«Se questo Paese si perde anch’io mi perdo»:
un’intervista italiana – del 1967 ma impressionante a leggerla oggi- a James
Baldwin
«Dov’è che finisce un bianco, e dove comincia il negro?» si chiede James Baldwin, e aggiunge: «Se l’America si perde, mi perdo anch’io». Queste due frasi rappresentano i limiti del
dibattito appassionato in cui Baldwin mette a nudo il suo cuore. Mentre a New
York, nelle periferie e nei ghetti degli Stati Uniti volano i mattoni delle
sommosse estive, James Baldwin, ci parla di questa lunga tragedia che continua
a ripetersi. La rabbia di Newark, l’esasperazione di una popolazione negra
umiliata che comincia ad aver coscienza di se stessa trovano in questa
intervista una voce appassionata ma razionale. Ascoltiamola…
Com’è il pubblico dello scrittore negro americano?
è
difficile da definire; se per lo scrittore afro-americano esiste un certo
pubblico, il rapporto che si stabilisce non è tanto con lo scrittore, quanto in
funzione della ricerca di un’identità. L’utilità di uno scrittore
consiste precisamente nel contributo che egli fornisce agli altri per aiutarli
a trovare la loro identità. Il pubblico dello scrittore negro americano?
Qualche bianco che si sente colpevole e pieno di rimorsi, qualche società,
l’FBI, la CIA, e qualche individuo che conosce abbastanza la vita da capire
perchè gli altri scrivono. In ogni caso qualunque scrittore, quale che sia la
sua reputazione o il numero dei suoi libri, ha un pubblico molto ristretto. Non
si può parlare, in America, di analfabetismo nel senso stretto del termine, ma
di una specie di analfabetismo che l’America stessa ha inventato. Credo che nel
mondo esistano due tipi di analfabetismo, il primo è ben conosciuto: si tratta
del problema delle masse contadine che non sanno leggere né scrivere; questo è
l’analfabetismo reale, e per i paesi dov’esso si riscontra il problema più
importante è di sapere cosa leggerà il popolo, quando potrà
leggere. Ma il problema dell’analfabetismo degli americani è molto più grave;
si può insegnare a leggere al contadino turco, ma che cosa si può fare quando
ci si trova davanti a un uomo che per tutta la sua vita ha letto soltanto il
Reader’s Digest e Life Magazine? Si tratta di un analfabetismo ben diverso…
Quali sono le reazioni, le resistenze che ha
incontrato per i suoi libri, per i temi che lei ha affrontato?
Per
tanto tempo ho subito tante pressioni che mi è difficile parlarne. Non leggo
più la mia corrispondenza: lo fa mia sorella, che è anche la mia segretaria.
Ricevo lettere che minacciano: «Ti prenderemo». Mia madre ha dovuto cambiar
casa due volte, prima che io gliene comprassi una; ho dovuto far cancellare il
suo numero telefonico dall’elenco perché le telefonavano continuamente per
dirle quel che avrebbero fatto a suo figlio se gli avessero messo le mani
addosso…
Queste sono le minacce più brutali, al più
basso livello. Vi sono altri tipi di minacce… più sottili e subdole, ma non per
questo meno inquietanti.
Ricordo
sempre quel che m’è capitato ad un cocktail molto mondano, molto “liberal”,
cinque o sei anni fa. C’erano persone “celebri”, delle quali non voglio fare i
nomi. Non è per amarezza che dico quanto è difficile (e pochi se ne rendono
conto) essere uno scrittore negro. E’ difficile essere un negro famoso perchè
si entra a far parte di un gruppo che vi considera come una minaccia per i suoi
interessi. Da una parte, c’è gente che guadagna molto danaro con il vostro
lavoro, dall’altra però questa gente sa che se dovesse applicare in concreto
quel che si scrive, i loro “affari” andrebbero alla malora. Dunque, io ero
stato invitato a quel cocktail nella mia qualità di “scrittore negro”.
