domenica 19 maggio 2019

Indonesia, la strage dimenticata - Geoffrey B. Robinson, Nicola Tanno



Tra il '65 e il '66 in Indonesia si consumò una delle peggiori stragi del XX secolo. L’esercito di Suharto assassinò mezzo milione di militanti del Partito Comunista. Le conseguenze furono enormi ma di quel massacro in Europa ben poco si conosce

Tra la fine del 1965 e il 1966 in Indonesia si consumò una delle peggiori stragi del Ventesimo secolo. Nel giro di pochi mesi l’esercito guidato da Suharto assassinò più di mezzo milione di militanti e simpatizzanti del Partito Comunista Indonesiano, il più grande partito comunista al mondo al di fuori degli Stati socialisti. Altri milioni di attivisti vennero arrestati e trascorsero decine d’anni in prigione. Le conseguenze per il terzo paese più popoloso del mondo e per il proseguo della Guerra Fredda furono enormi ma di quell’immenso massacro in Italia ben poco si conosce. Basta dare uno sguardo alla pagina Wikipedia sull’argomento, composta da un solo capoverso, o al fatto che vi sia una sola monografia pubblicata in italiano, ormai quasi irreperibile, scritta da Ennio Polito quasi vent’anni fa.
Nel 2018 Geoffrey B. Robinson, professore di Storia alla Ucla specializzato nella violazione dei diritti umani nel Sud-Est Asiatico, ha pubblicato The Killing Season. A History of yhe Indonesian Massacres 1965-66, un’opera fondamentale che fa luce sugli aspetti preparatori, sulla realizzazione, sulle conseguenze e sulle responsabilità di una delle pagine peggiori e meno note della Guerra Fredda. L’autore ha risposto ad alcune domande di Jacobin Italia.
Dopo più di cinquant’anni, i massacri del 1965-66 in Indonesia ancora sono quasi del tutto sconosciuti in Europa. Anche tra attivisti di sinistra e per i diritti umani, mentre le stragi commesse in Cile, Argentina e Cambogia sono generalmente note, vi è una generale inconsapevolezza di ciò che accadde in Indonesia. Tu stesso spieghi come i mezzi di comunicazione occidentali dedicarono ben poche attenzioni al massacro anche quando si stava compiendo. Che spiegazione ne dai? 
Io credo che una spiegazione sta nel fatto che le vittime fossero militanti e simpatizzanti del Partito Comunista. Nel pieno della Guerra Fredda, negli Usa, Australia, Giappone e anche in Europa vi era una generale mancanza di simpatia e empatia verso i comunisti e quindi la loro morte non solo non era vista come una tragedia, ma forse addirittura come un fatto positivo. Pensa che il 1965 è anche l’anno in cui cominciò da parte degli Usa l’escalation militare nel Vietnam e quindi l’unico obiettivo era fermare, ad ogni costo, il comunismo.
Il secondo fattore, che lo differenzia dai casi da te citati, è che a metà degli anni Settanta si era sviluppata una forte rete transnazionale in difesa dei diritti umani, indifferente a questioni ideologiche e a chi fosse la vittima di abusi. Nel 1965 questa rete era ai primordi, non aveva le risorse e la credibilità per farsi sentire.
Infine c’è il fatto che la gran parte della sinistra europea, invece di denunciare e investigare i fatti, scelse di criticare il Pki per via della sua tattica sbagliata. Il Pki si stava attestando su posizioni filo-cinesi e in qualche modo il messaggio delle sinistre europee fu che la sua distruzione era stata una conseguenza di tale scelta. 
Dopo le elezioni parlamentari del 1955, nelle quali il Pki ottenne un risultato positivo e inaspettato, l’Indonesia entrò nella fase della Democrazia Guidata, nella quale il nazionalista Sukarno divenne Presidente a vita, le elezioni parlamentari vennero sospese e dove elementi antagonisti (comunisti, gruppi religiosi e esercito) furono costretti a cooperare. Per quale motivo il Pki fu spinto ad accettare la strategia di Sukarno? E qual era invece la sua durante la Democrazia Guidata?
