lunedì 1 novembre 2021

Vi spiego perché Alitalia-Ita andrà al macello - Paolo Rubino

 

Con l’approssimarsi della cessazione definitiva dei voli Alitalia, nella data fatidica del 15 ottobre e nei giorni successivi nostalgia, demagogia, retorica, vile consumerismo degli interessi “particulari” dei clienti Millemiglia hanno affollato le cronache.

Questo è il fumo denso che ha annebbiato la vista e messo in sordina due notizie che molto rivelano sul futuro del trasportatore aereo nazionale nella sua reincarnazione Ita Airways.

La prima, datata al 30 settembre scorso, in cui il capo della nuova Società, Alfredo Altavilla, ha annunciato l’ordine di 28 nuovi aeromobili della famiglia Airbus oltre altri 31 in leasing dalla ALC del mitologico Stefano Udvar-Hazy, sopravvissuto al disastro dei mutui subprime nel 2008 della AIG-ILFC e vero re Mida dell’aviazione post deregulation.

Benché il permanente squilibrio tra flotta in proprietà, i 28 acquisti, e flotta in leasing, 31 aeroplani, lasciasse qualche perplessità sulla reale capacità di comprendere l’unica vera formula immutabile per la stabilità durevole di chi fa trasporto aereo, tuttavia l’annuncio, da sé, è apparso una vera rivoluzione.

L’ultima volta che un’impresa italiana di trasporto aereo aveva annunciato investimenti in flotta era vecchia di ben 15 anni. Quell’impresa era la Air One di Carlo Toto, era il 2007 e l’investimento era peraltro assai più poderoso di quello di Altavilla, nonostante quest’ultimo possa contare su una dote di capitale pubblico ben più florida di quello privato di cui disponeva Toto. L’errore di quest’ultimo fu allora, e col senno del poi, di annegare quella coraggiosa decisione nelle velleità da pollaio del progetto Fenice, ma questa è un’altra storia.

Dopo vent’anni di umiliante assenza di investimenti in flotta, durante i quali i pubblici finanziamenti al trasportatore Alitalia-ITA sono stati utilizzati per incentivare gli esodi del personale e per qualche vanesia, nonché costosa, campagna pubblicitaria, finalmente lo scorso 30 settembre, a vent’anni di distanza dagli ultimi annunci flotta della Compagnia, è sembrato che cominciasse la riscossa.

È sembrato, almeno fino all’annuncio della seconda notizia. In un uno-due-tre che toglie il fiato, il 15 ottobre Altavilla dichiara di aver acquistato il marchio Alitalia dal liquidatore della Società decotta e il 16 ottobre chiarisce che, però, quel marchio non sarà utilizzato; infine, il 19 ottobre, nell’intervista rilasciata all’Huffington Post, specifica a chi non vuole intendere che “la maggior parte dei potenziali alleati con i quali abbiamo discusso del marchio mi ha detto che Alitalia sarebbe stata una zavorra in una discussione di alleanza. Era necessaria una discontinuità”.

Il termine “discontinuità” è purtroppo il letale neologismo coniato dal depresso management Alitalia nel 2002 post Torri Gemelle che ha progressivamente annichilito l’azienda. In vent’anni sono stati “discontinuati” eccellenti ingegneri e tecnici di manutenzione, provetti piloti, appassionati addetti al servizio ai clienti, acuti manager del trasporto aereo, brillanti sviluppatori e manutentori di sistemi gestionali oltre ad interi pezzi della rete di collegamenti in Nord e Sud America, Asia ed Africa.

Discontinuati muscoli, cervello e scheletro, oggi astuti concorrenti del vettore nazionale sussurrano all’orecchio del suo nuovo capo che è necessario discontinuare anche il cuore e i testicoli, ovvero il nome.

Nel diritto romano la damnatio memoriae era la condanna comminata ai nemici dello Stato e consisteva nella cancellazione di ogni traccia dell’esistenza del reietto. Come l’imperatore Caligola, il papa Formoso, il doge Faliero, di Alitalia va decretata la morte civile per volontà di un qualche misterioso amministratore delegato pro tempore di una Compagnia straniera.

Uno Stato di 60 milioni di abitanti, soggetto di rilievo dell’economia europea e mondiale, meta turistica di massima attrattività per chiunque deve essere evirato di un pezzo rilevante della sua infrastruttura nevralgica di trasporto.

Come gli agnelli di Jodie Foster nel Silenzio degli Innocenti, Alitalia-ITA si avvia mestamente al macello.

Nell’assordante assenza di rumore dei commentatori ed esperti, le due notizie cruciali, flotta e marchio, sono passate piuttosto inosservate. Eppure sarebbe da chiedersi, ed indagare magari, chi ha davvero deciso quell’ordine di flotta da Airbus e il succulento boccone dei leasing offerto a Udvar-Hazy.

E il capitale pubblico di tre miliardi, leva finanziaria dell’investimento in flotta, è forse il paradossale ticket di ingresso richiesto dal “generoso” futuro vettore alleato per accogliere nel suo seno i diritti di volo da e per l’Italia e le posizioni di vantaggio negli aeroporti nazionali, gli slot?

Se così fosse, il romanzo Alitalia è davvero giunto al suo epilogo e gli italiani stanno pagando il funerale e la consegna delle spoglie ai concorrenti con l’ultimo pedaggio da tre miliardi di euro, soprattutto con la rinuncia definitiva a gestire il trasporto aereo. Ciò meriterebbe qualche seria riflessione. Tutto il resto è noia.

da qui

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