Mi chiamo, anzi… mi chiamavo Zemari Ahmadi e
insieme ai miei quattro figli sono morto per un “errore onesto”, hanno detto il 3 di
novembre, all’indomani del vostro giorno dedicato ai defunti, coincidenza
particolarmente significativa.
Con le parole, è ciò che sostengono. Perché con le
parole scrivono, parlano, spesso feriscono,
talvolta uccidono e di rado curano e salvano.
Ma con quelle medesime parole, allora, mi riportano in vita.
Indi per cui, oggi è di nuovo il 29 agosto del 2021. Siamo a Kabul,
in Afghanistan e io, come vi ho detto all’inizio, mi
chiamo Zemari e ho 43 anni. Sono un ingegnere
elettrico e da 14 anni lavoro per l’ufficio nella capitale di Nutrition
and Education International. È un’organizzazione non governativa che ha
sede in California, nel paese degli invasori, liberatori, occupanti e
ora partenti. Perdonate, ma ormai non so più come chiamarli e, forse,
credo non lo sappiano più neppure loro.
Adesso sono le 9 del mattino di quella domenica di
fine agosto. Come ogni giorno, do un bacio affettuoso a mia moglie Anissa,
saluto i bambini che sono già svegli e abbraccio stretta la grande di
casa, Samia. Di anni ne ha ventuno ma parla da un po’ come una
donna adulta. Inevitabile, da queste parti, dove le lancette della
crescita sfrecciano a velocità doppia. Ma lo fanno per te, per
proteggerti e salvarti la vita. Perché il tempo è vita, qui.
Tutto, ogni frazione di secondo. E quando ti allontani dai tuoi cari per
qualsivoglia motivo, anche solo per poche ore, è come partire per lo spazio
con un biglietto di sola andata e uno di auspicabile
ritorno.
Come faccio sempre, prendo le taniche per l’acqua e con
l’aiuto di Ahmad, il fidanzato di mia figlia, riempiamo il
portabagagli dell’auto che mi presta l’azienda, una Toyota bianca, che ogni
tanto mi convinco che sia mia per davvero, e allora mi ci vedo a caricarla con
mia moglie e i miei figli per andare fuori in una giornata di riposo e
rilassamento. Perché è domenica, no? Non è questo che fate dove non c’è bisogno
che qualcuno vada in giro per la città a distribuire acqua e cibo agli
affamati, mi sbaglio?
Okay, siamo pronti per andare. Prima tappa casa del capo per
prendere un mio amico e collega e, soprattutto, il computer portatile,
perché a queste latitudini tutto dev’essere conteggiato, perfino
l’amore con il quale desideri aiutare a sopravvivere i tuoi concittadini.
Nello stesso istante, dettaglio che scopro solo ora, occhi incuriositi
quanto pericolosi mi stanno spiando: “La berlina bianca sta per lasciare un
probabile rifugio dello Stato Islamico”, comunicano tra loro i
guardiani a stelle e strisce. “Si trova a circa cinque chilometri a
nord-ovest dell’aeroporto.”
Ignari di tutto ciò, Ahmad e io ascoltiamo le direttive del capo, che ci
spiega l’itinerario e le case dove dovremo portare
l’acqua, ovvero l’oro trasparente, il nostro petrolio, che tra non
molto sarà quello di tutto il pianeta. Così dicono, con le parole e
il senno prevedono, e stavolta ci hanno preso alla grande.
Nel mentre, gli stessi, invisibili spettatori di cui sopra interpretano in
tal modo il nostro innocuo dialogo: “Abbiamo intercettato comunicazioni
all’interno del rifugio, dove il capo della cellula ordina all’auto di fare
diverse fermate.”
Fermiamoci qui per un istante, in questo grottesco incrocio di vite reso
tale dal fraintendimento di ciò che davvero conta nella vita, più che della
realtà. Per me, è una giornata tipica in cui cerco di
dare un significato alla mia presenza nel mondo, così come lo
è per i giovani spediti nella mia terra a portare pace, democrazia e
soprattutto le proprie armi. Ma qual è il loro di significato?
Mah, torniamo all’immaginaria diretta. Adesso sono le ore 9.35 siamo
arrivati alla sede dell’ONG. Entriamo e ci diamo da fare per firmare il
registro delle presenze e per svolgere tutta la parte burocratica che ci
spetta. Quindi, a metà mattina usciamo di nuovo e ci rechiamo alla stazione
di polizia, che ora è occupata dai talebani, per ottenere un permesso
scritto con il quale distribuire il cibo in un nuovo campo di sfollati.
