La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
martedì 31 maggio 2016
lunedì 30 maggio 2016
Tra me e il mondo - Richard Wright
E all’improvviso una mattina nel bosco
mi sono imbattuto
nella cosa,
Mi ci sono imbattuto in una radura
erbosa con querce rugose
ed olmi a sentinella.
E sono emersi i particolari
anneriti dello scenario, ficcandosi
tra me e il mondo...
C’era il disegno di ossa bianche
sonnacchiose dimenticate
su un cuscino di ceneri.
C’erano poi i resti carbonizzati di
un arboscello che puntavano
un dito mozzo e accusatorio verso il
cielo.
C’erano i rami strappati, le piccole
vene di foglie bruciate, e
il rotolo bruciacchiato di corda unta;
Una scarpa vacante, una cravatta vuota,
una camicia strappata, un cappello solitario e
un paio di pantaloni macchiati di sangue
nero
E sull’erba calpestata bottoni,
fiammiferi spenti,
cicche di sigarette e sigari, bucce di
noccioline, una
fiaschetta svuotata di gin, e il
rossetto di una puttana;
Tracce sparse di catrame, piume e penne
svolazzanti nell’aria e
l’odore persistente di benzina.
E nell’aria mattutina il sole versava
stupore giallo
nelle orbite svuotate del teschio
impietrito...
E mentre me ne stavo lì la mia mente
raggelata da una pietà fredda per
quella vita andata.
La terra mi afferrò per i piedi e
attorno al mio cuore si innalzarono
le mura ghiacciate della paura –
Il sole si spense nel cielo; il vento notturno
borbottava tra l’erba
e scompigliava le foglie tra gli alberi;
il bosco si risuonò
del latrato affamato dei mastini; le
tenebre
urlavano con voci assetate; e i
testimoni si levarono
e presero vita:
Le ossa riarse si mossero,
agitandosi si alzarono per fondersi alle
mie ossa.
Le ceneri grigie si trasformarono in
carne soda e nera, ed entrarono nella mia
carne.
La fiaschetta del gin passata da bocca
in bocca; i sigari le sigarette
si riaccesero, la puttana si imbrattò di
rossetto
le labbra,
E migliaia di facce mi turbinarono
attorno, insistendo a gran voce che
venisse arsa la mia vita...
E poi mi presero, mi denudarono,
schiacciandomi in gola
i denti fino a quando non
inghiottii il mio proprio sangue.
La mia voce annegò nel ruggito delle
loro voci, e il mio
corpo nero bagnato scivolava e rotolava
nelle loro mani
mentre mi legavano all’arboscello.
E la mia pelle si attaccava alla catrame
bollente, che mi si staccava di dosso
in mucchietti flosci.
E le piume e le penne bianche si
affondarono appuntite
nella mia carne sanguinante e si
levarono i gemiti della mia agonia.
Poi una misericordiosa frescura sorprese
il mio sangue, il battesimo
della benzina.
E in una vampa rossa balzai verso il
cielo mentre il dolore si alzava come
acqua, bollendomi gli arti.
Ansimando, scongiurando mi aggrappai
come un bambino mi aggrappai ai roventi
fianchi della morte.
E ora non sono che ossa riarse e la
mia faccia un teschio impietrito che fissa
con giallo stupore il sole...Poco più di cento rapidi racconti - Eliana Elia
l'altra sera ho preso la metropolitana leggere, ho portato con me un librettino di quelli della Fahrenheit 451, un taschinabile,
ne trovo uno di racconti brevissimi, perfetto per un viaggetto da meno di un'ora fra andata e ritorno.
ce l'avevo da anni, finalmente l'ho preso.
partito il trenino ho aperto il libro, e ho cominciato a sorridere, un paio di volte anche a ridere, insomma Eliana mi piaceva.
ogni tanto alzavo lo sguardo e vedevo che qualcuno mi guardava come se avessi un problema, sopratutto quelle ragazzine e quei ragazzini semi-autistici, col cellulare sempre in mano.
come poteva un libro fare quell'effetto, immagino pensassero, e siccome era impossibile, lo sanno tutti, dovevo essere un po' toccato.
adesso faccio una prova, vediamo l'effetto che fa.
