A due anni di distanza dagli ultimi negoziati, dichiarati chiusi e falliti
in meno di mezz’ora, a Ginevra in questi giorni si torna a discutere di Siria.
L’obiettivo è un governo transitorio, ed entro diciotto mesi una nuova
costituzione e nuove elezioni. Per la prima volta, sono al tavolo tutti i
principali protagonisti del conflitto, incluso l’Iran. Sono a Ginevra la Russia
e gli Stati Uniti, la Turchia e l’Arabia Saudita. Mancano solo l’Ahrar al Sham
e il Fronte al nusra: mancano solo i combattenti.
Ma non è solo per questo, in realtà, che a questi negoziati non crede
nessuno. In genere ogni responsabilità è imputata all’opposizione, all’assenza
di una opposizione unita e rappresentativa – e possibilmente, non legata ad Al
Qaeda. Ma la verità è che in Siria entrambi i fronti sono da tempo frantumati
in decine, centinaia di milizie che cambiano continuamente nome e alleanza, e
fondamentalmente non rispondono che a se stesse. Non combattono che per i
propri interessi.
Se tra i ribelli si contano oltre duemila gruppi armati, anche Assad ormai
è poco più che il sindaco di Damasco. Nelle aree sotto il suo controllo, non
governa alcun governo: comanda Hezbollah, comandano le guardie rivoluzionarie
iraniane, comandano mille signori della guerra. E ora, i russi. Tra morti e
disertori, il suo esercito ha perso metà degli uomini. E quindi l’unica cosa
chiara, in questa carneficina che si complica ogni giorno di più, è che in
Siria non si avrà un happy ending hollywoodiano, per dirla con l’analista Aaron
David Miller, non si avrà un accordo di pace globale. Risolutivo.
In Siria una serie di attori esterni che perseguono essenzialmente ognuno i
propri obiettivi, la propria strategia, interagiscono con una miriade di gruppi
armati dai caratteri spesso settari e tribali, milizie che dedicano larga parte
delle loro energie alle battaglie interne per il potere, alle faide, le
vendette, i regolamenti di conti: il tutto sullo sfondo di un mondo arabo che
dalla Tunisia allo Yemen, è una polveriera di povertà, repressione,
frustrazione. Un mondo arabo in cui il sogno per cui i ventenni sono pronti a
morire in mare è venire a vivere una di quelle nostre vite di periferia da cui
noi vorremmo fuggire.
In un contesto simile, l’unico tentativo di pace realistico è un tentativo
graduale, costruito e consolidato passo a passo. Non un accordo di pace, cioè,
ma piuttosto un processo di pace: perché un accordo di pace non si saprebbe
neppure a chi farlo firmare. E il problema, però, è che in un processo di pace
il ruolo fondamentale è quello del mediatore, chiamato a vigilare sulle parti e
a sanzionare le inadempienze: mentre il mediatore, in Siria, è uno dei
combattenti.
Perché è dell’Onu l’arma che in Siria si è rivelata più potente: gli aiuti
umanitari.
Ed è per questo che a questi negoziati non crede nessuno.
Siamo abituati a pensare alla guerra come a uno scontro tra combattenti. E
invece la guerra, in questi ultimi anni, ha cambiato profondamente natura: ora
l’obiettivo, l’obiettivo intenzionale, non il danno collaterale, sono i civili.
La strategia di Assad è stata chiara e ferma dall’inizio, dai giorni delle
prime manifestazioni, quando davanti a ragazzi laici e pacifici, denunciò il
pericolo di una deriva islamista, e con un’amnistia liberò non i prigionieri
politici, non i suoi oppositori, ma gli oppositori dei suoi oppositori, i
jihadisti: proponendosi al mondo come unico possibile garante della stabilità.
“O io o l’anarchia”.
E ha funzionato. Con i suoi bombardamenti, Assad ha sistematicamente, e
letteralmente, raso al suolo tutto quello che i ribelli hanno conquistato,
metro dopo metro, per impedire che si radicassero delle istituzioni alternative
a quelle di Damasco, delle forme efficaci di autogoverno, come stava avvenendo
ad Aleppo prima che cominciassero a grandinare barili esplosivi.
Contemporaneamente, Assad ha cercato di indurre i siriani a rifugiarsi
nelle aree sotto il suo controllo, assicurando cibo, medicine, elettricità,
gasolio: assicurando una vita il più possibile normale, fedelmente
pubblicizzata da Sana, l’agenzia di informazione di stato, che ancora oggi,
come se niente fosse, aggiorna sui migliori concerti in programma a Damasco,
sulla promozione del ciclismo per ridurre l’effetto serra, sui successi degli
scolari alle competizioni di matematica – mai sui parchi giochi trasferiti
sotto terra per evitare che quegli scolari, tra un premio e l’altro, finiscano
uccisi dai mortai.
