Immaginate di trovarvi su una nave che imbarca acqua. Mario Draghi, l’uomo al timone, si alza in piedi e dichiara con solennità: “C’è un problema strutturale. La nave non è più sostenibile così com’è”. Applausi. Poi aggiunge: “Ma per ripararla, sacrifichiamo le scialuppe di salvataggio”. Ed è qui che l’analogia con il capitalismo europeo odierno prende forma: un sistema che Draghi stesso riconosce come insostenibile, ma che suggerisce di riformare tagliando ancora pensioni, Stato sociale e diritti fondamentali.
L’ammissione del fallimento del capitalismo finanziario
Non è da tutti ammettere che il modello economico dominante abbia un
problema, soprattutto se si è stati tra i protagonisti della sua gestione.
Draghi, nel suo intervento al simposio del CEPR a Parigi, ha puntato il dito
contro il paradigma europeo basato su esportazioni e bassi salari, un modello
che ha compresso la domanda interna e creato una spirale di precarietà per i
lavoratori. “Non è più sostenibile”, dice Draghi. E qui, caro Mario, il
keynesiano che è in noi applaude: finalmente qualcuno al centro del potere
riconosce che una crescita basata sul contenimento dei salari non è solo
ingiusta, ma economicamente miope.
Ma non facciamo in tempo a gioire che subito arriva la proposta: non
riequilibriamo la nave aumentando la spesa pubblica per rilanciare la domanda
interna, come insegnerebbe Keynes. No, meglio scavare ancora più in profondità,
tagliando ulteriormente il welfare. Una mossa che somiglia a spegnere un
incendio con la benzina.
Ma che grande novita: le pensioni come nemico pubblico
Draghi ci mette davanti cifre impressionanti: passività pensionistiche tra
il 150% e il 500% del PIL in Europa. Una cifra “monstre”, dice lui. E la
soluzione qual è? Non riformare il sistema per garantire maggiore equità
contributiva o migliorare la redistribuzione, ma continuare a presentare le
pensioni come un peso insostenibile. Certo, in un sistema che ha scelto di
favorire i capitali rispetto al lavoro, le pensioni sembrano un lusso. Ma solo
perché il sistema stesso ha reso impossibile pensarle come un diritto
collettivo, anziché come un fardello.
Invece di chiedersi come redistribuire ricchezza e risorse per sostenere
una popolazione che invecchia, Draghi invita a “migliorare la composizione
della spesa fiscale”. Traduzione: tagliare il welfare per finanziare
investimenti dei quali – ironia della sorte – beneficeranno solo i soliti noti,
quelli che non si preoccupano della pensione.
L’alternativa che Draghi ignora
La diagnosi è corretta: l’Europa ha bisogno di investimenti pubblici
significativi per affrontare le sfide del futuro, dalla digitalizzazione alla
transizione energetica. Ma Draghi scarta la soluzione più semplice e giusta:
emettere debito comune europeo e rilanciare la domanda interna attraverso
politiche espansive. In un sistema economico stagnante, è il settore pubblico
che deve prendere l’iniziativa, stimolando investimenti e consumi per creare un
ciclo virtuoso.
Invece, Draghi preferisce affidarsi al solito mantra delle “riforme
strutturali”. Ma anche qui il termine viene reinterpretato: non più tagli ai
salari, ma “riqualificazione” dei lavoratori. Un passo avanti, certo, ma senza
politiche concrete che garantiscano salari dignitosi e diritti universali,
questa riqualificazione rischia di diventare l’ennesimo slogan vuoto.
La finta urgenza delle “cifre monstre”
Uno dei trucchi più vecchi del capitalismo neoliberista è spaventare
l’opinione pubblica con cifre astronomiche. Draghi non fa eccezione: passività
pensionistiche enormi, 800 miliardi l’anno per investimenti in difesa, energia,
digitalizzazione. Certo, sono numeri impressionanti. Ma è davvero impossibile
trovare risorse? O forse è il sistema fiscale europeo, costruito per favorire i
grandi capitali, che andrebbe riformato?
Keynes suggerirebbe di guardare dove si accumula la ricchezza: nei profitti
delle grandi multinazionali, nei paradisi fiscali, nei mercati finanziari.
Un’imposta minima europea sui profitti, una vera lotta all’evasione fiscale, e
un debito comune sarebbero sufficienti a finanziare quegli investimenti senza
sacrificare pensioni e welfare. Ma Draghi, come tanti altri, preferisce
ignorare queste soluzioni.
Un modello di sviluppo diverso è possibile
Il problema di fondo è che Draghi – come molti altri difensori del
capitalismo finanziario – non riesce a immaginare un modello di sviluppo
diverso. L’Europa potrebbe puntare su una crescita inclusiva, basata su
investimenti pubblici, redistribuzione e rafforzamento dello Stato sociale. Ma
questo richiederebbe una svolta politica e culturale che metta al centro il
benessere delle persone, non i profitti.
In conclusione, Draghi ci offre un’ammissione di colpa e una promessa di
perseverare nell’errore. Riconosce che il capitalismo finanziario ha fallito,
ma propone soluzioni che perpetuano le disuguaglianze. Non è troppo tardi per
cambiare rotta, ma serve il coraggio di abbandonare vecchi dogmi e immaginare
un futuro diverso. E questo coraggio, purtroppo, sembra mancare.
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