Nel 1949 il Pki subì una prima pesante purga (il cosiddetto Incidente di Madiun) e in tale situazione migliaia di quadri vennero uccisi dall’esercito. All’inizio degli anni Cinquanta il partito era piuttosto debole e la giovane leadership ideò una strategia nuova, tutta parlamentare e che rinunciava a qualsiasi connotazione militare. Fino al 1965 funzionò: il Pki ottenne risultati molto buoni alle elezioni politiche del 1955 e ancor di più a quelle locali del 1957 e 1958. Soprattutto fu il più grande partito comunista non al governo al mondo, con 3 milioni di iscritti e 20 milioni di sostenitori in strutture parallele e con enormi capacità di mobilitazione. Tuttavia, la sua popolarità fu legata anche a posizioni non propriamente comuniste, come il nazionalismo e un legame sempre più forte verso Sukarno. Costui concesse al Pki non solo sempre più spazio politico e ma anche protezione fisica davanti ai nemici della destra. Tutto ciò fece pensare ai comunisti che il legame con Sukarno gli avrebbe concesso ancora più spazio, anche se c’era una conseguenza: il partito stava perdendo col tempo la forza di difendere, anche fisicamente, i lavoratori e i contadini, i quali spesso si dimostravano più radicali del proprio partito. Col tempo questo limite divenne noto anche ai propri principali nemici. 
Il genocidio del 1965-66 trova origine nel presunto e tentato colpo di stato che un gruppo di generali del Movimento 30 Settembrerealizzarono il 1º ottobre 1965 e del quale venne accusato il Pki. Al riguardo, John Roosa, autore di Pretext for Mass Murder, ritiene che il partito fosse ignaro dell’organizzazione del golpe a eccezione del leader D.N. Aidit e del capo della struttura clandestina Sjam. Sei d’accordo con questa posizione?
Roosa apporta nuovi documenti su questo difficile tema. È possibile, come dice lui, che uno, due o pochi altri dirigenti del Pki sapessero qualcosa dell’azione del Movimento 30 Settembre. Tuttavia ho molti dubbi riguardo al vero ruolo del capo della struttura clandestina del Pki, Sjam. Il suo comportamento successivo al golpe, il buon trattamento ricevuto e il fatto che abbia confermato interamente la versione dell’Esercito sui fatti del 1º ottobre fa sospettare che lavorasse in combutta con esso. Ad ogni modo ancora non possiamo dare una risposta definitiva su questo punto.
Ciò che importa veramente è che la gran parte dei dirigenti e dei militanti del Pki non sapeva assolutamente nulla del presunto golpe. E anche nel caso in cui Aidit avesse preso parte all’organizzazione di esso, niente giustifica lontanamente gli atti di violenza commessi contro milioni di membri di un partito legale. Questo è il punto fondamentale: in qualsiasi caso i massacri commessi dall’Esercito sono ingiustificabili. 
Riguardo al coinvolgimento degli Usa, si passa da posizioni come quelle dell’allora Ambasciatore statunitense che scrisse che gli avvenimenti del 1º ottobre furono per loro “un’assoluta sorpresa”, a quelle dell’attivista e ricercatore David Johnson che scrisse che quegli eventi furono “una creazione della Cia”. Tu rifiuti entrambe queste posizioni. Perché?
Che gli Usa siano stati presi di sorpresa dagli eventi del 1º ottobre e dalla successiva campagna contro il Pki è assolutamente falso. Ci sono dozzine di documenti che provano il contrario. Essi non solo furono coinvolti ma fecero di tutto per assicurarne la riuscita e spinsero l’Esercito al compimento delle stragi. Il coinvolgimento degli Usa si divide in due momenti, uno prima del presunto golpe e uno successivo. Per dieci anni gli Stati Uniti fecero di tutto per scatenare un intervento militare che abbattesse Sukarno e bloccasse l’avanzata del Pki. Siamo oggi in possesso di documenti che provano che il presunto golpe era esattamente ciò che avevano progettato e, a prescindere dal fatto che l’abbiano organizzato loro, di certo ne posero le basi.
Come spiego nel libro, dopo i fatti del 1º ottobre, gli Usa sostennero l’Esercito, lo incoraggiarono nella distruzione fisica del Pki, gli fornirono aiuto economico, logistico e propagandistico – sempre in segreto perché un sostegno aperto sarebbe stato improduttivo. Ma questo sostegno si realizzò solo quando essi furono rassicurati del fatto che l’Esercito era impegnato a pieno nel genocidio. Essi sapevano dei massacri, sapevano delle torture che si stavano compiendo e decisero di restare in silenzio, che non corrisponde affatto a una posizione neutrale. Gli Usa furono pienamente coinvolti in un crimine contro l’umanità.
