Quando Schumpeter, un secolo fa, scriveva degli animal spirits
pensava a imprenditori che avrebbero fatto crescere l’economia.
Gli animal spirits oggi, nella scuola pubblica sono declinati in
un modo che provo a descrivere.
Già da tempo alcuni colleghi che dovrebbero entrare in ruolo nella
fase C fanno visita ai DS, non in tutte le scuole, per carità, chiedendo che la
loro scuola indichi per il potenziamento aree (adesso nella circolare del MIUR
del 21-09-2015, qui ) nelle quali le classi di concorso dei docenti in visita
possano essere comprese.
Ultimamente si sono viste anche cose di questo genere:
L’Apidge (associazione dei docenti della classe di concorso A019)
fa sapere che i loro protetti devono essere (e sono, leggi qui) privilegiati per
l’immissione in ruolo nella fase C.
I docenti della A037 chiedono di essere assunti in gran numero
nella fase C (qui).
Un altro gruppo di docenti della A019, classe di concorso molto
attiva in questo “mercato” delle immissioni in ruolo (qui), chiede l’immissione in ruolo dei docenti della A019 (qui), pare che la ministra gliel’abbia assicurata, anzi è
sicuro (qui),
dicono quelli dell’ Apidge.
Addirittura
il Coordinamento nazionale dei docenti della disciplina Diritti umani chiede la
creazione un’autonoma classe di concorso “Diritti Umani-materia alternativa” (qui)
L’appello dei docenti della A037 è quasi folkloristico in
confronto alla macchina da guerra creata dalle associazioni dei docenti della
A019, e non da oggi (qui).
Ma come si fa a pensare che la materia alternativa alla religione
possa essere insegnata solo dagli insegnanti di diritto?
È possibile immaginare che si possa parlare di diritti umani, universali,
magari, a partire da un film, o da un libro, o da un articolo di giornale,
senza usare il codice civile?
O qualcuno ha il monopolio della parola diritti?
Dopo “libro e moschetto”, “diritti umani e codice civile”?
È incredibile come qualche manina abbia introdotto un'area per il
potenziamento disegnata per la 019, e che la ministra dica che ogni scuola
debba avere un insegnante di diritto (alla faccia dell’autonomia delle scuole e
dell’imparzialità dell’Amministrazione), sarà la potenza lobbistica trasversale
di tutte quelle associazioni, e non solo, che sponsorizzano la classe si
concorso della 019?
Vorrei però sfuggire dalla polemica, sapendo che chiunque, di
fronte alla potenza di fuoco di quelle associazioni, si sentirebbe come quel
ragazzo cinese davanti ai carri armati nel 1989, in piazza Tienanmen.
Aggiungo
solo che è commovente il passaggio nel quale si perora la causa dei poveri
professori della 019 che hanno il diritto di entrare a ruolo, “la meritata stabilizzazione di personale altamente
specializzato,finora criminalmente
penalizzato da riforme scolastiche dissennate” (sempre qui),
le belle anime potrebbero commuoversi fino al pianto, lacrime di coccodrillo,
naturalmente. Forse che gli insegnanti delle altre classi di concorso non
meritano la stabilizzazione?
Che supponenza e razzismo!
En passant, ancora, senza nessuna polemica, per carità, a me è
capitato, negli anni, di avere colleghi commercialisti, ingegneri, avvocati, e
non solo, in molti casi degni e competenti insegnanti, ma anche molti colleghi
commercialisti, ingegneri, avvocati, e non solo, che lasciavano la classe sola,
prima sella fine dell’ora di lezione, per telefonare negli anditi con lo studio
o con i clienti.
L’ultimo tipo d’insegnanti servono alla scuola a tempo pieno? O
potrebbe bastare il part time?
Sento di nuovo le lacrime di coccodrillo delle anime belle, sulla
perdita di professionalità, di esperienza e di competenze per la scuola, se si
rinunciasse all’apporto dei professionisti iscritti agli albi professionali, o
addirittura alla libertà d’insegnamento.
PS: qualcosa sa e ricorda che da qualche anno una disciplina
chiamata “Diritto e Tecniche Amministrative”, negli istituti alberghieri, che
la legge assegna, in due opzioni su tre, alla classe di concorso A017 e invece
grazie a una Nota del Miur(qui la storia)
viene insegnata anche dai docenti della A019.
Non
pago di ciò il Miur ha deciso che i docenti della A019 potessero essere
chiamati nelle commissioni degli Esami di Stato per quella disciplina.
A
giugno di quest’anno molti colleghi commissari d’esame, della A019, una volta
insediata la commissione, visti i programma ministeriali, hanno consegnato al
presidente di Commissione e agli Uffici periferici del Miur una dichiarazione
di non essere competenti in quella disciplina.
Come
se niente fosse il Miur li ha sostituiti con commissari della classe di
concorso A017, che, coincidenza, è la classe di concorso a cui la legge
attribuisce l’insegnamento.
E
come se niente fosse, anche quest’anno, nella loro autonomia, molti dirigenti
scolastici degli alberghieri hanno nominato, in certe classi e in certe
sezioni, docenti della A019, nonostante tre mesi prima i docenti della A019 si
dichiarassero incompetenti.
Mistero
del ministero: può un’insegnante dichiararsi incompetente a partecipare agli
esami di stato, e contemporaneamente essere competente a insegnare la stessa
materia per la quale si dichiara incompetente?
In
un gran libro intitolato “Comma 22”, il regolamento, al comma 22, recitava: "Chi è pazzo può chiedere di essere esentato
dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo
non è pazzo".
Al Miur sono più avanti: “Chi si dichiara incompetente per
partecipare all’esame di stato può essere esentato dall’esaminare gli studenti
in una certa disciplina, ma chi chiede di essere esentato dall’esaminare
gli studenti in una certa disciplina all’esame di stato può insegnare quella
disciplina”.
Nessuno
si offenderà, spero, per la satira di Mel Brooks:
si legge come un romanzo, un terribile romanzo. e però è tutto tragicamente vero. leggendo questo libro anche Pangloss avrebbe difficoltà enormi a convincere Candido (e noi) che viviamo nelmigliore dei mondi possibili. una giornalista segue la pista di un pedofilo potente e svela una parte di realtà, molto grande, che non vogliamo conoscere, scrivendo nomi e cognomi, e qui sta la differenza, nei romanzi i nomi sono di fantasia e nessuno prova a sequestrarti e ucciderti, Lydia Cacho l'ha provato di persona. nel mondo alla rovescia (il nostro) deve difendersi chi racconta quello che succede. lettura dolorosa, ma necessaria - franz
«Metti che dico a Lesly Portamene
una di 4 anni, e lei mi dice: Se la sono già scopata, io lo vedo se
l’hanno già scopata vedo se è il caso di metterglielo dentro
o no. Tu lo sai che è il mio vizio, no? È una stronzata ma non
so resistere, e lo so che è un reato e che è proibito
però è talmente facile, una bambina piccola non ha difese, la convinci
in un amen e la prendi». Lydia Cacho ha cominciato da qui, dalle immagini
di una confessione strappata da una telecamera nascosta a Jean Succar
Kuri, imprenditore pedofilo coinvolto nel trafficking di bambine
e adolescenti all’interno di una rete internazionale e coperto
da importanti esponenti politici e uomini d’affari probabilmente,
anche loro, implicati nel traffico. Un’inchiesta che ha portato la giornalista
messicana prima alla pubblicazione di Los Demonios del Eden (2005), dove
racconta il traffico delle bambine, gli stupri, il mercato del sesso
all’interno di una rete con «molteplici connessioni internazionali»,
frutto di una vasta e capillare raccolta di documentazione e di
materiale pedopornografico, con video e foto, in cui la scrittrice
non ha paura di fare nomi e cognomi dei responsabili; e poi
a Memorie di un’infamia (2011) dove racconta anche la sua storia, il
suo incubo personale. Accusata di diffamazione e calunnia,
a causa del primo libro, dagli stessi responsabili del trafficking,
Lydia Cacho non sapeva di aver messo il dito su una piaga che coinvolgeva non
solo l’imprenditore Succar ma un intero entourage politico fatto di legami
e clientelismi, che l’avrebbe portata quasi a morire per mano
della polizia giudiziaria corrotta. Arrestata, sequestrata, torturata,
portata in un carcere fuori la sua giurisdizione, Lydia è viva per
miracolo, e dopo essere stata coinvolta in processi senza fine, riceve
ancora oggi minacce di morte. Ed è per questo che è importante parlare
di lei, perché oltre al suo coraggio è viva anche «grazie alla mobilitazione
dell’opinione pubblica e all’appoggio di colleghi e colleghe del
mondo del giornalismo e, più in generale, di quello dei mezzi di comunicazione»,
come spiega lei stessa, perché se il suo caso non fosse diventato pubblico
e se il suo arresto non fosse balzato ai mass media al momento del suo
prelievo coatto, il suo corpo sarebbe stato probabilmente ritrovato in
mare senza vita. Un esempio di giornalismo militante che acquista
i suo potere «quando dà voce a chi è stato costretto
a tacere dalla forza schiacciante della violenza», uno dei motivi per
cui Lydia Cacho, insieme a Roberto Saviano, ha ricevuto pochi giorni fa
l’Olof Palme Prize 2012, il premio svedese destinato a chi lotta per la
libertà, per la «instancabile, altruista e spesso solitaria battaglia
per i loro ideali e per i diritti umani».
