mercoledì 17 novembre 2021

Mi chiamavo Zemari Ahmadi - Alessandro Ghebreigziabiher

 

 

Mi chiamo, anzi… mi chiamavo Zemari Ahmadi e insieme ai miei quattro figli sono morto per un “errore onesto”hanno detto il 3 di novembre, all’indomani del vostro giorno dedicato ai defunti, coincidenza particolarmente significativa.

Con le parole, è ciò che sostengono. Perché con le parole scrivonoparlano, spesso feriscono, talvolta uccidono e di rado curano salvano. Ma con quelle medesime parole, allora, mi riportano in vita.

Indi per cui, oggi è di nuovo il 29 agosto del 2021. Siamo a Kabul, in Afghanistan e io, come vi ho detto all’inizio, mi chiamo Zemari e ho 43 anni. Sono un ingegnere elettrico e da 14 anni lavoro per l’ufficio nella capitale di Nutrition and Education International. È un’organizzazione non governativa che ha sede in California, nel paese degli invasoriliberatorioccupanti e ora partenti. Perdonate, ma ormai non so più come chiamarli e, forse, credo non lo sappiano più neppure loro.

Adesso sono le 9 del mattino di quella domenica di fine agosto. Come ogni giorno, do un bacio affettuoso a mia moglie Anissa, saluto i bambini che sono già svegli e abbraccio stretta la grande di casa, Samia. Di anni ne ha ventuno ma parla da un po’ come una donna adulta. Inevitabile, da queste parti, dove le lancette della crescita sfrecciano a velocità doppia. Ma lo fanno per te, per proteggerti e salvarti la vita. Perché il tempo è vita, qui. Tutto, ogni frazione di secondo. E quando ti allontani dai tuoi cari per qualsivoglia motivo, anche solo per poche ore, è come partire per lo spazio con un biglietto di sola andata e uno di auspicabile ritorno.

Come faccio sempre, prendo le taniche per l’acqua e con l’aiuto di Ahmad, il fidanzato di mia figlia, riempiamo il portabagagli dell’auto che mi presta l’azienda, una Toyota bianca, che ogni tanto mi convinco che sia mia per davvero, e allora mi ci vedo a caricarla con mia moglie e i miei figli per andare fuori in una giornata di riposo e rilassamento. Perché è domenica, no? Non è questo che fate dove non c’è bisogno che qualcuno vada in giro per la città a distribuire acqua e cibo agli affamati, mi sbaglio?

Okay, siamo pronti per andare. Prima tappa casa del capo per prendere un mio amico e collega e, soprattutto, il computer portatile, perché a queste latitudini tutto dev’essere conteggiato, perfino l’amore con il quale desideri aiutare a sopravvivere i tuoi concittadini.

Nello stesso istante, dettaglio che scopro solo ora, occhi incuriositi quanto pericolosi mi stanno spiando: “La berlina bianca sta per lasciare un probabile rifugio dello Stato Islamico”, comunicano tra loro i guardiani a stelle e strisce. “Si trova a circa cinque chilometri a nord-ovest dell’aeroporto.”

Ignari di tutto ciò, Ahmad e io ascoltiamo le direttive del capo, che ci spiega l’itinerario e le case dove dovremo portare l’acqua, ovvero l’oro trasparente, il nostro petrolio, che tra non molto sarà quello di tutto il pianeta. Così dicono, con le parole e il senno prevedono, e stavolta ci hanno preso alla grande.

Nel mentre, gli stessi, invisibili spettatori di cui sopra interpretano in tal modo il nostro innocuo dialogo: “Abbiamo intercettato comunicazioni all’interno del rifugio, dove il capo della cellula ordina all’auto di fare diverse fermate.”

Fermiamoci qui per un istante, in questo grottesco incrocio di vite reso tale dal fraintendimento di ciò che davvero conta nella vita, più che della realtà. Per me, è una giornata tipica in cui cerco di dare un significato alla mia presenza nel mondo, così come lo è per i giovani spediti nella mia terra a portare pacedemocrazia e soprattutto le proprie armi. Ma qual è il loro di significato?

Mah, torniamo all’immaginaria diretta. Adesso sono le ore 9.35 siamo arrivati alla sede dell’ONG. Entriamo e ci diamo da fare per firmare il registro delle presenze e per svolgere tutta la parte burocratica che ci spetta. Quindi, a metà mattina usciamo di nuovo e ci rechiamo alla stazione di polizia, che ora è occupata dai talebani, per ottenere un permesso scritto con il quale distribuire il cibo in un nuovo campo di sfollati.