Tuttavia non credo che il Movimento 30 Settembre sia stata un’operazione costruita dagli Usa, non credo che ne avrebbero avute le capacità. Pensare che dietro a tutto ci siano sempre e solo gli Stati Uniti nega importanza agli attori locali tra i quali, il più importante in quel caso, vi fu l’esercito indonesiano.
Il Pki fu il più importante partito comunista in un paese non socialista. Era ben organizzato e con un enorme sostegno popolare. Come fu possibile che tale struttura non fu capace di organizzare una resistenza e trasformare il colpo di Stato di Suharto in una Guerra civile?
È una domanda davvero importante. Ci sono due possibili risposte. La prima sta nei limiti della linea parlamentare del Pki adottata nei primi anni Cinquanta. Era impossibile, secondo i critici di allora, essere parte di un movimento rivoluzionario senza avere una struttura armata. Si disse che le mosse dell’esercito dovevano essere anticipate e che l’assenza di una strategia militare e di un piano in caso di golpe sia tra le cause del suo fallimento.
La seconda possibile risposta è che una resistenza sì ci fu ma fu concentrata in punti precisi e venne portata avanti non tanto dai militanti ma dagli alleati del Pki, ovvero quei settori dell’esercito ad esso affine. Tuttavia si dimostrò debole e Suharto li sconfisse velocemente. Cosa fece il partito a livello locale? Semplicemente non venne informato. La rete di comunicazione venne interrotta, le basi locali erano del tutto all’oscuro di ciò che stava accadendo e, privi di una linea precisa, i militanti si rivelarono scioccati, confusi, del tutto indifesi e incapaci di organizzare una controffensiva. L’unico messaggio del centro fu quello di Sukarno, che parlava invano della necessità di una soluzione politica. E in quel contesto cominciarono a succedere cose strane. La polizia o l’esercito giungeva nei villaggi e chiedeva chi fosse del Pki, che andavano portati via per la loro protezione. In tanti alzarono il braccio: non avevano paura, erano membri di un partito grande, legale e sostenitore del Presidente. Cosa potevano temere? Altri spontaneamente si presentarono alle stazioni di polizia, ignari del loro destino.
Sappiamo qualcosa delle ultime mosse del Pki? Provarono a condannare il movimento 30 Settembre?
È poco chiaro. La leadership del Pki si fratturò subito dopo il presunto golpe perché i dirigenti pensarono che sarebbero stati arrestati. Si divisero per l’Indonesia e si nascosero e questa fu una scelta decisiva: appena il Movimento 30 Settembre fu sconfitto, la leadership del Pki divenne irreperibile da Giacarta, non erano più insieme per discutere e anche tra loro le comunicazioni furono scarse. I pochi messaggi inviati erano molto generici, le informazioni erano poco precise, dominava il caos.
Una cosa che provarono a fare era legare il proprio destino a chi era ancora al potere. A Bali l’esercito era posto su posizioni di sinistra e questo spiega che lì le stragi cominciarono con due mesi di ritardo rispetto a Giava. Appena i vertici progressisti vennero rimossi e sostituiti da uomini di Suharto, anche a Bali non vi fu nessuno in grado di proteggerli e le stragi cominciarono anche lì.
Qual è stato l’effetto della scomparsa della sinistra nella vita sociale e culturale dell’Indonesia?
Profondo. Dall’inizio del 20º secolo fino al 1965 la sinistra e specialmente il Partito Comunista furono estremamente importanti nella vita sociale e culturale dell’Indonesia e rappresentarono il centro del movimento anticoloniale e indipendentista. Una tradizione politica e intellettuale fondamentale per la società indonesiana di colpo sparì e le conseguenze furono due: 1) la storia dell’Indonesia fu completamente falsata, negando alla sinistra e al Pki qualsiasi ruolo positivo per la costruzione nazionale. Ancora oggi c’è chi crede che quello comunista fu il partito del terrore e della violenza, quello che uccise i generali il 1º ottobre del ’65 e non la vittima di un terribile crimine; 2) rimuovendo la sinistra dalla società si è persa un’intera maniera critica di pensare. L’Indonesia è stata privata degli strumenti per realizzare una seria critica al capitalismo e all’ineguaglianza, per reagire alla povertà e alle ingiustizie. Ciò ha creato un vuoto coperto dai partiti populisti di destra, sinofobi, islamisti, ipernazionalisti e da gruppi criminali che intimidiscono, corrompono e si inseriscono nella vita politica indonesiana in nome della religione. In Indonesia manca una seria alternativa alla destra.