Quello stesso giorno avevo avuto un incidente con un conducente di tassì che
aveva insultato i miei fratelli. Ero perciò arrivato al cocktail piuttosto
arrabbiato e non mi sentivo per niente disposto a farmi appiccicare l’etichetta
di “scrittore negro”, con tutto quel che significa negli USA una definizione
del genere. Un’ora o due dopo, qualcuno fece un’osservazione; non ricordo più
cosa disse, e non ricordo che cosa gli risposi. Comunque, mi ricordo che gli
parlai con astio, vendicandomi su di lui per l’insulto che il tassista aveva
fatto ai miei fratelli; e le mie parole risentivano di questo fatto, io ne
avevo fatto una questione personale. In ogni modo non seppi esprimermi
diversamente. Allora il mio interlocutore mi fece osservare: «Perché te la
prendi, Jimmy? Tanto tu sei arrivato». Gli ho voltato le spalle. Ecco un
esempio delle resistenze di cui ho parlato. «Arrivato». Ma a che cosa, santo
Dio?
In che modo lei ha trasposto nella sua opera di romanziere
queste reazioni e queste resistenze?
In Gridalo forte (la
mia prima opera pubblicata; il titolo originale era Go tell it on the mountain) ho cercato di affrontare le cose che mi ferivano di più. A quello
stadio della mia vita ero alle prese con l’immagine di mio padre, l’immagine
ambivalente di tutti i padri modellati dall’eredità storica
afro-americana. Volevo bene a mio padre – e l’odiavo. Mio padre mi voleva bene
– e mi odiava. Per me era il simbolo dell’ostacolo che dovevo imparare ad
affrontare prima di poter fare qualcos’altro. Non sono mai stato contento di
questo libro, come del resto neppure degli altri libri che ho scritto. Ma quel
libro mi ha permesso di scoprirmi; ero in uno stato di rabbia furiosa e,
costasse quel che costasse, dovevo trovare il modo di esprimermi e quindi di
liberarmi. Era come se avessi avuto in mano una bomba che poteva farmi saltare
in aria da un momento all’altro se avessi imparato a servirmene. Quindi dovevo
mettermi a scrivere. Siccome bollivo, dovevo costringermi a esser freddo.
Dovevo sforzarmi a comporre una frase, ad esprimere quello che si agitava
dentro di me, che mi veniva dai miei antenati…
Avevo
già scritto vari saggi. La mia prima raccolta di saggi è stata pubblicata
nell’intervallo fra il primo e il secondo romanzo. Dovevo però risolvere un
altro problema, il più intimo. I miei rapporti con me stesso, con i miei
fratelli, le mie sorelle, i miei rapporti con gli uomini e le donne, il sesso,
che rimane un problema fintanto che ci si rifiuta di affrontarlo. Perché è
difficile esser allo stesso tempo bianco e negro, maschio e femmina, in un
senso che va oltre la biologia. Nel senso in cui l’artista è maschio come è
femmina. E’ una cosa di cui si deve tener conto, ma nel contesto culturale che
mi definisce, praticamente mi è impossibile assumere questa realtà . Perciò ho
scritto La stanza di Giovanni. Dovevo affrontare il tema dell’omosessualità. Io non
considero La stanza di Giovanni come un vero e proprio romanzo; ma è il mio preferito perché è
stato il più difficile e il più pericoloso da fare, per quel che mi riguarda.
Tutti mi dicevano: «Guarda che comprometti la tua carriera. Sei uno scrittore e
hai bisogno di un certo tipo di pubblico, non devi alienartelo. Non pubblicando
questo libro, noi ti facciamo un favore». Infatti in un primo tempo avevano
rifiutato di pubblicarmelo, ho dovuto costringerli. La verità è che La stanza di Giovanni mi ha messo in crisi: per di più lo stesso anno tornai in
America e per la prima volta andai nel Sud degli Stati Uniti. Tutto questo
spiega che a quell’epoca ero un tipo tormentato, tormentato a causa della
carriera e a causa di me stesso: allora deliberatamente feci cadere la
finzione, e scrissi un’autobiografia intitolata Nessuno sa il mio nome; nello stesso tempo lavoravo per il teatro con Elia Kazan. Nessuno sa
il mio nome è stato un’altra pietra miliare della mia vita: fino a un certo
punto questo libro ha contribuito a combattere il clima morale che allora
regnava nel paese.
