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