Capite meglio, ora? Che siano americani o Talebani,
da entrambi dipendiamo per poterci nutrire, malgrado ci troviamo nel luogo dove
siamo nati e cresciuti. E dove moriremo, alla fine della storia, ancor prima
della vita stessa, ahi noi.
A ogni modo, dopo una trattativa estenuante, alle ore 14 torniamo
al nostro ufficio raggianti. Anche stavolta ce l’abbiamo fatta. È la nostra
prima e sola vittoria di oggi: chi di dovere ha
firmato l’autorizzazione a sopravvivere e ciò che conta è soltanto il
verbo alla fine.
Mangiamo un boccone, quasi letteralmente, e alle ore 14.35 siamo
di nuovo in strada a riempire le taniche d’acqua con un tubo. Un’ora dopo
l’auto è pronta e noi pure, ma in quel momento, alle 15.38, un mio
collega non riesce a passare e mi chiede le chiavi per spostare la Toyota nel
vialetto. In quel preciso momento, anche questo è ciò che apprendo dopo, i
supereroi americani, né super e tanto meno eroi, si parlano attraverso i loro
microfoni e si ascoltano tramite le cuffie, senza guardarsi negli occhi ed è
questo il vero problema, credo, di tale ossessione per i dialoghi a
distanza dal cervello e dal cuore. “L’auto sospetta si trova in un complesso
sconosciuto”, dice la voce resa metallica dalla tecnologia e dalla
disumanità con cui si evolve. “Il luogo è situato otto/dodici chilometri a
sud-ovest dell’aeroporto.”
Se avessi avuto uno solo dei poteri dei veri supereroi dei fumetti USA. Non
dico la forza sovrumana e neppure l’invulnerabilità. A
quelli come noi sarebbe bastato poco per sopravvivere, anche solo il super
udito o la super vista, e molti di noi sarebbero ancora
vivi.
Comunque, finalmente, ovvero alla fine, arriva il pomeriggio ed
è il momento di portare sollievo a quelle gole inaridite quanto amate. Difatti,
la prima tappa coincide con quella di partenza.
Vado a casa, capite? Mi sentite, figli miei? Moglie adorata?
Sto tornando, non avrei dovuto allora, ma ora lo sto facendo di nuovo e
stavolta non farà male come quel giorno. Di meno, lo prometto.
Così, più tardi sono di fronte alla mia abitazione e non appena entro nella
via adiacente i miei quattro figli, che hanno dai tre ai dieci
anni, insieme ad altri bambini, in tutto sette, dopo esser sbucati
dalle porte prendono d’assedio l’auto.
Hanno ragione, hanno sete. Tutti quelli che hanno sete di acqua e cibo ce
l’hanno, soprattutto se sono venuti al mondo da così poco senza che qualcuno li
abbia avvertiti in anticipo che non sarebbe stata di certo una passeggiata.
Contemporaneamente, coloro che ci osservano dal cielo, che non
sono né divinità innamorate degli umani e neppure extraterrestri malati di
curiosità, traggono le conclusioni peggiori: “L’auto sospetta è andata in un
quartiere affollato.” Di rimando, gli operatori addetti ai Droni scansionano
rapidamente il cortile e riportano di aver rilevato due maschi adulti,
l’autista – che sarei io – e un altro, probabilmente il fidanzato
di Samia, che aveva solo trent’anni.
“È il momento di colpire”,
ordinano, sentenziano, sterminano. In una parola, così dicono.
Il mostro che ci ha ucciso sul colpo si chiama Drone MQ-9 Reaper e
ha sparato un singolo missile Hellfire con una
testata da 20 libbre, 9 chili circa.
Mi dispiace da vivere, più che morire, moglie mia. Mi dispiace
di averti lasciato sola e senza i nostri figli. Mi dispiace che il fuoco idiota
e criminale, più che amico, ti abbia reso vedova ancora prima di esser moglie,
dolce Samia. Mi dispiace e non mi interessa ciò che si dicono, scrivono e raccontano l’un
l’altro i nostri assassini e tutti gli altri, ma la mia vita è stata
assolutamente onesta, così come lo scampolo di anni che hanno
vissuto i nostri bambini.
Per tale ragione la nostra inacettabile scomparsa è ciò che di maggiormente disonesto e disumano possa
accadere su questa terra.
Ditelo, scrivetelo, fate che ascoltino.
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