Mi
aspetto tante conseguenze, sul piano sociale, dall’atto di scrivere! Non si
scrive per esibirsi; si scrive perchè si deve, perchè bisogna registrare e
tradurre quel che si vede. Così ho terminato Un altro paese (in Italia: Un altro mondo), che mi ha gettato su un’altra isola deserta… Diventai allora quel
che si chiama un uomo celebre, una personalità in vista, con tutto quel
che segue. Ma non ero più molto giovane; leggendo le biografie degli scrittori
americani constatai che quasi tutti son morti intorno ai quarant’anni. Mi
chiesi allora che cosa sarei diventato, perchè allora avevo eccellenti ragioni
per partecipare più risolutamente che mai alla lotta per i diritti civili,
inquadrato com’ero nell’obbiettivo dell’attualità . C’era una ragione molto
semplice: con mia grande meraviglia avevo scoperto che si potevano raccogliere
fondi servendosi del mio nome. Se il vostro nome può servire al successo di una
colletta o a far liberare dei bambini prigionieri, voi non avete più il diritto
di dire no, vero?
Mi
misi a scrivere Blues per Mr. Charlie, cosa che mi salvò: infatti provocò un grandissimo
scandalo. Perfino quella comunità liberale che si vantava di avermi
nutrito e “lanciato" mi voltò le spalle. Fu quella la cosa migliore che
potesse capitarmi. Poi fui ricoverato in ospedale. E anche così si può
ammazzare un uomo; naturalmente parlavano di super-affaticamento, di stanchezza
mentale…
L’eroe
di Blues è
l’assassino bianco, il mio assassino. Volevo dimostrare che il mio
atteggiamento nei confronti del governatore Wallace, di Lurleen Wallace, di Jim
Clark, di Hoover o di Reagan non è indotto dai dati sociali che mi determinano.
Queste persone non credono di essere degli oppressori o dei criminali. Come me
essi sono soltanto il prodotto di una situazione storica! L’uomo che ha ucciso
Emmett Till è una vittima della Storia come il ragazzo che ha ucciso. E’
facile dire che Jim Clark è uno psicopatico: in effetti lui lavora per
conservare la società americana. La vecchia immagine del caposquadra
della piantagione e il governatore Wallace sono la stessa cosa: tutti e due
sono degli assassini, allo stesso modo.
La nostra responsabilità? E’ di prender
coscienza del fatto che questi crimini vengono commessi a nostro nome. Voi
siete colpevoli, e noi pure siamo colpevoli, bianchi e neri insieme. La
divisione tra bianchi e negri non significa niente.
Come interpreta lei
l’evoluzione di Martin Luther King e le sue dichiarazioni circa la sua presa di
posizione nei confronti della guerra vietnamita?
Ho visto giovani incolleriti, disperati,
diseredati. Ho detto loro che le bottiglie Molotov e i fucili non avrebbero
risolto i loro problemi, perchè ero convinto che il mutamento sociale si
sarebbe verificato solo attraverso la non-violenza. Ma loro mi hanno chiesto, e
avevano ragione: e il Vietnam? Mi chiedevano se la società stessa non
impiegava massicce dosi di violenza per risolvere i suoi problemi e promuovere
i mutamenti che desiderava.
Le
loro domande mi hanno sconvolto, e so che non potrò mai più levar la voce
contro la violenza degli oppressi del ghetto senza prima rivolgermi
esplicitamente a quello che è il più grande istigatore alla violenza che ci sia
al mondo…
Lei che cosa ne pensa?
Io
non posso spiegare questo cambiamento. Il meglio che posso fare è di avvalermi
della mia stessa esperienza. Martin è mio amico, io lo ammiro e lo rispetto
malgrado le tante divergenze che ci sono fra noi. C’è stata un’epoca abbastanza
recente in cui la gente al potere – voglio proprio parlare del governo
americano (non tagli quel che sto per dire), del Pentagono, di tutti quei
generali senescenti, di McNamara, di quegli uomini d’affari e dei milionari, di
tutti quei bianchi incolti – un’epoca in cui speravano di servirsi di persone
come Martin Luther King o me per controllare gli altri negri. Ma oggi questo
non è più possibile. Comprare la gente non serve a niente.
