Perché i quartieri gentrificati delle
città europee possono diventare un obiettivo del radicalismo e cos'hanno da
dirci Molenbeek e Slotervaart
Penso di non sbagliare se scrivo che
i fatti parigini di novembre hanno colpito ancora più forte di quelli di Charlie
Hebdo, per ragioni
che vanno oltre il numero dei morti. Come tanti, anche io ho amiche e amici che
quella sera erano nella capitale francese, non troppo lontani dai teatri della
strage. Dopo averli messaggiati mi sono stupito di come quasi tutti avessero un
proprio punto di vista pericolosamente vicino alla tragedia: si sono fatti
ospitare da sconosciuti, hanno visto corpi, hanno sentito rumori. Non è così
strano, fin da subito è stato notato come i bersagli scelti rappresentassero i
ritrovi di quella gioventù cosmopolita che forse più di ogni altro crede nel
multiculturalismo. La gente che a Parigi, Londra o Berlino (così come in
qualsiasi grande città) di solito ama vivere in quartieri dove a piccoli negozi
gestiti da immigrati si mischiano ristoranti, bar e club. La gente come me e,
probabilmente, come voi.
A
proposito di quartieri, durante la caccia al sospetto terrorista Salah Abdeslam
si è fatto un gran parlare di Molenbeek, area di Bruxelles descritta un po’
ovunque come terreno fertile per la radicalizzazione, nonché nascondiglio
ideale per il ricercato. L’ipotesi che ci siano zone più a rischio di altre è
ampiamente condivisa, ma geograficamente Molenbeek non è molto lontano dal
centro di Bruxelles. Si tratti o no di ghetto, a esplorarla con
Google Street View la zona ha poco a che vedere con l’estetica delle banlieue
parigine o degli hood americani: pochi i palazzoni, paesaggio relativamente
vario e quel mix di negozi tipico dei quartieri ad alta percentuale di
immigrati. Gli edifici sembrano avere prevalentemente dai due ai quattro piani
e la palette delle facciate di mattoni è nordeuropea, cosa che mi ricorda tante
zone di Amsterdam che aspettano solo la scusa per gentrificarsi e, di solito,
lo fanno nell’arco di pochi anni.
Proprio
qui ad Amsterdam ho vissuto due anni a Slotervaart, il quartiere dove è
cresciuto Mohammed Bouyeri, assassino
del regista Theo van Gogh e membro del network terroristico Hofstad. A partire
dal 2007, per qualche anno in città sono stati avviati programmi
anti-radicalizzazione, sia islamica che di estrema destra, oltre che vari studi
sul tema terrorismo. Slotervaart era un punto di interesse. Facendo un po’
di ricerca su Internet mi sono imbattuto in una ricerca di Ralf Brand e Sara Fregonese,
finanziata dall’Economic and social research council (ESRC) nel 2009 e poi
diventata un libro dal titolo The Radicals’ City: Urban Environment,
Polarisation, Cohesion. Gli autori hanno analizzato il rapporto dello
spazio urbano con le dinamiche conflittuali specifiche di diverse città. «Il
punto era mettere in evidenza come i problemi di polarizzazione non riguardino
solo le città in una situazione post-conflitto, come Beirut o Belfast, ma anche
quelle a prima vista pacifiche come Amsterdam», mi spiega Sara via Skype. «Si
dice che l’architettura rispecchia il processo sociale, ma può anche
influenzarla. È un po’ come la teoria delle finestre rotte: se ci sono, il
degrado tenderà ad aumentare. Proprio per il messaggio che comunicano».
Slotervaart si trova appena fuori dal “ring”,
l’autostrada che costeggia la capitale olandese, ed è il primo quartiere della
parte occidentale a non beneficiare dell’affascinante tono mattone e dei
dettagli vernacolari della Scuola di Amsterdam, tipici di altre aree appena più
centrali. Insomma, è in gran parte noioso e residenziale, ma ci sono piazzette
o isolati contornati da negozi (pochi bar, molti kebabbari e fruttivendoli) che
rendono il tutto più vivace e vivibile. Nonostante la relativa tranquillità,
delle tensioni esistono e si manifestano visibilmente a livello architettonico.
Un esempio emblematico è Augustus Allebéplein: teatro di scontri tra polizia e
giovani marocchini nel 1998, oggi la piazza ospita sia una moschea, ampliata in
anni recenti, che una chiesa cristiana. Le due sono separate da una stazione di
polizia, eretta dove fino al 2009 c’era un cinema.
Tra
interviste con architetti e workshop di fotografia partecipata con studenti
locali, Sara e Ralf hanno cercato di capire come i giovani di Slotervaart
vivano queste contrapposizioni. «Mi hanno rivelato dei confini spaziali molto
subdoli, che all’osservatore esterno non darebbero da pensare, ma che hanno una
valenza », spiega lei. Quanto agli olandesi autoctoni: «È venuto fuori che
criticano molto la creazione delle moschee, non solo dal punto di vista della
retorica dell’invasione, ma proprio da un punto di vista architettonico». E in
effetti la recentemente ultimata Westermoskee, la più grande in Olanda, è stata
concepita in uno stile architettonico molto influenzato dalla già citata Scuola
di Amsterdam, proprio a scanso di equivoci.
