Il 28
aprile e la Sarda Rivoluzione vanno oscurati. La
Giunta che ci governa l’anno scorso in estremis dedicò la Giornata
dei Sardi alla sovranità alimentare e al cibo; quest’anno ai migranti.
Temi di indubbio rispetto. Il primo ci poneva davanti alla nostra dipendenza
dalle importazioni di alimenti. Non vi è libertà senza la proprietà del cibo.
Il secondo vorrebbe ricordarci quello che già viviamo, migliaia di sardi che
ogni anno lasciano l’isola perché qui non trovano lavoro e gli spostamenti
biblici di popolazioni in fuga da guerre e povertà, da siccità e
desertificazione.
Come non
essere d’accordo? Soprattutto in tempi di chiusura di frontiere, di
respingimenti da parte delle polizie europee. Evidentemente il calendario
deve essere così pieno di impegni che non si trova altro giorno che non sia Sa
Die de sa Sardigna. Questa insistenza sugli spostamenti di significato
del 28 aprile più di casualità sanno di strategia ben
precisa: far dimenticare ai sardi il senso di quella giornata, rimuoverlo dal
ricordo e spingerlo nell’inconscio.
La Sarda
Rivoluzione non ha mai goduto, se non da parte di poche minoranze,
di “buona stampa”, è passata come rivolta del notabilato locale per
avere qualche impiego in più a Corte. Di conseguenza è meglio che non se ne
parli. Già la scuola non lo fa, quando avviene è frutto dell’impegno dei
singoli docenti. È bene che neanche le istituzioni lo facciano. Ricordare una
Sardegna illuministica, in linea con la migliore Europa del Settecento non
conviene. Sono avvenimenti storici che possono indurre riflessioni sulla
nostra attuale dipendenza culturale prima che economica.
Memorie
che pongono domande come: quale è la nostra Patria? Siamo nazione viva
oppure abortita? Temi disturbanti in una Europa che si rinazionalizza, che
riscopre gli Stati ottocenteschi facendo naufragare il progetto europeo. Sa
Die de sa Sardigna contraddice i disegni neocentralisti renziani e
non si può dispiacere al governo amico. Spegnere ogni diversità e
originalità, non solo qualsiasi richiesta di autodeterminazione, ma anche di
autonomia dai desiderati romani. La definizione italiani di Sardegna va
più che bene.
Da
rimpiangere i democristiani sardi di un tempo che si facevano forti della specialità
per contrattare duramente con Roma. Oggi invece domina la rimozione; lo è
nella lingua sarda, considerata un orpello inutile per la modernità; lo è la
festa dei sardi per identici motivi. Rimozione nelle tradizioni sarde ridotte
a folklore, rito del cargo di cui si sono persi i fondamentali, buone per
vendere vini e formaggi perché fannostrano e tipico; deprivate
di modernità, utili ai disegni egemonici di chi ci vorrebbe eternamente
eunuchi. Però come ci insegnano cento anni di psicanalisi la rimozione tende
a rendere inconsci le idee, gli impulsi i ricordi che sarebbero fonte di
angoscia o di senso di colpa, perché per loro, evidentemente, è così.
Un
meccanismo di difesa contro il loro emergere. Una operazione che crea un
deposito di contenuti ritenuti inaccettabili. Solo che l’operazione
metapsichica è fonte di disagio continuo. Dalla negazione del sé, alla
vergogna come fatto costitutivo della propria esistenza; per gli
individui e per le comunità. I sardi si negano, perché il negarsi credono sia
l’unica possibile per essere in sintonia con il resto del mondo. Su questi
temi la psichiatra Nereide Rudas ha scritto pagine importanti analizzando il
disagio e l’infelicità dei sardi, il loro sentirsi sempre fuori posto, cani
nella chiesa della contemporaneità. Una vergogna che spinge persino a mutare
il proprio accento vissuto come rozzo e penalizzante.
Una fonte
di ansia sociale, un dipendere dal giudizio straniero considerato
determinante nel autodefinirsi. Sei giusto e corretto se diluisci quel che
sei in un indistinto. Qualche anno fa in Cagliari ebbero grande successo i
corsi di dizione per non professionisti. Cancellare la propria appartenenza
come obiettivo di realizzazione personale. Ancor di più in quelli che sono
disponibili ad ogni rivendicazione nazionale degli altri, ma non della
propria, vissuta come inutile se non contradditoria con il bisogno
dell’esistere. Una continua cessione dell’essere, un accrescere il proprio
disagio interiore.
Minorati e
senza strumenti per vivere e competere nel proprio tempo. Tutto questo ha del
paradossale per un governo regionale che si proclama propulsore dello sviluppo
dell’isola. Quale sviluppo se si agisce per alimentare la sfiducia in se
stessi? Quali possibilità di competizione nel mondo vasto e terribile se
si rifiutano le precondizioni per costruire capitale sociale condiviso? La
rimozione continua porta con sé il riemergere dei bisogni sotto forma di
pulsioni inaccettabili. Oscurare il 28 di aprile contribuirà
a regalare migliaia di sardi al neofascismo risorgente. Se italiani si deve
essere alcuni lo saranno anche nella patologia.
Ed infatti
già oggi quotidiani come il Giornale scrivono di identità tradita. Per
fortuna però il comportamento dell’istituzione regionale non viene seguito
ovunque. In centinaia di scuole e località si ricorderanno Giovanni Maria
Angioy e la Sarda Rivoluzione. L’anno scorso nella messa nella
cattedrale di Cagliari organizzata dalla Fondazione Sardinia,
l’arcivescovo Miglio pregò per “La Sardegna, patria nostra”. Un seme
di speranza. Per il resto, come tutte le società dipendenti, ondeggiamo tra
esaltazioni e depressioni schizofreniche. Abbiamo bisogno di sedute di
psicoanalisi di massa. Tutti.
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La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
domenica 1 maggio 2016
Sa Die della rimozione - Nicolò Migheli
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