mercoledì 8 maggio 2019

Ho fotografato il conflitto siriano dall’inizio alla fine - Bulent Kilic



Chi avrebbe mai detto che sarebbe finita così? Me lo chiedo mentre osservo centinaia di presunti jihadisti catturati e seduti in fila nel deserto. Tutto era cominciato otto anni prima, con una protesta contro il regime siriano. All’epoca nessuno parlava di jihadisti. Ora invece c’è un intero paese distrutto. Più di 370mila morti. Tredici milioni di profughi, oltre metà della popolazione. Il tutto racchiuso nell’ascesa e nella caduta di Daesh, il gruppo Stato islamico (Is) generato dal vortice di violenza che ha inghiottito quella prima rivolta pacifica.
L’Is si è allargato a macchia d’olio in tutta la regione conquistando ampie aree della Siria e del vicino Iraq e annunciando la nascita di un “califfato” che ha immediatamente cominciato a reclutare uomini ai quattro angoli del mondo. All’apice della sua forza, l’organizzazione controllava un territorio grande quanto il Regno Unito e governava su milioni di persone.
Ora gli ultimi jihadisti sono davanti a me, seduti in fila nel deserto, accanto a un accampamento che ospita migliaia di donne – le loro mogli vestite di nero – e bambini, oltre ai civili rimasti intrappolati nella cittadina di Baghouz, ultimo bastione degli estremisti.
Mentre osservo “la fine”, molti pensieri si accavallano nella mia mente. Quando ho cominciato a frequentare la Siria per occuparmi della rivolta, questa aveva appena un anno di vita. Posso dire di aver vissuto questa storia quasi dall’inizio.
Ho cominciato a seguire le proteste nel febbraio del 2012, a Idlib. Era la mia prima esperienza in uno scenario di guerra. Le manifestazioni pacifiche, partite a Damasco un anno prima, erano state soffocate nel sangue dalle forze di sicurezza, una repressione che avrebbe portato alla nascita dell’Esercito siriano libero e della sua battaglia contro il regime. In tutto il paese i ribelli organizzavano attacchi di guerriglia. Spesso gli agenti al servizio del regime disertavano per unirsi a loro.
Quando sono arrivato a Idlib, alcune aree della provincia e buona parte della città erano controllate dall’opposizione. I cecchini del governo sparavano in continuazione, ma ancora non c’erano state operazioni militari su vasta scala. Un giorno ho assistito a una manifestazione, nata come nascono quasi tutte: la gente si è riunita nel centro cittadino, sventolando grandi bandiere dell’Egitto e della Libia, paesi che avevano vissuto importanti rivoluzioni durante la primavera araba. La folla cantava e scandiva slogan. Poi, all’improvviso, “snap, snap, snap”, il rumore dei colpi dei cecchini. Le persone nel panico. Poi i bombardamenti. Le persone in fuga.
Era la prima volta che vivevo un’esperienza simile, una manifestazione pacifica che subiva un attacco violentissimo. Ero terrorizzato. La gente scappava ovunque. Anche io correvo, senza sapere dove andare. Ho seguito gli altri. Piovevano bombe dal cielo e ho trovato riparo insieme ad alcuni civili. Davanti a me ho visto un ragazzo stramazzare al suolo. Qualcuno mi ha detto che aveva quindici anni e mi sono chiesto come fosse possibile, come potessero attaccare i loro compatrioti. Il bombardamento intenso sollevava una fitta coltre di fumo. Sembrava che sulla città fosse calata una coperta nera.
Nei mesi successivi sono entrato e uscito spesso dalla Siria. Non mi sono mai sentito minacciato dai combattenti ribelli. Erano molto gentili con i giornalisti. Quelli che ho incontrato erano quasi tutti laici. “Combattiamo per la libertà”, dicevano. Poi nei ranghi dell’opposizione hanno cominciato a spuntare i jihadisti, ma all’inizio erano tranquilli. Nell’agosto del 2012 mi sono trovato in uno dei campi jihadisti e non ho avuto problemi. Ci hanno permesso di scattare foto e non avevano un atteggiamento minaccioso.