Quanto
ad Allebéplein, i
progetti futuri promettono spazi pubblici più curati e nuovi progetti
residenziali. Un’evoluzione in linea con quella di Slotervaart in generale,
visto che ne è passata di acqua sotto i ponti (sì, qualche canale c’è pure a
Slotervaart) dai tempi di Bouyeri. Ad Amsterdam Nieuw West stanno iniziando ad
aprire locali – tra cui il Radion, club successore del leggendario Trouw che
stava a Est – e non fatico a immaginare che tra una decina d’anni, ma forse
anche meno, l’abitante medio della zona somiglierà più al giovane parigino che
si svaga nell’11me piuttosto che alla famiglia immigrata di
Molenbeek. Ecco, la gentrificazione è un processo organico che interessa
le nostre città da molto prima che parlarne diventasse cool, ma ho il sospetto
che, quando il concetto di “città creativa” reso popolare da Richard Florida non era ancora sulla bocca di tutti,
ci volesse molto più tempo. Adesso la direzione di investimento e hype è
sistematica e, specialmente in città dense e relativamente piccole come
Amsterdam, il cambiamento può essere piuttosto brusco.
La forza degli attentati si è dimostrata
essere la capacità di innescare psicosi urbana laddove il conflitto era
invisibile
Il
quartiere dove abito adesso, l’Indische Buurt, una volta somigliava a
Slotervaart come composizione demografica e tutt’ora è evidentissima la
presenza delle comunità turca e marocchina. Nei neanche due anni che ci vivo ho
visto aprire non meno di una quindicina di bar in uno spazio di poche centinaia
di metri quadrati, mentre l’affitto mi è già aumentato una volta. In una delle
poche conversazioni in olandese che abbia mai fatto, il mio barbiere marocchino
mi spiegava la frustrazione dell’essersi dovuto trasferire ad Ijburg – un
sobborgo nuovo di zecca e architettonicamente ambizioso, ma noioso e lontano
dal centro – perché le giovani coppie olandesi continuano a comprare casa
in zona. Sicuramente il relativamente rapido allontanamento delle comunità
di immigrati verso quartieri meno vivaci e più alienanti è un elemento di
frustrazione, soprattutto per i giovani, ma non so quanto sia sufficiente a
giustificare come mai la diversità di Slotervaart debba essere considerata a
rischio radicalizzazione mentre quella dell’Indische Buurt meno. Un’ipotesi è
che sia probabilmente più facile indirizzare investimenti statali per
combattere la propaganda jihadista se il target si porta addosso un’etichetta e
un hype che funzionano da branding al contrario (ma nemmeno tanto al contrario:
vedi la recente ondata di turismo “terrorista” a Molenbeek).
Insomma,
se vogliamo interpretare il jihadismo a livello urbanistico, il profilo dei
quartieri è un aspetto importante, ma non è l’unico. La forza degli attentati
si è dimostrata essere proprio la capacità di innescare psicosi urbana laddove
il conflitto era invisibile, ridisegnando con fluidità lo spazio urbano
attivamente e indirettamente. Non solo gli assassini del Bataclan sono riusciti
a trasformare l’11me in un teatro di guerra in pochi minuti, ma hanno causato
il “lockdown” (termine usato nelle prigioni e, appunto, in guerra) dell’intera
Bruxelles come effetto collaterale. Tornando alla mia conversazione con Sara,
lei cita anche il caso di Boston, subito dopo gli attentati alla maratona nel
2013, e mi dice che secondo lei questo stato di emergenza sarà una tecnica
sempre più usata dalle autorità in futuro. Le chiedo anche se, dopo tutto
quello che è successo ultimamente, pensa che il ruolo del design urbano sia
cambiato nel contesto della lotta alla polarizzazione. Nonostante sia convinta
che l’approccio da seguire riguardi più i problemi delle nostre città e dei
loro cittadini che un’analisi discorsiva dell’islam, Sara ammette che il design
urbano è un elemento, ma non la soluzione. «Se hai un muro per vent’anni, come
a Belfast, non risolvi il problema semplicemente abbattendolo. Ci sono delle
divisioni che vanno più in profondità e sulle quali bisogna lavorare sul
terreno, creando fiducia e contatti».
A
proposito di questo, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi è uscito My
Jihad, un documentario di Rudi Vranckx che parla di Vilvoorde,
sobborgo vicino all’aeroporto di Bruxelles, e della lotta della comunità
musulmana locale contro la radicalizzazione. La premessa del film è che un
forte problema interno ad ambienti come Vilvoorde esista davvero («Tutti qui
conoscono qualcuno che è partito per la Siria», dice un ragazzo) e infatti dei
400 giovani belgi che hanno lasciato le proprie case per la jihad ben 28 sono
di lì. Gran parte dell’attenzione del regista è però rivolta alle risposte al
suddetto problema, anch’esse interne. C’è una madre che, dopo aver perso un
figlio in Siria, riunisce altre madri in situazioni simili per discutere le
cause della preoccupante diaspora verso il campo di battaglia; c’è Sulayman Van
Ael, un belga convertitosi all’islam e diventato imam che cerca di trasmettere
i messaggi pacifici della propria religione a bambini e ragazzi in età “a
rischio”, tramite colloqui in privato o discorsi in pubblico; c’è Imad, un
attivista che con la propria associazione pensa a portare cibo e soccorso in
Palestina e Giordania («È questa la nostra jihad», dice un suo collega).
Queste
storie sono proprio il tipo di esempi che, dopo gli attentati, vengono
regolarmente chiesti alla comunità musulmana dai suoi detrattori. Purtroppo non
se ne parla mai abbastanza, soprattutto perché tracciare il profilo di una
comunità o di un quartiere è molto più facile e accessibile rispetto alle
storie individuali e ai tentativi di affrontare difficoltà, tensioni e
stereotipi. Esistono quartieri a rischio? Direi di sì. L’ambiente, anche
architettonico, influisce sulla radicalizzazione? Anche. È utile affrontare la
questione da un punto di vista urbanistico? Sì, ma fino a un certo punto.
da qui
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