Questa non è la storia di un uomo
che scopre quanto gli piaccia avere rapporti sessuali con bambine anche di soli
cinque anni. Questa è la storia di una rete criminale che protegge e
sponsorizza la pedopornografia infantile. È la storia di Jean Succar Kuri
(distinto proprietario di alberghi), il capo di questa rete, che intesse
relazioni con importanti uomini politici e influenti imprenditori messicani ai
quali procura bambine e bambini per il loro piacere. Scrivere o leggere un
libro sugli abusi sessuali infantili e sul traffico di minori non è un compito
facile né un passatempo gradevole. Su questo fenomeno, tuttavia, è più pericoloso
mantenere il silenz io. Con la tacita connivenza della società e dello Stato,
migliaia di bambine e bambini diventano vittime di trafficanti che li
trasformano in oggetti sessuali a beneficio di milioni di uomini, che dalla
pedopornografia e dall’abuso sessuale sui minori traggono un godimento
personale esente da interrogativi etici. Benché gli episodi raccontati dalle
vittime siano profondamente dolorosi, il coraggio dei testimoni e la chiarezza
degli esperti ci consentono di scorgere la luce in fondo al tunnel e
approfondire le conseguenze dell’inazione di fronte alla violenza e allo
sfruttamento sessuale. Questo è un libro di Lydia Cacho, la giornalista più
temuta e ricercata del Messico.
Il primo libro di Lydia Cacho.
Per questa inchiesta la giornalista è stata arrestata illegalmente, torturata
e minacciata di morte numerose volte.
Città del Messico. In un paese dove
i giornalisti sono comunemente assassinati dai trafficanti di droga se scrivono
articoli sullo spaccio, Lydia Cacho Ribeiro ha preso di mira un’altra piaga: la
prostituzione forzata di minori. Il suo libro “I demoni dell’Eden: il potere
dietro la pornografia”, pubblicato in lingua spagnola nel maggio 2005,
testimonia il coinvolgimento di importanti uomini d’affari messicani nei giri
della pornografia infantile. Nel testo fa menzione di Jose Kamel Nacif Borge,
un industriale tessile di Puebla, amico e socio di Jean Succar Kuri, uomo
d’affari arrestato in Arizona (ed in attesa di estradizione da parte del
Messico) per accuse riguardanti la pornografia e la prostituzione infantile.
Il libro di Lydia dimostra che Nacif Borge non è solo un amico, ma bensì un
protettore di Succar e ciò implica che l’industriale tessile potrebbe a sua
volta aver abusato o abusare di minorenni.
Nacif, conosciuto come “Il Re del Denim” per le sue fabbriche di jeans, ha
denunciato la 42enne autrice per diffamazione, e Lydia è stata arrestata a
Cancun il 16 dicembre 2005. Quel giorno la polizia le fece compiere un viaggio
di ventuno ore in auto fino a Puebla, nel Messico centrale, poiché là era stato
emanato l’ordine di arresto.
“Il modo in cui sono stata arrestata, con quattro veicoli corazzati e una
scorta di poliziotti, è il tipo di cosa che vorrei veder fatta per l’arresto di
coloro che continuano ad assassinare donne a Juarez.”, mi ha detto Lydia,
riferendosi alle centinaia di omicidi di donne che in quella città sono casi
insoluti. La polizia insiste a ripetere che tutto è stato compiuto in termini
assolutamente legali. Nei prossimi mesi Lydia dovrà presentarsi in tribunale.
Se trovata colpevole, potrebbe essere condannata a sei mesi di prigione. Come
in gran parte dell’America Latina, la diffamazione è un reato penale vero e
proprio. Basta che le parole danneggino una reputazione: anche se ciò che viene
detto è vero, può essere rubricato come diffamazione.
Lydia Cacho dice che in tribunale dovrà dimostrare che non ha scritto certe
cose per “malizia”, ma perché ciò era necessario al suo lavoro di giornalista.
Il suo libro include la trascrizione di un video in cui Succar attesta pianamente
di aver fatto sesso con bambine di cinque anni. Il video, parte di
un’operazione in cui la vittima predestinata di Succar ha segretamente
registrato una conversazione con lui, è di due anni orsono ed è stato
ampiamente pubblicizzato.
“Quello che ho scritto di Nacif Borge è esattamente ciò che la vittima ha detto
di lui alla polizia federale. Succar e Nacif Borge sono amici intimi, è quello
che entrambi hanno dichiarato.”, dice ancora Lydia. Ciò è stato sufficiente per
l’accusa di diffamazione e per quello che Joel Simon, vicedirettore del
Comitato di protezione dei giornalisti di New York, chiama “un rapimento
giudiziario”. Simon sostiene che la classificazione criminosa della
diffamazione in America Latina limita la libertà di parola. La sua organizzazione
ha chiesto al Presidente messicano che i reati contro la libertà di opinione
vengano investigati. Amnesty International ha chiamato la detenzione di Lydia
Chaco “molestia giudiziaria”, e sostiene che essa minaccia la libertà di
espressione della giornalista, e rende il resto del suo lavoro più pericoloso.
Numerosi altri gruppi internazionali sono intervenuti a favore di Lydia.
L’autrice ed attivista racconta che sua madre, psicologa, ebbe in cura numerose
vittime di abusi sessuali e violenza domestica, ed instillò nei propri sei
figli la convinzione che “noi si abbia l’obbligo di fare qualcosa per il nostro
paese, non tanto come atto quanto come responsabilità”. Per circa 4 anni,
dichiaratamente ispirata dalla madre, Lydia ha diretto un Centro per le vittime
di violenza domestica a Cancun, il “Centro Integral de Atencion a la Mujer”,
che si è costruito un’ottima reputazione. La giornalista è molto conosciuta
come direttrice del magazine “Esta boca es mia” (Questa bocca è mia), una
rivista alternativa dedicata alle donne con base a Cancun. Lydia fa parte del
network “Comunicacion e Informacion de la Mujer” (Comunicazione ed informazione
della donna) il cui scopo è trattare informazioni e temi utili alle donne. E’
anche collaboratrice di vari quotidiani.
Lydia Cacho, laureata alla Sorbona, figlia di immigrati francesi, lasciò Città
del Messico circa vent’anni fa, trovandola troppo caotica. Pensava che avrebbe
avuto a Cancun una vita “pacifica e tranquilla”. Il suo lavoro le ha portato
minacce ed almeno una grave aggressione. Lydia sospetta che lo stupro che ha
subito su un autobus nel 1998 sia stato compiuto per ridurla al silenzio. Ora,
i rischi che corre vanno aumentando. Subito dopo la pubblicazione del libro
Lydia è stata posta sotto protezione dalla polizia federale, che però non ha
avuto l’autorità per proteggerla dall’arresto da parte degli ufficiali di
stato.