Ma le cose sono cambiate presto. Ho cominciato a vedere stranieri nei villaggi. Alcuni parlavano inglese, altri francese. Avevo la netta sensazione che la situazione stesse cambiando. Una mattina ho visto un gruppo che marciava imbracciando i fucili. È un’immagine che mi si è scolpita in mente. Si stanno preparando, ho pensato.
Poco dopo mi hanno comunicato che non avrei più potuto entrare in Siria perché stava diventando troppo pericoloso per un giornalista. È successo poco prima che cominciassero a rapire i reporter. Uno di loro era James Foley, un amico che avevo conosciuto pochi mesi prima al confine. Non potevo credere che l’avessero sequestrato. Era novembre. In seguito ho scoperto che era stato prelevato da una banda locale e poi finito nelle mani di Daesh (l’organizzazione è conosciuta con diversi nomi, tra cui Isil, Isis, gruppo Stato islamico e Is, ma a me è rimasto impresso l’acronimo arabo, Daesh).
Poche settimane dopo, un mio amico turco, Bünyamin Aygün, mi ha detto che sarebbe andato in Siria per un ultimo articolo. “Sei pazzo,” gli ho risposto. “È troppo pericoloso, rapiscono la gente”. L’ho implorato di non andare, ma mi ha promesso che sarebbe stato attento. “Un ultimo articolo, poi basta”, mi ha detto. È stato rapito quasi subito. All’inizio di gennaio i servizi segreti turchi lo hanno riportato a casa, dopo quaranta giorni di prigionia. In quel momento si pensava che i giornalisti rapiti in Siria fossero una trentina. Nei mesi successivi alcuni sono stati rilasciati. Poi è arrivato il 19 agosto 2014.
Ricordo che mi sono svegliato nel cuore della notte e ho controllato qualcosa online, non ricordo cosa. Poi ho letto una notizia che mi ha paralizzato dalla paura: Daesh aveva pubblicato un video con la decapitazione di James Foley. Immediatamente ho pensato che avrei potuto esserci io, al suo posto. Tempo dopo ho scoperto che quel pensiero aveva attraversato la mente di tutti i giornalisti che erano stati in Siria. Non ho mai avuto il coraggio di guardare quel video. Voglio ricordare James per com’era in vita.
In quel momento ho pensato che sarebbero passati anni prima di poter tornare in Siria. Ho ricordato tutte le persone che avevo incontrato nel 2012. Dicevano che alcune aree del paese controllate dall’opposizione si stavano rapidamente riempiendo di estremisti, trasformandosi in un mondo simile a quello di Mad Max. Erano sicuri che presto i jihadisti avrebbero preso il controllo della situazione. Non gli avevo creduto.
Avevano ragione. Mi sono ricordato un uomo che avevo conosciuto ad Aleppo nell’agosto del 2012. I bombardamenti delle forze governative proseguivano senza sosta e noi dormivamo nello scantinato di una moschea insieme ad alcuni combattenti e soccorritori. C’era anche un jihadista, particolarmente sgradevole. Si sedeva vicino al condizionatore e leggeva il Corano. Aveva dormito accanto a me per due notti, spingendomi continuamente e pretendendo di avere la mia coperta. Era un iracheno arrivato dall’Olanda. Gli avevo scattato una foto. Poi l’avevo rivisto spesso nelle immagini più cruente che riguardavano Daesh: nella più famosa, appare davanti ad alcune teste mozzate e impalate.
Si chiamava Khaled Khudarhim ed era diventato il principale boia del gruppo. A un certo punto ha chiamato un mio amico per lamentarsi della foto che gli avevo scattato nel 2012, perché aveva permesso alle autorità olandesi di identificarlo e per questo non poteva più tornare in Olanda. Pare che sia stato ucciso nel 2016, ma per quanto ne so la notizia non è mai stata confermata.
Da quel momento gran parte del mio lavoro ha riguardato i profughi in fuga dalla Siria. Il conflitto ha provocato uno dei più colossali spostamenti di persone dai tempi della seconda guerra mondiale. Secondo l’agenzia Onu per i rifugiati circa 6,2 milioni di siriani sono attualmente sfollati all’interno del paese, altri 5,6 milioni sono sparsi nei paesi della regione.
Ho fotografato la crisi dei profughi fin dall’inizio, a fasi alterne. Ho scattato foto che li ritraggono mentre si passano i bambini attraverso piccoli squarci nelle recinzioni al confine con la Turchia, durante i combattimenti tra le forze curde e l’Is nelle città di frontiera.
Li ho immortalati mentre si ammassavano al confine in fuga dall’offensiva del governo siriano (sostenuto dai russi) contro Aleppo. Li ho ritrovati, sempre più disperati, nei campi profughi dell’isola greca di Lesbo, dopo terrificanti viaggi in mare. Ne ho addirittura fotografati alcuni che tornavano in Siria dopo la liberazione dei loro villaggi di frontiera dal controllo dei jihadisti.
Negli anni dell’esodo dalla Siria ho catturato con la mia macchina fotografica le emozioni umane – paura, disperazione, speranza, rassegnazione, sfinimento, terrore –, ma probabilmente l’immagine che più mi è rimasta impressa è l’arrivo dei profughi a Lesbo. Molti di loro non avevano mai visto il mare prima di viaggiare per un’infinità di chilometri a bordo di piccole imbarcazioni. I loro volti, quando mettevano piede sulla terra ferma, sembravano quelli di persone rinate. Molti erano anziani, un altro aspetto che mi ha sconvolto. Immaginate di avere settanta o ottant’anni e di dover fuggire dalla vostra casa e arrivare in un paese straniero di cui non conoscete la lingua né nient’altro. Immaginate cosa significhi vivere una situazione simile.