Ma la verità è che Assad è mantenuto dall’esterno, militarmente e
finanziariamente. L’economia della Siria non esiste più: parliamo di un paese
in cui l’80 per cento della popolazione è sotto la soglia di povertà, e i costi
di ricostruzione sono stimati in dieci volte quello che gli Stati Uniti hanno
speso per l’Iraq. Senza Hezbollah il fronte sarebbe crollato. Ma senza l’Onu
sarebbe crollato tutto il resto.
Un milione di siriani sotto assedio
L’Onu ha consegnato gli aiuti umanitari sempre e solo ad Assad. Si è
giustificata sostenendo che per statuto è tenuta a cooperare con l’unico
governo riconosciuto, e cioè il governo di Damasco. E il diritto
internazionale, in effetti, che è ancora basato sulla tutela della sovranità
nazionale, impone di agire con il consenso dello stato territoriale: ma
specifica anche che questo consenso non può essere negato per ragioni
arbitrarie, o persino illegali – per esempio, affamare la popolazione per
costringerla alla resa.
E comunque, anche dopo che sono state approvate le risoluzioni 2165 e 2258
che autorizzano la distribuzione di aiuti umanitari indipendentemente dal
consenso di Assad, e sono sotto assedio quasi un milione di siriani, e tutti
nelle aree militarmente più strategiche, l’Onu continua a chiedere il permesso.
E quindi ha rinunciato a intervenire a Deir Ezzor, in cui sono in trappola
duecentomila civili, perché Assad ha detto che l’aeroporto non è sicuro: anche
se atterrano dieci aerei al giorno per rifornire i suoi soldati.
L’Onu non solo non ha mai distribuito direttamente gli aiuti, ma neppure ha
mai pensato di tracciarli. Si limita a depositarli nei magazzini centrali di
Damasco. Quando hanno conquistato Idlib, a marzo, i ribelli hanno trovato
quintali e quintali di aiuti dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati
(Unhcr) nelle caserme.
Erano finiti ai soldati, invece che ai civili. Ad Aleppo, l’unico luogo in
cui si vede il logo Unhcr è il mercato nero.
A Madaya, quarantamila abitanti, negli ultimi tre mesi sono entrati dieci
chilogrammi di riso, quattro chilogrammi di zucchero, quattro chilogrammi di
patate, due chilogrammi di spaghetti, cinque litri di olio e dei barattoli di
fagioli. Un chilo di riso costa 256 dollari. L’unico intervento dell’Onu, per i
siriani, è stato quello di Staffan de Mistura, che ha negoziato una serie di
cessate il fuoco a livello locale: e cioè la resa dei ribelli in cambio
dell’apertura agli aiuti umanitari. L’Onu, anche qui, non ha mai controllato
cosa sia accaduto dopo la tregua. Dopo le conferenze e i comunicati stampa. E
d’altra parte è difficile saperlo: di molti degli attivisti che si sono fidati,
e sono tornati nelle aree del regime, non si hanno più notizie.
Ma l’Onu ha sempre negato tutto. Davanti alle prime, inequivocabili
immagini di cadaveri scheletrici, ai giornalisti che scrivevano di “starvation”,
di fame, ha risposto che, tecnicamente, si trattava di casi di malnutrizione.
Oggi, con analogo cinismo, analoga complicità, a chi parla di aree assediate
risponde che si tratta solo di “aree difficili da raggiungere”: perché
l’assedio, come l’affamare la popolazione civile, è un crimine di guerra.
Perché la malnutrizione, la povertà, la difficoltà di movimento sono
normali, in guerra, sono l’effetto inevitabile del collasso dell’ordine
politico e sociale: mentre affamare, assediare sono verbi, non sostantivi. Sono
azioni che implicano un soggetto. Una responsabilità.
Ma in Siria, invece che fermare i morti, l’Onu due anni fa ha fermato il
conteggio dei morti.
I suoi documenti, come sempre infarciti di tecnicismi, a leggerli sembrano
che non dicano niente. E invece quel linguaggio così asettico è più politico
che mai. La guerra di Siria sarà ricordata come l’unico caso in cui l’Onu, in
settant’anni di Bosnia e Ruanda e fallimenti di ogni tipo, è stata capace di
giocare un ruolo effettivo. Purtroppo.
da
qui
Nessun commento:
Posta un commento