I casi di abuso di minori di cui si è occupata partono dalla testimonianza di
una delle vittime di Succar, che un paio d’anni fa lo denunciò. La ragazza
disse che l’uomo l’aveva incontrata fuori di scuola quando aveva 13 anni e
l’aveva invitata a casa sua per nuotare in piscina e guardare la tv. Dopo un
paio di visite Succar la costrinse a fare sesso con lui, e più tardi ad
“arruolare” altre ragazzine, persino più giovani di lei. La ragazza rivelò
tutto quattro anni più tardi, dietro consiglio di un’insegnante con la quale si
era confidata.
Dopo aver testimoniato, la fanciulla (il cui nome non appare nel libro) si
rivolse al Centro diretto da Lydia per aiuto, poiché era stata minacciata.
Lydia riuscì a farla accogliere da un rifugio in Texas, dove sperava che la
ragazza sarebbe stata al sicuro, ma gli avvocati di Succar riuscirono a
trovarla e le fecero ritirare la denuncia. Da allora la ragazza è ricoverata in
un istituto di Los Angeles, dove viene curata per grave trauma psicologico.
Quando la
voce tonante del “marshall” del Congresso americano ha annunciato “the Pope of the Holy See”, nell’aula del Campidoglio di Washington che ospitava i deputati, i
senatori, i giudici della Corte Suprema e i vertici militari del Paese,
c’era benevola attesa, e un lieve,
diffuso imbarazzo. L’ho sentito dire dai commentatori americani e mi è
sembrato di percepirlo da spettatore che conosce il rito. Piccoli schiarimenti
di voce, e una sedia o due che si muovono. Poi il silenzio teso, che non è
tipico delle assemblee politiche. Salvo gli applausi, brevi e intensi ma
raramente comuni a tutti, e le ovazioni (sette) non tutte unanimi. Ma il silenzio è stato il vero tributo.
Quest’uomo
ha qualcosa da dire e bisogna ascoltarlo. C’era una sfida implicita
nell’evento. Nessun Papa ha mai parlato al Congresso degli Stati Uniti, e
benché introdotto come un capo di Stato, ci si aspettava che la sua sarebbe
stata una omelia ricca
di apprezzamenti, di ammonimenti, di incitamenti a sperare, insomma la
religione. Francesco invece ha parlato, col passo un poco rallentato dalla
lingua estranea e la voce appena sotto tono, in un luogo di voci stentoree. E
con le sue parole ben misurate e senza un solo inciampo o ripetizione, ha presentato al Congresso americano lo stato
del mondo. Il suo è stato un
grande discorso politico. E chi, fra i commentatori americani, ha
provato a usare l’argomento come rimprovero, si è trovato isolato. Il silenzio,
gli applausi quasi mai unanimi ma forti, le ovazioni non al Papa ma al leader
che sta attraversando un’epoca e il mondo, il pianto commosso e impossibile da nascondere dello speaker della Camera Boehner (cattolico, ma capo
di una destra rigida da cui, dopo aver ascoltato Francesco, ha deciso di
dimettersi) quando ha accompagnato il Papa per il saluto alla folla hanno
confermato la cosa strana e mai accaduta: chi ascoltava, da un luogo
privilegiato e potente, si è accorto di essersi spostato a un livello più alto
non perché religioso, ma perché ti mostra l’intero orizzonte di un’epoca e ti chiede di scegliere. Bello il
titolo del New York Times del 25 settembre: “Il Papa chiama ad
agire”, che dato il luogo, la sede e i protagonisti, mostra la qualità
straordinaria dell’evento.
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Il discorso
di Francesco è grande perché rovescia il discorso politico. Invece di
annunciare, raccoglie la voce di chi non ha la voce. Invece di accusare spiega
che ciascuno di noi è il nemico nel momento in cui diventa spietato e crudele
credendo di rimettere in ordine la civiltà. Invece di decidere che cosa è bene
o male, indica dei percorsi, e li segue insieme a chi lo ascolta. Nomina
Lincoln, che è la libertà,Martin Luther
King, che è il grande protagonista della nonviolenza ma anche del non
rassegnarsi, Dorothy Day,
la donna oggi ignorata da tanti americani, iniziatrice del Movimento dei
Lavoratori Cattolici per organizzare la difesa del lavoro anche quando lo
sfruttatore del lavoro era la Chiesa cattolica. E Thomas Merton che crea, nel discorso del Papa, due legami,
con il mondo della cultura che lo ha sempre riconosciuto come un grande, e con
quello del monachesimo contemplativo.
Bello il suo
elenco dei fondamentalismi da
cui stare lontani, quello religioso, che non è solo islamico ma anche
cristiano, anche cattolico, e quello del capitalismo, quando vuole trasformare
l’impresa in santuario, invece che riconoscere il luogo del rispettato lavoro
insieme. Importante, e d’ora in poi dottrina della Chiesa, la condanna del più
malvagio degli espedienti del potere: trasformare in nemico interno chi si
oppone e non sta al gioco.
Il rifiuto
della pena di morte giunge
inaspettata e a metà di un applauso di chi credeva che finalmente il Papa
stesse per parlare diaborto.
Invece, in nome della sacralità della vita umana, ha chiesto all’America di
abolire subito e per sempre la pena di morte. Ha voluto che la sua voce
portasse forza e risonanza mondiale a quella di chi, da decenni (i Radicali
italiani) ha iniziato e non ha mai smesso una campagna di liberazione dal boia
che continua anche adesso all’Onu. La condanna delle armi che portano morte e
si producono e si vendono con grandi profitti, detto in quel punto e in quel
modo del suo discorso, ha affrontato un ostacolo molto grande che tormenta la
democrazia americana, e a cui solo un leader come Obama ha il coraggio di
opporsi. L’altro, il tentativo di respingere l’immigrazione, lo ha affrontato
allargando le braccia, lo strano uomo in bianco in quella grande aula del
potere per dire: “Io sono un emigrante.
Sono nato da italiani sbarcati in Sudamerica. Voi tutti, in quest’aula siete
emigranti, anche se di diverse generazioni. Come possiamo decidere chi non
entra, chi lasciamo morire?”. Papa Francesco aveva di fronte un Congresso
ammirato, disorientato, incerto tra l’ovazione e il dissenso. Ma anche stupito.
Quel suo sguardo sul mondo era… è più grande della politica.
Signor Vicepresidente,
Signor Presidente della Camera dei Rappresentanti,
Onorevoli Membri del Congresso,
Cari Amici,
Sono molto grato per il vostro invito a rivolgermi a questa
Assemblea Plenaria del Congresso nella “terra dei liberi e casa dei valorosi”.
Mi piace pensare che la ragione di ciò sia il fatto che io pure sono un figlio
di questo grande continente, da cui tutti noi abbiamo ricevuto tanto e verso il
quale condividiamo una comune responsabilità.
Ogni figlio o figlia di una determinata nazione ha una
missione, una responsabilità personale e sociale. La vostra propria
responsabilità come membri del Congresso è di permettere a questo Paese, grazie
alla vostra attività legislativa, di crescere come nazione. Voi siete il volto
di questo popolo, i suoi rappresentanti. Voi siete chiamati a salvaguardare e a
garantire la dignità dei vostri concittadini nell’instancabile ed esigente
perseguimento del bene comune, che è il fine di ogni politica.
Una società politica dura nel tempo quando si sforza, come
vocazione, di soddisfare i bisogni comuni stimolando la crescita di tutti i
suoi membri, specialmente quelli in situazione di maggiore vulnerabilità o
rischio. L’attività legislativa è sempre basata sulla cura delle persone. A
questo siete stati invitati, chiamati e convocati da coloro che vi hanno
eletto.