La buona notizia è che negli ultimi vent’anni, soprattutto tra i giovani, vi è una nuova voglia di conoscere la storia silenziata, di imparare di più anche dalla tradizione politica della sinistra, di conoscere meglio la storia, la politica, di leggere e imparare in modi diversi. 
Nel Sud-America e in Spagna, dove vi sono stati massacri simili a quello indonesiano, la sinistra non è scomparsa, vi sono stati forti movimenti contro i governi militari di estrema destra e la memoria del passato è viva ancora oggi. Perché ciò non è accaduto in Indonesia? Perché il silenzio e la paura continuano a prevalere dopo più di cinquant’anni e non vi è un movimento anti-establishment?
Un movimento anti-establishment non è del tutto assente. Vi sono piccoli movimenti sparsi nel paese, composti da persone davvero coraggiose, anche tra i familiari degli ex-prigionieri politici.
In Indonesia l’annientamento fisico della sinistra è stato talmente grande che non si è riusciti a ricostruire una coscienza politica di sinistra. Mentre in Argentina e Cile i militari hanno abbandonato il potere, lì dal 1965 l’esercito continua a essere chi davvero comanda, specialmente quando si parla della memoria storica. E ora c’è una situazione in cui il livello di violenza è stato talmente grande che vi sono tre generazioni che hanno vissuto nella paura e hanno introiettato una sola visione dei fatti del 1965 e del ruolo del Pki. Ancora oggi le persone sono terrorizzate nel parlare di questa vicenda e la paura è talmente penetrata che l’esercito quasi non serve più per imporre una visione. Tra l’altro vi sono organizzazioni anticomuniste che violentemente attaccano chiunque provi a raccontare una versione diversa sui massacri del 1965, chi ancora cerca giustizia o chi realizza dissotterramenti delle vittime.
È interessante, infine, il paragone con la Spagna, da te citato. È un paese dove la violenza e la repressione sono stati simili a quella indonesiana e dove per molti anni hanno dominato il silenzio e la paura. In Indonesia il regime di Suharto è caduto nel 1999 forse servono ancora molti anni prima che una nuova generazione possa chiedere giustizia e fare i conti con i massacri del regime militare, proprio come del tempo è stato necessario in Spagna.
Nell’ultimo capitolo del tuo libro dici che in certo modo i massacri indonesiani mettono in discussione alcuni concetti della teoria dei genocidi. In che modo?
In vari modi ma in due soprattutto. La prima riguarda l’idea per la quale il genocidio è relegato a questioni etniche e religiose. In Indonesia vediamo che questo non è vero. Questo crimine venne commesso sulla base di una differenza politica e ideologica, non etnica. Vi è poi una seconda ipotesi, per la quale il genocidio avvenne nella costruzione di una società utopica (come nella Germania nazista, la Cina maoista o la Cambogia di Pol Pot). In Indonesia vi è il genocidio e non vi è utopia. Le idee che prevalgono sono l’anticomunismo, il militarismo e l’iper-nazionalismo.
Credo che il caso indonesiano ci dica che per compiere un genocidio ciò che realmente è necessario sono l’iper-nazionalismo e il militarismo, ovvero una cultura, una mentalità e una struttura organizzativa militare che permettano il compimento del genocidio. 
Oltre alle responsabilità dell’esercito (per te predominanti) e dei gruppi musulmani come Nu, parli dei crimini commessi dal Partito Cattolico e dalla Gioventù Cattolica sull’isola di Flores. In proposito, menzioni le violente parole dell’Arcivescovo di Ende, Gabriel Manek, che invocò la “purificazione della terra” dai comunisti. Quale fu la posizione del Vaticano su questo genocidio? Vi è mai stata un’autocritica da parte della Chiesa indonesiana al riguardo?
Domanda veramente buona. Non conosco la posizione del Vaticano ma so che l’arcivescono di Ende era stato in Vaticano quello stesso anno e che la sua posizione non fu isolata. Il Partito Cattolico dalla sua nascita fu profondamente anticomunista e la Gioventù Cattolica partecipò attivamente alle stragi. Oggi ci sono gruppi religiosi di diversi credi che analizzano criticamente il proprio ruolo nei fatti del 1965-66. Non conosco la posizione ufficiale del Vaticano ed è un tema che varrebbe la pena studiare.
*Geoffrey B. Robinson, professore di Storia alla Ucla specializzato nella violazione dei diritti umani nel Sud-Est Asiatico, ha pubblicato The Killing Season. A History of yhe Indonesian Massacres 1965-66. Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Vive e lavora da anni a Barcellona, in Spagna.

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