Un
esempio: quando Martin Luther King è andato a Chicago dopo la Marcia su
Washington (si deve ricordare che su scala nazionale la prima reazione a questa
marcia è stato l’attentato contro una chiesa di Birmingham, in cui morirono
quattro bambine negre) un tizio gli ha detto: «Voi avete bisogno di fucili, non
di sogni». Ed è vero. E scriva anche questo: la popolazione negra d’America,
che fino ad ora è stata soltanto manodopera a buon mercato, è diventata
oggi un’eccedenza economica: non si sa più cosa farne né come assorbirla.
Essendo il nostro popolo quello che è, l’amministrazione – essendo quello che è
– preferisce sterminarlo. Questa – e nessuno può dimostrare il contrario
– è la storia del negro americano. E’ questo quel che si vuol dire
quando si parla di un “cattivo negro”. Tutti i “cattivi negri” che si
facevano prendere erano ammazzati. Ora una massa di “cattivi negri” viene
arrestata, e nessuno può far nulla, si tratti di Martin Luther King o di
chiunque altro. E’ lo sviluppo degli avvenimenti. Anche prima della Marcia su
Washington, erano venuti a trovarmi dei politicanti… erano venuti da me, che
non son mai stato quel che si dice un capo del movimento per i diritti civili,
per chiedermi di bloccare la faccenda. Ho risposto: «Se potessi lo farei, ma la
questione non è di volere, è di potere. Come voi, anch’io sono impotente».
Che cosa pensa del titolo del prossimo libro
di Martin Luther King “Dove andiamo? Verso la comunità o verso il caos?”
Questa
è l’unica domanda che valga la pena di porre… Le persone che ho nominato, le ho
nominate deliberatamente. Lyndon Johnson ha tutto il diritto di essere quel che
è. Siamo noi che non abbiamo alcun diritto di mettere tanto potere in mani di
quel genere. Non è lui che bisogna biasimare, né Reagan, né Lurleen Wallace, né
Maddox. Il responsabile è il popolo americano, i responsabili siamo noi.
E che cosa ne dice del movimento del Potere
nero?
“Black power” significa semplicemente una cosa che il resto del mondo
non ha mai potuto concretizzare, pur vantandosi di farlo. Significa
l’autodeterminazione dei popoli, né più né meno. E questo ci porta diritti al
problema della riorganizzazione delle forze presenti nel mondo. Io sono
incapace di condannare quelli che non possono far fronte a questa realtà.
Eppure la realtà esiste: l’Africa del Sud esiste ancora per eccellenti
ragioni, non perché i sudafricani siano malvagi, ma perchè non avevano i mezzi
per vivere in Europa dopo la rivoluzione industriale. E’ questo il significato
del fatto coloniale. Quelli che possedevano le macchine andavano a cercare
quelli che non le possedevano, e li sfruttavano. Parigi, Londra… tutte le
capitali occidentali sono state costruite con questo sudore. Lo ha detto
Winston Churchill, e lo ha detto Eisenhower…
Il problema dell’autodeterminazione, come lo definisce
lei, non si pone forse in termini più drammatici per la comunità negra
d’America?
Non
c’è una comunità negra d’America. C’è una cosiddetta comunità
negra, ma non si può usare il termine “negro” per definire qualcuno. La
realtà prima della vita americana è che nessuno sa a che punto finisca in
lui il negro e cominci il bianco.
Ma il razzismo crea un muro?
Non
è solo una questione di razzismo. C’è molto di più. La psicosi è questa: per
esempio, io so che questa bambina negra seduta davanti a me è mia sorella o mia
figlia – e, reciprocamente, lei sa che io sono suo fratello, o suo padre, o suo
cugino – e malgrado questa consapevolezza, la relazione che c’è tra noi è
quella che c’è tra padrone e schiavo; malgrado questa consapevolezza, noi ci
linciamo l’un l’altro. E’ la storia di Faulkner, è la storia di Richard
Wright.
Qual è la situazione oggi? Ci sono nuove prospettive,
malgrado le sommosse e le morti inevitabili?