Capite meglio, ora? Che siano americani Talebani, da entrambi dipendiamo per poterci nutrire, malgrado ci troviamo nel luogo dove siamo nati e cresciuti. E dove moriremo, alla fine della storia, ancor prima della vita stessa, ahi noi.

A ogni modo, dopo una trattativa estenuante, alle ore 14 torniamo al nostro ufficio raggianti. Anche stavolta ce l’abbiamo fatta. È la nostra prima e sola vittoria di oggi: chi di dovere ha firmato l’autorizzazione a sopravvivere e ciò che conta è soltanto il verbo alla fine.

Mangiamo un boccone, quasi letteralmente, e alle ore 14.35 siamo di nuovo in strada a riempire le taniche d’acqua con un tubo. Un’ora dopo l’auto è pronta e noi pure, ma in quel momento, alle 15.38, un mio collega non riesce a passare e mi chiede le chiavi per spostare la Toyota nel vialetto. In quel preciso momento, anche questo è ciò che apprendo dopo, i supereroi americani, né super e tanto meno eroi, si parlano attraverso i loro microfoni e si ascoltano tramite le cuffie, senza guardarsi negli occhi ed è questo il vero problema, credo, di tale ossessione per i dialoghi a distanza dal cervello e dal cuore. “L’auto sospetta si trova in un complesso sconosciuto”, dice la voce resa metallica dalla tecnologia e dalla disumanità con cui si evolve. “Il luogo è situato otto/dodici chilometri a sud-ovest dell’aeroporto.”

Se avessi avuto uno solo dei poteri dei veri supereroi dei fumetti USA. Non dico la forza sovrumana e neppure l’invulnerabilità. A quelli come noi sarebbe bastato poco per sopravvivere, anche solo il super udito o la super vista, e molti di noi sarebbero ancora vivi.

Comunque, finalmente, ovvero alla fine, arriva il pomeriggio ed è il momento di portare sollievo a quelle gole inaridite quanto amate. Difatti, la prima tappa coincide con quella di partenza.

Vado a casa, capite? Mi sentite, figli miei? Moglie adorata? Sto tornando, non avrei dovuto allora, ma ora lo sto facendo di nuovo e stavolta non farà male come quel giorno. Di meno, lo prometto.

Così, più tardi sono di fronte alla mia abitazione e non appena entro nella via adiacente i miei quattro figli, che hanno dai tre ai dieci anni, insieme ad altri bambini, in tutto sette, dopo esser sbucati dalle porte prendono d’assedio l’auto.

Hanno ragionehanno sete. Tutti quelli che hanno sete di acqua e cibo ce l’hanno, soprattutto se sono venuti al mondo da così poco senza che qualcuno li abbia avvertiti in anticipo che non sarebbe stata di certo una passeggiata.

Contemporaneamente, coloro che ci osservano dal cielo, che non sono né divinità innamorate degli umani e neppure extraterrestri malati di curiosità, traggono le conclusioni peggiori: “L’auto sospetta è andata in un quartiere affollato.” Di rimando, gli operatori addetti ai Droni scansionano rapidamente il cortile e riportano di aver rilevato due maschi adulti, l’autista – che sarei io – e un altro, probabilmente il fidanzato di Samia, che aveva solo trent’anni.

 È il momento di colpire”, ordinano, sentenziano, sterminano. In una parola, così dicono.

Il mostro che ci ha ucciso sul colpo si chiama Drone MQ-9 Reaper e ha sparato un singolo missile Hellfire con una testata da 20 libbre, 9 chili circa.

Mi dispiace da vivere, più che morire, moglie mia. Mi dispiace di averti lasciato sola e senza i nostri figli. Mi dispiace che il fuoco idiota e criminale, più che amico, ti abbia reso vedova ancora prima di esser moglie, dolce Samia. Mi dispiace e non mi interessa ciò che si diconoscrivono raccontano l’un l’altro i nostri assassini e tutti gli altri, ma la mia vita è stata assolutamente onesta, così come lo scampolo di anni che hanno vissuto i nostri bambini.

Per tale ragione la nostra inacettabile scomparsa è ciò che di maggiormente disonesto disumano possa accadere su questa terra.

Ditelo, scrivetelo, fate che ascoltino.

da qui

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