Il vostro è un lavoro che mi fa riflettere sulla figura di
Mosè, per due aspetti. Da una parte il patriarca e legislatore del popolo
d’Israele simbolizza il bisogno dei popoli di mantenere vivo il loro senso di
unità con gli strumenti di una giusta legislazione. Dall’altra, la figura di
Mosè ci conduce direttamente a Dio e quindi alla dignità trascendente
dell’essere umano. Mosè ci offre una buona sintesi del vostro lavoro: a voi
viene richiesto di proteggere, con gli strumenti della legge, l’immagine e la
somiglianza modellate da Dio su ogni volto umano.
Oggi vorrei rivolgermi non solo a voi, ma, attraverso di
voi, all’intero popolo degli Stati Uniti. Qui, insieme con i suoi
rappresentanti, vorrei cogliere questa opportunità per dialogare con le molte
migliaia di uomini e di donne che si sforzano quotidianamente di fare un’onesta
giornata di lavoro, di portare a casa il pane quotidiano, di risparmiare
qualche soldo e – un passo alla volta – di costruire una vita migliore per le
proprie famiglie. Sono uomini e donne che non si preoccupano semplicemente di
pagare le tasse, ma, nel modo discreto che li caratterizza, sostengono la vita
della società. Generano solidarietà con le loro attività e creano
organizzazioni che danno una mano a chi ha più bisogno.
Vorrei anche entrare in dialogo con le numerose persone
anziane che sono un deposito di saggezza forgiata dall’esperienza e che cercano
in molti modi, specialmente attraverso il lavoro volontario, di condividere le
loro storie e le loro esperienze. So che molti di loro sono pensionati, ma
ancora attivi, e continuano a darsi da fare per costruire questo Paese.
Desidero anche dialogare con tutti quei giovani che si impegnano per realizzare
le loro grandi e nobili aspirazioni, che non sono sviati da proposte
superficiali e che affrontano situazioni difficili, spesso come risultato
dell’immaturità di tanti adulti. Vorrei dialogare con tutti voi, e desidero
farlo attraverso la memoria storica del vostro popolo.
La mia visita capita in un momento in cui uomini e donne di
buona volontà stanno celebrando gli anniversari di alcuni grandi Americani.
Nonostante la complessità della storia e la realtà della debolezza umana,
questi uomini e donne, con tutte le loro differenze e i loro limiti, sono stati
capaci con duro lavoro e sacrificio personale – alcuni a costo della propria
vita – di costruire un futuro migliore. Hanno dato forma a valori fondamentali
che resteranno per sempre nello spirito del popolo americano. Un popolo con
questo spirito può attraversare molte crisi, tensioni e conflitti, mentre
sempre sarà in grado di trovare la forza per andare avanti e farlo con dignità.
Questi uomini e donne ci offrono una possibilità di guardare e di interpretare
la realtà. Nell’onorare la loro memoria, siamo stimolati, anche in mezzo a
conflitti, nella concretezza del vivere quotidiano, ad attingere dalle nostre
più profonde riserve culturali.
Vorrei menzionare quattro di questi Americani: Abraham
Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton.
Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario
dell’assassinio del Presidente Abraham Lincoln, il custode della libertà, che
ha instancabilmente lavorato perché “questa nazione, con la protezione di Dio,
potesse avere una nuova nascita di libertà”. Costruire un futuro di libertà
richiede amore per il bene comune e collaborazione in uno spirito di
sussidiarietà e solidarietà.
Siamo tutti pienamente consapevoli, ed anche profondamente
preoccupati, per la inquietante l’odierna situazione sociale e politica del
mondo. Il nostro mondo è sempre più un luogo di violenti conflitti, odi e
brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione. Sappiamo
che nessuna religione è immune da forme di inganno individuale o estremismo
ideologico. Questo significa che dobbiamo essere particolarmente attenti ad
ogni forma di fondamentalismo, tanto religioso come di ogni altro genere. È
necessario un delicato equilibrio per combattere la violenza perpetrata nel
nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico, mentre si
salvaguarda allo stesso tempo la libertà religiosa, la libertà intellettuale e
le libertà individuali. Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci:
il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite,
giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che
toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni
forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi. Sappiamo
che nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere
tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei
tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo
è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate.
La nostra, invece, dev’essere una risposta di speranza e di
guarigione, di pace e di giustizia. Ci è chiesto di fare appello al coraggio e
all’intelligenza per risolvere le molte crisi economiche e geopolitiche di
oggi. Perfino in un mondo sviluppato, gli effetti di strutture e azioni
ingiuste sono fin troppo evidenti. I nostri sforzi devono puntare a restaurare
la pace, rimediare agli errori, mantenere gli impegni, e così promuovere il
benessere degli individui e dei popoli. Dobbiamo andare avanti insieme, come
uno solo, in uno spirito rinnovato di fraternità e di solidarietà, collaborando
generosamente per il bene comune.
Le sfide che oggi affrontiamo, richiedono un rinnovamento
di questo spirito di collaborazione, che ha procurato tanto bene nella storia
degli Stati Uniti. La complessità, la gravità e l’urgenza di queste sfide
esigono che noi impieghiamo le nostre risorse e i nostri talenti, e che ci
decidiamo a sostenerci vicendevolmente, con rispetto per le nostre differenze e
per le nostre convinzioni di coscienza.
In questa terra, le varie denominazioni religiose hanno
contribuito grandemente a costruire e a rafforzare la società. È importante che
oggi, come nel passato, la voce della fede continui ad essere ascoltata, perché
è una voce di fraternità e di amore, che cerca di far emergere il meglio in
ogni persona e in ogni società. Tale cooperazione è una potente risorsa nella
battaglia per eliminare le nuove forme globali di schiavitù, nate da gravi
ingiustizie le quali possono essere superate solo grazie a nuove politiche e a
nuove forme di consenso sociale.
Penso qui alla storia politica degli Stati Uniti, dove la
democrazia è profondamente radicata nello spirito del popolo americano.
Qualsiasi attività politica deve servire e promuovere il bene della persona
umana ed essere basata sul rispetto per la dignità di ciascuno. “Consideriamo
queste verità come per sé evidenti, cioè che tutti gli uomini sono creati
uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che
tra questi ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità” (Dichiarazione
di Indipendenza, 4 luglio 1776). Se la politica dev’essere veramente al
servizio della persona umana, ne consegue che non può essere sottomessa al
servizio dell’economia e della finanza. Politica è, invece, espressione del
nostro insopprimibile bisogno di vivere insieme in unità, per poter costruire
uniti il più grande bene comune: quello di una comunità che sacrifichi gli
interessi particolari per poter condividere, nella giustizia e nella pace, i
suoi benefici, i suoi interessi, la sua vita sociale. Non sottovaluto le
difficoltà che questo comporta, ma vi incoraggio in questo sforzo.
Penso anche alla marcia che Martin Luther King ha guidato
da Selma a Montgomery cinquant’anni fa come parte della campagna per conseguire
il suo “sogno” di pieni diritti civili e politici per gli Afro-Americani. Quel
sogno continua ad ispirarci. Mi rallegro che l’America continui ad essere, per
molti, una terra di “sogni”. Sogni che conducono all’azione, alla
partecipazione, all’impegno. Sogni che risvegliano ciò che di più profondo e di
più vero si trova nella vita delle persone. Negli ultimi secoli, milioni di
persone sono giunte in questa terra per rincorrere il proprio sogno di
costruire un futuro in libertà. Noi, gente di questo continente, non abbiamo
paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri. Vi dico
questo come figlio di immigrati, sapendo che anche tanti di voi sono
discendenti di immigrati. Tragicamente, i diritti di quelli che erano qui molto
prima di noi non sono stati sempre rispettati. Per quei popoli e le loro
nazioni, dal cuore della democrazia americana, desidero riaffermare la mia più
profonda stima e considerazione. Quei primi contatti sono stati spesso
turbolenti e violenti, ma è difficile giudicare il passato con i criteri del
presente. Tuttavia, quando lo straniero in mezzo a noi ci interpella, non
dobbiamo ripetere i peccati e gli errori del passato. Dobbiamo decidere ora di
vivere il più nobilmente e giustamente possibile, così come educhiamo le nuove
generazioni a non voltare le spalle al loro “prossimo” e a tutto quanto ci
circonda. Costruire una nazione ci chiede di riconoscere che dobbiamo
costantemente relazionarci agli altri, rifiutando una mentalità di ostilità per
poterne adottare una di reciproca sussidiarietà, in uno sforzo costante di fare
del nostro meglio. Ho fiducia che possiamo farlo.