Il
tempo ha dato ad alcuni- forse però non a un’intera generazione – la tardiva
certezza che essi sono uomini… Sì, parliamo della giovane generazione. Stokely
Carmichael ha preso alla sprovvista i bianchi. Quanto a me, non può certo
sorprendermi. Il conflitto si riassume come segue: esaminate una qualsiasi
nazione, e scoprirete che si tratta di una struttura arbitraria creata da un
processo storico.
Così
la Francia: una nazione che comprende la Bretagna e Marsiglia e Nizza,
acquistata così tardi, e deriva semplicemente dai conflitti fra regni feudali,
né più né meno. Così è tutta la storia d’Europa. La nazione più arbitraria di
tutte è stata quella di Bismarck: creata con un fiat lux, per decreto. E
non parliamo della nazione americana. Poi, questi pretesi insiemi hanno
contaminato il mondo intero con questo concetto. Così per la giovane
generazione, il problema non si pone in termini di bianchi e negri.
Che cosa ne pensa della definizione data da
Max Roach per il potere negro nell'arte: «La cultura negra ha invaso la
società bianca entrando dalla porta di servizio. I cantanti della
“generazione beat” cantano negro senza saperlo»?
E
come! e l’orrore massimo è che lo fanno senza rendersi conto. Non lo sanno. C’è
un tizio che si guadagna la vita – e che vita – semplicemente imitando Bessie
Smith. E l’orrore di questa mascherata non è tanto la ben nota atrocità
della sua morte, ma il fatto che si sfrutta freddamente una cosa che è stata
creata con l’anima. Se quel tizio prendesse coscienza della truffa che
commette, si ammazzerebbe. Tutta la repubblica americana si fonda su menzogne
di questo genere. Ciò dimostra a tutto il mondo che non ci sono mai stati
assassini, permette loro di aver la coscienza tranquilla e di dormire la notte.
Ma se – come Malcolm X – si fa semplicemente notare che non c’era niente di
bello nel lavoro di piantagione, e che la raccolta del cotone non si faceva per
amore ma per vantaggio, che il negro cantava sì canzoni allegre, ma sotto la
frusta… insomma se fate osservare tutto questo, voi colpite duramente la loro
tranquillità , la loro comodità , il loro sonno.
Gli americani non possono affrontare le loro
menzogne, ed è questa l’accusa più severa che si può rivolgere a un popolo. Noi
siamo loro fratelli, loro sorelle, figli e figlie rinnegati; e, ancor peggio,
siamo loro fratelli, sorelle, figli e figlie massacrati… e loro non hanno il
coraggio di riconoscerlo.
Abbey Lincoln parlava delle stesse cose quando parlava delle donne
negre alle quali davano bambini bianchi da allattare …
Quei
bambini bianchi che bevevano il latte di quelle donne negre sono cresciuti. E
hanno linciato e violentato i figli negri delle loro nutrici negre. Ecco
l’ironia. Se rifiuteranno di riconoscerlo periranno, sono dei condannati in
potenza. Essendo io quel che sono, anch’io sono condannato. Ma almeno io ho il
vantaggio di saperlo.
Lei negro crede veramente d’essere un
condannato?
Io sono un americano; non
andrei a Pechino, non andrei a Mosca. Non vi è una seconda nascita. Potrei
andare in questi posti, temporaneamente, per lavorare o insegnare. Ma resto
americano. Non abbandonerei l’America… non potrei concepire il ripudio, né
l’abdicazione. Perchè l’America non è ancora fatta, ed anch’io voglio farla.
Perchè il padre del padre di mio padre ha vissuto qui e qui è morto. Questo
paese mi appartiene e io gli appartengo. E io non cercherò di uscirne. E se
questo paese si perde anch’io mi perdo. Almeno questa è una cosa della quale io
sono persuaso.
(*) ripresa da «www.pabuda.net» dove è presentata così: «da L’Astrolabio, numero
30, anno V, 23/7/1967, pagg. 31-34; sulla rivista non è indicato il nome
dell’autore dell’intervista; in compenso, posso aggiungere che il direttore,
all’epoca, era Ferruccio Parri».
da qui