Dopo tutti gli anni passati a occuparmi della guerra in Siria volevo assolutamente assistere alla “fine”. È arrivata nei mesi di febbraio e marzo di quest’anno, nel polveroso villaggio di Baghouz, sulle rive dell’Eufrate, nei pressi del confine iracheno. Le Forze democratiche siriane, guidate dai curdi e sostenute dagli Stati Uniti, avevano costruito un campo appena fuori da Baghouz per ospitare le donne e i bambini di Daesh, oltre ai civili. Prima di entrare nel campo le persone dovevano passare da un centro di identificazione, a 10-15 chilometri di distanza.
Per giorni noi dell’Agence France-Press (Afp) abbiamo chiesto alle Forze democratiche siriane di entrare nel campo per documentare cosa stava accadendo. Alla fine hanno accettato. È stata un’esperienza surreale.
Mentre osservavo le file di prigionieri seduti davanti a me, ho pensato a tutto quello che Daesh, a cui erano accusati di appartenere, aveva fatto nel corso degli anni. Questi combattenti erano tra gli assassini più efferati del mondo. Avevano ucciso un numero impressionante di persone. Giornalisti, civili. Avevano stuprato e torturato. Avevano mozzato teste. Avevano compiuto azioni orrende. Le immagini degli attentati ad Ankara e Istanbul continuavano a tornarmi alla mente.
Ora erano inginocchiati davanti a me, a centinaia. Mi sono chiesto quanti di loro mi avrebbero ucciso se mi avessero incontrato in un’altra situazione. Quanti mi avrebbero torturato. La risposta era negli sguardi che mi rivolgevano: molti.
Ma era pur vero che si erano arresi, dunque avevano gli stessi diritti di tutti gli altri esseri umani. Alcuni giornalisti li stavano intervistando. I prigionieri non volevano parlare, ma i giornalisti continuavano a insistere. Ho pensato che fosse sbagliato. Se un uomo non vuole parlare non puoi costringerlo. È comunque un uomo. Ho rivolto le mie domande a molti prigionieri, ma non volevano rispondere. Così li ho lasciati in pace.
Osservando alcuni di loro si percepiva il collasso del califfato. Altri, invece, trasmettevano sensazioni completamente diverse. Migliaia di donne vestite di nero. Un esercito nero.
Molte condividevano pienamente le azioni dei jihadisti. Erano orgogliose del califfato. Capitava che una di loro accettasse di parlare con me e un’altra le chiedesse immediatamente perché stava parlando con il nemico.
Lo stesso valeva per i combattenti. Erano fieri delle loro azioni. Non ero sicuro che credessero di aver perso. Magari si stavano preparando per qualcos’altro. C’era un tizio biondo che non voleva parlare ma continuava a sorridere. Gli ho chiesto perché sorridesse. Non ha voluto rispondere. Ha continuato a sorridere. Forse sorrideva perché era ancora vivo, non so.
Ho visto anche un gruppo di bambini. Erano in dodici, tra gli otto e i quattordici anni. Mi si è spezzato il cuore. Cosa avevano fatto a quei bambini? Li avevano costretti a combattere, a uccidere? Una volta tornati a casa che realtà troveranno? Doveva essere un’esperienza terribile.
Le immagini dei combattenti di Daesh seduti nel deserto non mi hanno abbandonato nemmeno dopo il mio ritorno in Turchia. Ho controllato gli archivi e sono rimasto sbalordito dalla somiglianza tra le foto che avevo scattato e quelle dei soldati tedeschi che si sono arresi alla fine della seconda guerra mondiale. Erano le stesse foto.
L’estremismo è come una catastrofe naturale. Quando comincia non si può fermare. In Siria ho assistito alla sua nascita e alla sua evoluzione. L’estremismo può accadere ovunque. I combattenti stranieri erano particolarmente interessanti, per me. Ho visto un francese, un azero, un russo, ho incontrato persone provenienti dai paesi più diversi. E devo ammettere che ancora non capisco perché lo abbiano fatto. Non riesco a capire questo tipo di mentalità. Come fa un francese istruito a unirsi ai jihadisti? È così strano, non so cosa pensare.

A dirla tutta non sono nemmeno sicuro che questa sia davvero la fine. Da quello che ho visto, il sistema è ancora vivo. I jihadisti sono ancora organizzati e aspetteranno un’occasione per tornare. Queste persone hanno compiuto azioni terribili in tutto il mondo. Non soltanto in Siria, ma anche a Kobane, ad Ankara, a Istanbul, a Parigi. Lo pensavo mentre li osservavo: hanno fatto cose agghiaccianti, in Medio Oriente ma anche in Europa.
Di sicuro cercheranno di trovare un modo per risorgere. Se la gente li sosterrà è probabile che ci riescano. C’è una cosa che ho imparato dal conflitto siriano: non ci si può fare un parere su due piedi. Le cose cambiano. Le idee cambiano. Non possiamo mai essere certi che le cose andranno per il verso giusto. Otto anni fa nessuno avrebbe immaginato questo epilogo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse. Nel blog giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.

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