Il nostro mondo sta fronteggiando una crisi di rifugiati di
proporzioni tali che non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Questa realtà ci pone davanti grandi sfide e molte dure decisioni. Anche in questo
continente, migliaia di persone sono spinte a viaggiare verso il Nord in cerca
di migliori opportunità. Non è ciò che volevamo per i nostri figli? Non
dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come
persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie, tentando di
rispondere meglio che possiamo alle loro situazioni. Rispondere in un modo che
sia sempre umano, giusto e fraterno. Dobbiamo evitare una tentazione oggi
comune: scartare chiunque si dimostri problematico. Ricordiamo la Regola d’Oro:
«Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te» (Mt7,12).
Questa norma ci indica una chiara direzione. Trattiamo gli
altri con la medesima passione e compassione con cui vorremmo essere trattati.
Cerchiamo per gli altri le stesse possibilità che cerchiamo per noi stessi.
Aiutiamo gli altri a crescere, come vorremmo essere aiutati noi stessi. In una
parola, se vogliamo sicurezza, diamo sicurezza; se vogliamo vita, diamo vita;
se vogliamo opportunità, provvediamo opportunità. La misura che usiamo per gli
altri sarà la misura che il tempo userà per noi. La Regola d’Oro ci mette anche
di fronte alla nostra responsabilità di proteggere e difendere la vita umana in
ogni fase del suo sviluppo.
Questa convinzione mi ha portato, fin dall’inizio del mio
ministero, a sostenere a vari livelli l’abolizione globale della pena di morte.
Sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che ogni vita è
sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società
può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per
crimini.
Recentemente i miei fratelli Vescovi qui negli Stati Uniti
hanno rinnovato il loro appello per l’abolizione della pena di morte. Io non
solo li appoggio, ma offro anche sostegno a tutti coloro che sono convinti che
una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della
speranza e l’obiettivo della riabilitazione.
In questi tempi in cui le preoccupazioni sociali sono così
importanti, non posso mancare di menzionare la serva di Dio Dorothy Day, che ha
fondato ilCatholic Worker
Movement. Il suo impegno sociale, la sua passione per la giustizia e per la
causa degli oppressi, erano ispirati dal Vangelo, dalla sua fede e dall’esempio
dei santi.
Quanto cammino è stato fatto in questo campo in tante parti
del mondo! Quanto è stato fatto in questi primi anni del terzo millennio per
far uscire la gente dalla povertà estrema! So che voi condividete la mia
convinzione che va fatto ancora molto di più, e che in tempi di crisi e di
difficoltà economica non si deve perdere lo spirito di solidarietà globale.
Allo stesso tempo desidero incoraggiarvi a non dimenticare tutte quelle persone
intorno a noi, intrappolate nel cerchio della povertà. Anche a loro c’è bisogno
di dare speranza. La lotta contro la povertà e la fame dev’essere combattuta
costantemente su molti fronti, specialmente nelle sue cause. So che molti
americani oggi, come in passato, stanno lavorando per affrontare questo
problema.
Va da sé che parte di questo grande sforzo sta nella
creazione e distribuzione della ricchezza. Il corretto uso delle risorse
naturali, l’appropriata applicazione della tecnologia e la capacità di ben
orientare lo spirito imprenditoriale, sono elementi essenziali di un’economia che
cerca di essere moderna, inclusiva e sostenibile. «L’attività imprenditoriale,
che è una nobile vocazione, orientata a produrre ricchezza e a migliorare il
mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in
cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti
di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» (Enc.Laudato si’, 129).
Questo bene comune include anche la terra, tema centrale dell’Enciclica che ho
recentemente scritto, per «entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra
casa comune» (ibid., 3). «Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti,
perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e
ci toccano tutti» (ibid., 14).
Nell’EnciclicaLaudato si’esorto ad uno sforzo coraggioso e
responsabile per «cambiare rotta» (ibid., 61) ed evitare gli effetti più seri del degrado ambientale
causato dall’attività umana. Sono convinto che possiamo fare la differenza e
non ho dubbi che gli Stati Uniti - e questo Congresso – hanno un ruolo
importante da giocare. Ora è il momento di azioni coraggiose e strategie
dirette a implementare una «cultura della cura» (ibid., 231) e «un approccio integrale per combattere la povertà, per
restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura
della natura» (ibid., 139). Abbiamo la libertà necessaria per limitare e
orientare la tecnologia (cfribid., 112), per individuare modi intelligenti di «orientare,
coltivare e limitare il nostro potere» (ibid., 78) e mettere la tecnologia «al servizio di un altro tipo di
progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale» (ibid., 112). Al riguardo, ho fiducia che le istituzioni americane di
ricerca e accademiche potranno dare un contributo vitale negli anni a venire.
Un secolo fa, all’inizio della Grande Guerra, che il Papa
Benedetto XV definì “inutile strage”, nasceva un altro straordinario Americano:
il monaco cistercense Thomas Merton. Egli resta una fonte di ispirazione
spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse:
“Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia
prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo
in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come
me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura
di disperati e contraddittori desideri”. Merton era anzitutto uomo di
preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto
nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un
promotore di pace tra popoli e religioni.
In questa prospettiva di dialogo, vorrei riconoscere gli
sforzi fatti nei mesi recenti per cercare di superare le storiche differenze
legate a dolorosi episodi del passato. È mio dovere costruire ponti e aiutare
ogni uomo e donna, in ogni possibile modo, a fare lo stesso. Quando nazioni che
erano state in disaccordo riprendono la via del dialogo – un dialogo che
potrebbe essere stato interrotto per le ragioni più valide – nuove opportunità
si aprono per tutti. Questo ha richiesto, e richiede, coraggio e audacia, che
non vuol dire irresponsabilità. Un buon leader politico è uno che, tenendo
presenti gli interessi di tutti, coglie il momento con spirito di apertura e
senso pratico. Un buon leader politico opta sempre per «iniziare processi più
che possedere spazi» (Esort. ap.Evangelii gaudium,
222-223).
Essere al servizio del dialogo e della pace significa anche
essere veramente determinati a ridurre e, nel lungo termine, a porre fine ai
molti conflitti armati in tutto il mondo. Qui dobbiamo chiederci: perché armi
mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili
sofferenze a individui e società? Purtroppo, la risposta, come tutti sappiamo,
è semplicemente per denaro: denaro che è intriso di sangue, spesso del sangue
innocente. Davanti a questo vergognoso e colpevole silenzio, è nostro dovere
affrontare il problema e fermare il commercio di armi.
Tre figli e una figlia di questa terra, quattro individui e
quattro sogni: Lincoln, libertà; Martin Luther King, libertà nella pluralità e
non-esclusione; Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e
Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio.
Quattro rappresentanti del Popolo americano.
Terminerò la mia visita nella vostra terra a Filadelfia,
dove prenderò parte all’Incontro Mondiale delle Famiglie. È mio desiderio che
durante tutta la mia visita la famiglia sia un tema ricorrente. Quanto
essenziale è stata la famiglia nella costruzione di questo Paese! E quanto
merita ancora il nostro sostegno e il nostro incoraggiamento! Eppure non posso
nascondere la mia preoccupazione per la famiglia, che è minacciata, forse come
mai in precedenza, dall’interno e dall’esterno. Relazioni fondamentali sono
state messe in discussione, come anche la base stessa del matrimonio e della
famiglia. Io posso solo riproporre l’importanza e, soprattutto, la ricchezza e
la bellezza della vita familiare.
