Con l’approssimarsi della cessazione
definitiva dei voli Alitalia, nella data fatidica del 15 ottobre e nei giorni
successivi nostalgia, demagogia, retorica, vile consumerismo degli interessi
“particulari” dei clienti Millemiglia hanno affollato le cronache.
Questo è il fumo denso che ha annebbiato
la vista e messo in sordina due notizie che molto rivelano sul futuro del
trasportatore aereo nazionale nella sua reincarnazione Ita Airways.
La prima, datata al 30 settembre scorso,
in cui il capo della nuova Società, Alfredo Altavilla, ha annunciato l’ordine
di 28 nuovi aeromobili della famiglia Airbus oltre altri 31 in leasing dalla
ALC del mitologico Stefano Udvar-Hazy, sopravvissuto al disastro dei mutui
subprime nel 2008 della AIG-ILFC e vero re Mida dell’aviazione post deregulation.
Benché il permanente squilibrio tra
flotta in proprietà, i 28 acquisti, e flotta in leasing, 31 aeroplani,
lasciasse qualche perplessità sulla reale capacità di comprendere l’unica vera
formula immutabile per la stabilità durevole di chi fa trasporto aereo,
tuttavia l’annuncio, da sé, è apparso una vera rivoluzione.
L’ultima volta che un’impresa italiana di
trasporto aereo aveva annunciato investimenti in flotta era vecchia di ben 15
anni. Quell’impresa era la Air One di Carlo Toto, era il 2007 e l’investimento
era peraltro assai più poderoso di quello di Altavilla, nonostante quest’ultimo
possa contare su una dote di capitale pubblico ben più florida di quello
privato di cui disponeva Toto. L’errore di quest’ultimo fu allora, e col senno
del poi, di annegare quella coraggiosa decisione nelle velleità da pollaio del
progetto Fenice, ma questa è un’altra storia.
Dopo vent’anni di umiliante assenza di
investimenti in flotta, durante i quali i pubblici finanziamenti al
trasportatore Alitalia-ITA sono stati utilizzati per incentivare gli esodi del
personale e per qualche vanesia, nonché costosa, campagna pubblicitaria,
finalmente lo scorso 30 settembre, a vent’anni di distanza dagli ultimi annunci
flotta della Compagnia, è sembrato che cominciasse la riscossa.
È sembrato, almeno fino all’annuncio
della seconda notizia. In un uno-due-tre che toglie il fiato, il 15 ottobre
Altavilla dichiara di aver acquistato il marchio Alitalia dal liquidatore della
Società decotta e il 16 ottobre chiarisce che, però, quel marchio non sarà
utilizzato; infine, il 19 ottobre, nell’intervista rilasciata all’Huffington Post, specifica a chi non vuole intendere
che “la maggior parte dei potenziali alleati con i quali abbiamo discusso del
marchio mi ha detto che Alitalia sarebbe stata una zavorra in una discussione
di alleanza. Era necessaria una discontinuità”.
Il termine “discontinuità” è purtroppo il
letale neologismo coniato dal depresso management Alitalia nel 2002 post Torri
Gemelle che ha progressivamente annichilito l’azienda. In vent’anni sono stati
“discontinuati” eccellenti ingegneri e tecnici di manutenzione, provetti
piloti, appassionati addetti al servizio ai clienti, acuti manager del
trasporto aereo, brillanti sviluppatori e manutentori di sistemi gestionali
oltre ad interi pezzi della rete di collegamenti in Nord e Sud America, Asia ed
Africa.
Discontinuati muscoli, cervello e
scheletro, oggi astuti concorrenti del vettore nazionale sussurrano
all’orecchio del suo nuovo capo che è necessario discontinuare anche il cuore e
i testicoli, ovvero il nome.
Nel diritto romano la damnatio memoriae era la condanna comminata ai
nemici dello Stato e consisteva nella cancellazione di ogni traccia
dell’esistenza del reietto. Come l’imperatore Caligola, il papa Formoso, il
doge Faliero, di Alitalia va decretata la morte civile per volontà di un
qualche misterioso amministratore delegato pro tempore di una Compagnia
straniera.
Uno Stato di 60 milioni di abitanti,
soggetto di rilievo dell’economia europea e mondiale, meta turistica di massima
attrattività per chiunque deve essere evirato di un pezzo rilevante della sua
infrastruttura nevralgica di trasporto.
Come gli agnelli di Jodie Foster
nel Silenzio degli Innocenti, Alitalia-ITA si avvia
mestamente al macello.
Nell’assordante assenza di rumore dei
commentatori ed esperti, le due notizie cruciali, flotta e marchio, sono
passate piuttosto inosservate. Eppure sarebbe da chiedersi, ed indagare magari,
chi ha davvero deciso quell’ordine di flotta da Airbus e il succulento boccone
dei leasing offerto a Udvar-Hazy.
E il capitale pubblico di tre miliardi,
leva finanziaria dell’investimento in flotta, è forse il paradossale ticket di
ingresso richiesto dal “generoso” futuro vettore alleato per accogliere nel suo
seno i diritti di volo da e per l’Italia e le posizioni di vantaggio negli
aeroporti nazionali, gli slot?
Se così fosse, il romanzo Alitalia è
davvero giunto al suo epilogo e gli italiani stanno pagando il funerale e la
consegna delle spoglie ai concorrenti con l’ultimo pedaggio da tre miliardi di
euro, soprattutto con la rinuncia definitiva a gestire il trasporto aereo. Ciò
meriterebbe qualche seria riflessione. Tutto il resto è noia.
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