Quando il
movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan «siamo il 99 per cento» probabilmente non immaginava che solamente pochi
anni dopo quel 99 per cento sarebbe realmente stato la parte più povera del
pianeta. Eppure
oggi l’1 per cento più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore
a quello del rimanente 99 per cento. Sono alcuni dati contenuti
nell’ultimo rapporto di Oxfam sulle diseguaglianze, presentato in vista del
Forum di Davos dei prossimi giorni.
Sempre secondo il
rapporto An economy for the 1 per
cento, non solo le diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura
accelerando.Nel 2010 bisognava prendere i 388
miliardari più ricchi per arrivare al patrimonio della metà più povera del
pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di
esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la
propria ricchezza crescere del 44 per cento, oltre 500
miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41 per
cento.
Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato l’1 per cento
dell’aumento di ricchezza, mentre l’1 per cento più ricco se ne accaparrava la
metà. È un
fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri, ma che accomuna tutto
il mondo. Nel Sud, il 10 per cento più povero ha visto il proprio salario
aumentare di meno di 3 dollari l’anno nell’ultimo quarto di secolo. Se le
diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo, 200 milioni di
persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso arco di tempo, negli Usa lo stipendio medio
è cresciuto del 10,9 per cento, quello di un amministratore delegato
del 997 per cento.
In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di
quale economia parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino
l’ingiustizia sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno
studio recente l’Ocse ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita
di oltre 8 punti di Pil in vent’anni. Un’enormità. Il motivo
è semplice: se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano
i consumi e quindi la domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per drogare
la crescita del Pil.È il modello subprime, un’economia del debito che può funzionare
per qualche anno, finché inevitabilmente la bolla non scoppia.
L’altra soluzione è scaricare il problema sul
vicino, puntando tutto sulle esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di
lavoratrici e lavoratori, tagliamo le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le diseguaglianze e crollerà la
domanda interna, ma saremo più competitivi e quindi esporteremo
di più. È l’attuale modello italiano ed europeo,
riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le
istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo
dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce
nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o
“diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola “competitività” (17!).
Un modello in cui la crescita
delle diseguaglianze non è quindi un fastidioso effetto collaterale, ma la
base stessa di un gioco pensato e tagliato su misura per l’1 per cento. Una
gara verso il fondo in ambito sociale, ambientale,
fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale. La semplice
domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara
è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa
che la Nasa scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa
economia dell’1 per cento non sembra particolarmente lungimirante, come
mostrano le cronache di questi giorni.
A chi deve esportare una Ue che nel suo insieme ha già
oggi il maggior surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle
economie emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di Shanghai rischia di diventare una tragedia per
l’economia italiana. Siamo
arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il
prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi
esportatori non potranno acquistare il nostro made in Italy.
I dati divulgati da Oxfam sono
un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia sociale, ma
sono disastrosi anche da quello meramente economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il
problema è che l’aumento delle diseguaglianze dal 2008 a oggi
è anche un segnale fin troppo evidente di chi rimane con il cerino in mano
quando questa crisi scoppia. Ed è allora difficile che il messaggio venga
recepito a Davos, all’incontro annuale di quell’1 per cento — anzi, di
quel zero virgola — che continua a guardare dall’alto, sempre più
dall’alto, oltre il 99 per cento dell’umanità.
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