In particolare, vorrei richiamare l’attenzione su quei
membri della famiglia che sono i più vulnerabili, i giovani. Per molti di loro
si profila un futuro pieno di tante possibilità, ma molti altri sembrano
disorientati e senza meta, intrappolati in un labirinto senza speranza, segnato
da violenze, abusi e disperazione. I loro problemi sono i nostri problemi. Non
possiamo evitarli. È necessario affrontarli insieme, parlarne e cercare
soluzioni efficaci piuttosto che restare impantanati nelle discussioni. A
rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i
giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il
futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che
anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia.
Una nazione può essere considerata grande quando difende la
libertà, come ha fatto Lincoln; quando promuove una cultura che consenta alla
gente di “sognare” pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come
Martin Luther King ha cercato di fare; quando lotta per la giustizia e la causa
degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro,
frutto di una fede che diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo
di Thomas Merton.
In queste note ho cercato di presentare alcune delle
ricchezze del vostro patrimonio culturale, dello spirito del popolo americano.
Il mio auspicio è che questo spirito continui a svilupparsi e a crescere, in
modo che il maggior numero possibile di giovani possa ereditare e dimorare in
una terra che ha ispirato così tante persone a sognare.
Dio benedica l’America!
Parole del Papa a braccio dalla terrazza del Congresso
Buongiorno a tutti voi! Vi ringrazio per la vostra
accoglienza e la vostra presenza. Ringrazio i personaggi più importanti che ci
sono qui: i bambini. Voglio chiedere a Dio che li benedica! Signore, Padre di
tutti noi, benedici questo popolo, benedici ciascuno di loro, benedici le loro
famiglie, dona loro ciò di cui hanno maggiormente bisogno. E vi prego, per
piacere, di pregare per me. E se tra voi c’è qualcuno che non è credente, o non
può pregare, vi chiedo – per favore – di augurarmi cose buone. Grazie di cuore.
E Dio benedica l’America!
Il
libro della vita di un uomo, uno destinato a fare il contadino (povero), ma i casi
della vita lo fanno studiare e andare all’università, e, come direbbe Robert
Frost, “questo ha fatto tutta la differenza”.
Timido
e capace, sceglie la sua strada e si laurea in letteratura e riesce a diventare
professore nella stessa piccola università di provincia dove ha studiato.
Arriva
anche l’amore, se così si può chiamare, una figlia, un altro amore, lotte di
potere e di meschinità, dalle quali Stoner deve solo difendersi.
Una
vita appartata, laterale, senza mai fare del male a nessuno,due amici ai quali
vuole bene, e poi alla fine del libro leggerete delle pagine che non
dimenticherete facilmente.
Non
sempre tutto è spiegato, bisogna immedesimarsi, si capirà, de possibile, di
più.
A me
ha colpito (e commosso) il rapporto con i genitori, i nostri genitori.
Se
vi volete male e non volete soffrire neanche un minuto lasciate perdere Stoner,
ignoratelo - franz
inizia così:
William Stoner si iscrisse
all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni
dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in
Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a
insegnare fino alla sua morte nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore,
e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un
ricordo nitido…
…Hai tradotto i libri di
John Williams tra cui il celebre Stoner, un caso editoriale postumo. Ci
vuoi proporre un brano che ti è particolarmente piaciuto, o che ti è risultato
particolarmente difficile, spiegandoci anche il perché? Citerei l’incipit di Stoner, così asciutto e
evocativo: «William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel
1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra
mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico
presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel
1956».
Adoro l’essenzialità di Williams. Come iniziare il romanzo di una vita? Con il
nome e il cognome del protagonista! Non ho incontrato particolari difficoltà a
tradurre i suoi testi, perché la sua prosa è molto classica, e apparentemente
semplice. Immagino che lavorasse tanto per ottenere quest’effetto di
semplicità. Ricordo che all’inizio, per cercare di restituire l’eleganza di
certe frasi, tendevo a fare delle circonvoluzioni – complicando leggermente
l’originale. E puntualmente dovevo fare un passo indietro, perché la semplicità
funzionava meglio anche in italiano. È una cosa strana, che non mi era mai
successa prima. Di solito, se si è molto fedeli all’originale, ci si ritrova a
scrivere in uno strano italiano – specie quando si traduce dall’inglese. Nel
caso di Williams invece non è stato così: era come se tutta la fatica per
arrivare all’essenziale, al cuore delle cose e delle parole, l’avesse già fatta
lui…
…Il mistero di Stoner,
anche in senso tecnico, è da un lato nel paradossale equilibrio tra una
relazione di massima vicinanza e di estrema lontananza che la sua vita
intrattiene col mondo; dall’altro lato, e insieme, nell’oscillazione tra
estrema appartenenza e massima indifferenza con cui il protagonista prende
parte a ciò che gli accade. La scrittura mima e riproduce entrambi gli effetti:
da un lato costruendo scene ordinarie, fatte di dettagli precisi, che lasciano
parlare le cose e in qualche maniera hanno la medesima funzione dei dettici nel
sonetto di Shakespeare, ossia attaccano, in senso serio e letterale, il
personaggio alle condizioni della sua stagione; dall’altro lato, l’alone
sfuggente che circonda Stoner è raggiunto raccontando il protagonista senza mai
farci accedere alla sua psiche. Stoner, che uscì nel 1965, cioè due
anni prima del Portnoy’s Complaint, per indicare un esempio antitetico
di trattamento del personaggio, non mette al centro un ego narciso e debordante
coi suoi monologhi, ma un modo di “lasciarsi perdere”: come se guardare
all’esperienza personale dicendosi «non importa», anziché «io», potesse contare
molto di più; forse più di tutto il resto.
Cosa c'è di così bello in
questo romanzo?
"Appena lo inizi a leggere senti di essere in ottime mani. Ha una prosa
molto lineare. La trama, se ci si limita a elencare i suoi elementi, può
suonare molto noiosa e un po' troppo triste. Ma di fatto è una vita minima da
cui John Williams ha tratto un romanzo davvero molto bello. Ed è la più
straordinaria scoperta per noi fortunati lettori".
È piuttosto singolare che dopo così tanto tempo un romanzo di cui non
si è scritto né parlato, quindi sconosciuto, improvvisamente sia sulla bocca di
tutti come sta accadendo adesso.
"È una vecchia storia. È successo con altri scrittori, pensi a Irène
Némirovsky, che era piuttosto conosciuta in vita, poi dimenticata e poi di
nuovo riscoperta. E poi anche il caso di Hans Fallada, che visse a Berlino, un
altro caso di scrittore morto ed escluso dalla mappa culturale. E ora accade di
nuovo, credo sia una scoperta gioiosa".
Dunque il romanzo parla della vita di William Stoner, che appare
relativamente povera di accadimenti.
"Relativamente. Stoner viene da una povera famiglia di contadini,
frequenta la scuola di agraria, dove accede nel 1910 e segue, come ne esistono
in un altro migliaio di università americane, un corso di Lettere e Filosofia.
Il professore di letteratura durante una lezione legge il sonetto di
Shakespeare n. 73 ("In me tu vedi quel periodo dell'anno") e qui lo
studente ha un'epifania. Stoner lo ascolta e ne è trasformato, l'insegnante gli
chiede cosa voglia dire il sonetto e tutto ciò che Stoner riesce a dire,
flebilmente, è "significa...". E l'insegnante capisce immediatamente
che il ragazzo è stato colpito dalla letteratura inglese. Stoner poi diventa un
professore associato all'università e insegnerà fino alla sua morte, che
avverrà molte decadi più tardi. Si sposa, il matrimonio va male, ha una figlia
e anche la figlia va male, entra in una faida amara, o meglio è perseguitato da
un collega per venticinque anni e conosce l'unico momento di riscatto della sua
vita in una tenerissima storia d'amore che poi svanirà. C'è tutta lasua
vita".
Ma è la scrittura, ovviamente, che ha conquistatolei e tutti gli altri.
"Sembra aver toccato la verità umana come succede nella grande
letteratura. È quel tipo di prosa che non vuole mostrarsi. È quel tipo di
scrittura simile a una superficie di vetro, riesci a vedere immediatamente le
cose di cui parla. E credo che questo sia entusiasmante di per sé. Ha una tale
chiarezza, è una scrittura molto limpida. È straordinario ed è un avvertimento
per tutti noi scrittori: potresti essere anche molto conosciuto in vita e poi,
qualche anno dopo la tua morte, essere dimenticato".
Lei ha detto che la rappresentazione della morte di Stoner è un
passaggio supremo della letteratura contemporanea.
"Sì, noi esperiamo la morte di Stoner. È raccontata in terza persona, ma è
molto in soggettiva, è scritta in maniera molto diretta. E quindi vediamo la
rappresentazione della sua morte attraverso la percezione di quel momento dello
stesso Stoner, tutta la vita che scorre davanti ai suoi occhi. E da lettore hai
quasi la sensazione che il libro stesso stia morendo tra le tue mani e che il
personaggio stia morendo tra le tue mani, tu stesso sembri percepire un po'
della tua morte. La lettura delle ultime pagine è un'esperienza piuttosto
forte".
Siamo in un periodo in cui le persone sono alla ricerca di una lettura
per l'estate. E questo non sembra esattamente il tipo di storia da leggere
sotto l'ombrellone.
"Semmai è vero il contrario. Non sarò mai abbastanza convincente nel
sostenere che è questo il libro da portare in vacanza. Si insinuerà nelle
stanze d'albergo e sulle spiagge. Questa è una scoperta meravigliosa per tutti
gli amanti della letteratura".
L’Unione Europea ha stanziato 1,5
miliardi per l’Italia. Doveva essere un programma rivolto ai giovani tra i 15 e
i 29 anni che non erano iscritti a scuola o all'università, che non lavoravano
e non seguivano corsi di formazione. Quindi si doveva garantire ai giovani un
percorso di formazione, di lavoro e un'opportunità per favorire i giovani
disoccupati che permettesse di “sperimentare un nuovo sistema di servizi e di
politiche attive per il lavoro”. Il grosso dei 1,5 miliardi stanziati è
destinato a finire alle agenzie interinali (fino a 3mila euro a contratto) e
alle aziende private (fino a 6mila euro).
Una delle più
grandi agenzie del lavoro del mondo, la Manpower, ha dichiarato che i ricavi
per l'azienda tramite Garanzia Giovani si aggirano all'1% del fatturato.
Considerando gli 819 milioni di euro il fatturato italiano, si intascherebbero
ben 8 milioni di euro. Il bottino è cospicuo se si pensa che per la sola
Regione Lazio sono 14 le Società e le Agenzie accreditate, per una “torta” di
137 milioni di euro. Le possibilità di intascarsi soldi pubblici sono
molteplici.
Cerchiamo di
capire. Garanzia Giovani viene affidata alle Regioni che dovrebbero predisporre
dei piani attuativi specifici. I giovani che intendono usufruirne si rivolgono
ai Centri per l’Impiego (Cpi) provinciali dove ricevono “l’accoglienza” e un
primo “orientamento”. In questa fase i Cpi si incaricano di “profilare” i
soggetti, facendo conoscere il funzionamento di Garanzia Giovani e cercando di
conoscere i giovani, le loro competenze e aspirazioni. A questo punto viene
proposto un percorso di inserimento personalizzato con varie offerte del
programma: Formazione, Accompagnamento al lavoro, Tirocinio, Apprendistato,
Servizio Civile, Autoimprenditorialità, Bonus occupazionale alle imprese. Qui
iniziano i conti di chi ci guadagna e non sono i giovani disoccupati.
Al momento di
accettare il percorso, l’utente firma un “Patto di servizio” con il quale
entrano in gioco le società accreditate, gli enti di formazione o le agenzie
per il lavoro. Sono previste due misure:
1)
l’orientamento specialistico che viene condotto da un operatore del soggetto
accreditato e che per questo servizio ha un compenso di 35 euro l’ora. I
programmi sono di 4 o 8 ore a giovane con compensi, quindi, di 142 euro e 284
euro per ogni giovane che usufruisce del servizio di orientamento.
2)
l'accompagnamento al lavoro, qui la società è retribuita in due forme: ha un
rimborso elevato in caso di “raggiungimento del risultato”, cioè la stipula di
un contratto di lavoro ma, in subordine, ha comunque una “quota fissa” in caso
di mancato raggiungimento. Il rimborso è differenziato a seconda del tipo di
contratto e del profilo dell’utente. Nel caso di un tempo indeterminato
(praticamente quasi impossibile) o apprendistato si va da 1.500 a 3.000 euro a
utente (a seconda della difficoltà a collocare il soggetto interessato), nel
caso di tempo determinato, apprendistato o somministrazione di 12 mesi si va da
1.000 a 2.000 euro che scendono, rispettivamente, a 600 e 1.200 se il contratto
è tra i 6 e gli 11 mesi. La “quota fissa” invece, è stabilità al 10% delle
cifre sopra descritte facendone una media: si tratta di 130-160 euro a utente.
I numeri in
carne ed ossa: i giovani che si sono registrati a Garanzia Giovani sono stati
542.369, quelli presi in carico sono stati 279.653 e quelli a cui è stata
proposta almeno una misura 83.061.
Il percorso
formativo degli enti privati è finanziato con 280 milioni e prevede corsi tra
le 50 e le 200 ore, mentre la misura di accompagnamento al lavoro è finanziata
con 205 milioni. Poi c’è il bonus occupazionale finanziato con 190 milioni.
Alle aziende che si fanno carico del contratto di lavoro proposto, viene
riconosciuto un “bonus” consistente. A essere finanziati sono i contratti a
tempo determinato per 6-12 mesi, a tempo determinato superiore a 12 mesi e a
tempo indeterminato. In quest’ultimo caso, a seconda della difficoltà del
soggetto, si va da 1.500 a 6.000 euro a lavoratore, mentre per i tempi
determinati a 6 mesi si va da 1.500 a 2.000 euro e per quelli fino a 12 mesi da
3.000 a 4.000 euro. Si tratta di soldi che finiscono nelle casse delle imprese,
non al lavoratore, che possono essere cumulati con altri incentivi pubblici, ad
esempio quelli per il “contratto a tutele crescenti” previsto dal Jobs Act.
Gli altri
incentivi: Da 2 a 3mila euro per l’apprendistato di primo livello, fino a 6.000
euro per l’apprendistato di terzo livello. Infine, il tirocinio (minimo 300
euro) che viene erogato dalla Regione alle aziende che spesso utilizzano i
giovani a tempo pieno. Facendo il conto complessivo di come le Regioni hanno
stanziato i fondi loro assegnati, si scopre che le voci Accompagnamento al
lavoro (205) e Formazione (280) ammontano a 485 milioni di euro. Le voci
Tirocini (300), Bonus occupazionale (190) e apprendistato (63) per un totale di
553 milioni. Il resto viene destinato al Servizio civile, accoglienza,
autoimpiego, Mobilità professionale. La gran parte delle risorse economiche
date alle Imprese e alle Agenzie, non hanno nessuno controllo e nessuna
verifica se i progetti sono andati a buon fine per i giovani.
Proprio per
questo, sorge una domanda, cosa rimane ai giovani disoccupati? Una presa in
giro e l'ennesima delusione. La stragrande maggioranza dei ragazzi aspetta da
mesi di sapere quando verranno pagati. C’è perfino chi ha già terminato la
propria esperienza formativa senza percepire un euro, i più fortunati sono
riusciti ad ottenere in qualche caso solo la prima parte (due mesi) di
pagamenti. Mille euro lordi a bimestre che, nella maggior parte dei casi, i
tirocinanti sono stati costretti ad anticipare per fare fronte alle spese
quotidiane: la benzina, il vitto, l’abbonamento dei mezzi pubblici. La
giustificazione degli amministratori regionali è che “sono soldi comunitari e
la rendicontazione è una cosa complicatissima perché tutti i soldi dell’Unione
europea vanno monitorati e giustificati”. Oltre al danno anche la beffa, perché
la disorganizzazione, e il pressapochismo la fanno da padroni.
Riportiamo di
seguito le domande e le affermazioni più ricorrenti pubblicate sulla pagina
facebook dei ragazzi: “ho iniziato a marzo 2015 il tirocinio (Sicilia), ma
non ho ancora percepito un euro”; “sto svolgendo il mio periodo formativo in
una Casa Editrice da quattro mesi (Lazio), non ho visto nemmeno un euro e
nessuno mi sa dire quando li prenderò”; “ho iniziato il mio tirocinio a
febbraio 2015 presso uno studio di architetti (Lazio), concluso ad agosto,
ancora non sono stato pagato”; “qualcuno ha notizie sui rimborsi di garanzia
giovani in merito ai corsi? Ho chiamato il centro per l'impiego (Umbria),
l'INPS e nessuno lo sa!”; “partendo dal presupposto che se mi tassano pure il
rimborso ammazzo tutti, io ho iniziato lo stage (Liguria) il 1 aprile 2015 e ad
oggi, 4 agosto 2015, non ho ancora neanche visto l'ombra dei soldi. Va bene
fare esperienza (sfruttamento, ma comunque fa curriculum), va bene fare
gavetta, però essere presi così palesemente per il culo (scusate il
francesismo) proprio non mi va!! Sapete niente??”.
“Garanzia Giovani: un viaggio verso il futuro”, questo è lo
slogan della propaganda del Governo. Invece di costruire un percorso lavorativo
ai tanti giovani disoccupati, questo progetto ha seminato ulteriore sfiducia e
tanta rabbia, perché è sostanzialmente fallimentare per i nostri figli, i
nostri ragazzi, ma è una gallina dalle uova d'oro per le imprese e le agenzie
interinali. Una sola cosa è certa: l'occupazione dei nostri giovani non
aumenterà, almeno in Italia con “Garanzia Giovani”
Dovrà scontare sei anni di carcere e pagare
l’equivalente di trecentocinquanta euro, Josè Marcos Mavungo.La sua
colpa è di aver organizzato sei mesi fa una manifestazione di protesta contro
la spoliazione continua cui viene sottoposta la provincia di Cabinda in Angola
dalle multinazionali del petrolio.
Superfluo ricordare
che gli abitanti di quel territorio vivono in condizione di miseria e che i
proventi dell’abbondante petrolio che viene estratto in quell’area prendono
tutt’altra strada. Anche se l’intento dell’accusa era dimostrare che Mavungo
incitasse alla violenza, non sono state prodotte prove in questo senso durante
il processo.
La verità è che è
stato condannato per essere andato contro gli interessi dello Stato angolano e
delle multinazionali. Lo afferma anche Amnesty international definendolo “detenuto per
motivi di coscienza”.
Noi, che facciamo fatica persino a sapere dove
si trova quella provincia o persino quella nazione,non
troveremo una sola riga di informazione sulla vicenda sulla stampa nazionale. E non mi sembra propriamente questo il modo di “aiutarli
a casa loro” che in tanti predicano di questi tempi. Semmai continuiamo ad
assistere a questa migrazione all’incontrario. Il Mediterraneo viene navigato
verso Nord dai poveri e verso Sud dalle multinazionali in cerca di ricchezza
che di fatto impoverisce il Medioriente e l’Africa.
(*) pubblicato su «Mosaico di pace» e poi ripreso da «Comune-info» da
qui
L’Italia ha due buoni motivi per uscire dall’euro, un tema di cui si parla
ormai in tutta Europa (Germania compresa). Il primo è che, sovrapponendosi alle
debolezze strutturali della nostra economia, l’euro si è rivelato una camicia
di forza idonea solo a comprimere i salari, peggiorare le condizioni di lavoro,
tagliare la spesa per la protezione sociale, soffocare la ricerca, gli
investimenti e l’innovazione tecnologica e, alla fine, rendere impossibile
qualsiasi politica progressista.
Risultato: otto anni di recessione, che hanno provocato la perdita di quasi 300
miliardi di Pil al 2014 rispetto alle previsioni del 2007; 25% di produzione
industriale in meno, un mercato del lavoro di cui è difficile dire quale sia
l’aspetto peggiore fra tre milioni di disoccupati, tre-quattro di precari e due
o tre di occupati in nero. Grazie ai quali l’Italia detiene il primato
dell’economia sommersa tra i Paesi sviluppati, pari al 27% del Pil e circa 200
miliardi di redditi non dichiarati. I costi economici e sociali dell’euro
superano i vantaggi.
Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del debito
pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far fronte agli oneri
previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle clausole fondamentali
dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal compact prevede infatti che in
vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che si aggira oggi sul 138%,
dovrebbe scendere al 60, limite obbligatorio per far parte dell’eurozona. In
tale periodo detto rapporto dovrebbe quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9
l’anno. In termini assoluti si dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi
di oggi a 948/1580 nel 2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo
anno).
Vi sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite combinazioni
intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di oltre il 5% l’anno per
un ventennio, o il debito pubblico scende di oltre 3 punti percentuali l’anno.
Tenuto conto che le ipotesi più ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi
anni si collocano tra l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95
miliardi nel 2015 — continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le
ipotesi non sono concepibili.
In altre parole è impossibile che l’Italia riesca a rispettare il Fiscal
compact. L’Italia si ritrova così nella condizione degli Stati membri della Ue
che attendono di entrare nell’eurozona perché debbono soddisfare alcune
clausole previste dal trattato sull’Unione economica e monetaria. Come dire che
l’Italia è tecnicamente già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di
soddisfare a una delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil non
superiore al 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per recedere
dall’eurozona.
Non sono necessari sfracelli per arrivare a tanto. Basta far ricorso
all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, comprendente le modifiche
introdotte dal Trattato di Lisbona il 1° gennaio 2009. Esso stabilisce che
“ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme
costituzionali, di recedere dall’Unione (paragrafo 1)”. Il paragrafo 2 precisa
quali vie il procedimento di recesso deve seguire. Lo Stato che decide di
recedere notifica l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e
conclude un accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal
Consiglio a nome dell’Unione.
Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre alcune considerazioni: a) la
recessione avviene dopo un negoziato; b) il negoziato è condotto sotto l’autorità
del Consiglio europeo, organo politico; c) è dato presumere che quando uno
Stato notifica l’intenzione di recedere, determinate misure tecniche, tipo un
blocco temporaneo all’esportazione di capitali dallo Stato recedente, siano già
state predisposte in modo riservato.
Mentre l’art. 50 ha posto fine all’idea che la partecipazione all’Unione sia
per sempre irrevocabile per vie legali, qualche dubbio sussiste sulla
possibilità di recedere dalla Uem — la veste giuridica dell’euro — senza uscire
dalla Ue, poiché l’articolo in questione menziona soltanto questa. Peraltro la
letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio: poiché il trattato sulla
Uem è soltanto una parte della struttura giuridica della Ue — esistono Stati
membri della Ue ma non dell’eurozona — è arduo negare il principio per cui uno
Stato membro possa recedere dalla Uem ma non dalla Ue. Per cui il negoziato per
l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella
Ue. I costi per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola
uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi
ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di
restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi.
L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad
affrontare costi di entità paurosa.
Resta da chiedersi dove stia il governo capace di condurre un negoziato per la
recessione dell’Italia dall’eurozona in base all’art. 50 del Trattato sulla Ue.
L’attuale, come quasi tutti i precedenti, è un esecutore dei dettati di
Bruxelles, Francoforte, Berlino. Chiedergli di aprire un negoziato per uscire
dall’euro non ha senso. Si può coltivare una speranza. Che si arrivi a nuove
elezioni, dove ciò che significa recedere dall’euro in termini di ritorno della
politica a temi quali la piena occupazione, la politica industriale, la difesa
dello stato sociale, una società meno disuguale, sia al centro del programma
elettorale di qualche emergente formazione politica. Prima di cedere alla
disperazione, bisogna pur credere di poter fare qualcosa.