Aperture (p.78)
La maestra entrò in classe e disse: "Aprite le finestre". Gli alunni fecero silenzio, spalancarono i loro libri e respirarono aria fresca.
Il Paradiso Terrestre (p.45)
Durante le vacanze estive sono andata nel Paradiso Terrestre; tutti me lo avevano sconsigliato dicendomi che si trattava di un posto fuori moda, antiquato, senza piscina e senza aria condizionata. Mi sono trovata, invece, benissimo. Il posto era incantevole.: Adamo ed Eva mi hanno offerto tante mele renette.
In aria (p.97)
Si era finalmente alzato il vento. Strinse nel pugno il filo e, mentre l'aquilone si posava sulla terra, il bambino cominciò a volare.
Giornata (p.29)
I nipoti andarono a farle visita. Si rallegrò di vederli dopo tanti anni. Aveva preparato con cura i loro piatti preferiti e, durante il pranzo, assaporò tutti i loro racconti. Il tempo passò in fretta e quando i ragazzi andarono via , mise una cornice a quella giornata e l'appese al muro.
cosa ve ne sembra?
spero che questi microracconti non vi piacciano, perché il libro è introvabile - franz
ne trovo uno di racconti brevissimi, perfetto per un viaggetto da meno di un'ora fra andata e ritorno.
ce l'avevo da anni, finalmente l'ho preso.
partito il trenino ho aperto il libro, e ho cominciato a sorridere, un paio di volte anche a ridere, insomma Eliana mi piaceva.
ogni tanto alzavo lo sguardo e vedevo che qualcuno mi guardava come se avessi un problema, sopratutto quelle ragazzine e quei ragazzini semi-autistici, col cellulare sempre in mano.
come poteva un libro fare quell'effetto, immagino pensassero, e siccome era impossibile, lo sanno tutti, dovevo essere un po' toccato.
adesso faccio una prova, vediamo l'effetto che fa.
Aperture (p.78)
La maestra entrò in classe e disse: "Aprite le finestre". Gli alunni fecero silenzio, spalancarono i loro libri e respirarono aria fresca.
Il Paradiso Terrestre (p.45)
Durante le vacanze estive sono andata nel Paradiso Terrestre; tutti me lo avevano sconsigliato dicendomi che si trattava di un posto fuori moda, antiquato, senza piscina e senza aria condizionata. Mi sono trovata, invece, benissimo. Il posto era incantevole.: Adamo ed Eva mi hanno offerto tante mele renette.
In aria (p.97)
Si era finalmente alzato il vento. Strinse nel pugno il filo e, mentre l'aquilone si posava sulla terra, il bambino cominciò a volare.
Giornata (p.29)
I nipoti andarono a farle visita. Si rallegrò di vederli dopo tanti anni. Aveva preparato con cura i loro piatti preferiti e, durante il pranzo, assaporò tutti i loro racconti. Il tempo passò in fretta e quando i ragazzi andarono via , mise una cornice a quella giornata e l'appese al muro.
cosa ve ne sembra?
spero che questi microracconti non vi piacciano, perché il libro è introvabile - franz
domenica 29 maggio 2016
Due coraggiosi registi e attivisti sahrawi che documentano le violazioni dei diritti umani - Habibulah Mohamed Lamin
Nota dell'editor di Witness: durante un recente viaggio nei campi-profughi sahrawi [en, come tutti i
link seguenti salvo diversa indicazione] a Tindouf in Algeria,
WITNESS ha incontrato il giornalista locale Habibulah Mohamed Lamin. Questo
messaggio di Lamin fa parte di Watching Western Sahara, un'iniziativa di WITNESS Media Lab
che si occupa e contestualizza video sui diritti umani girati dagli attivisti
digitali sahrawi. Questo post è stato originariamente pubblicato sul blog di WITNESS.
I campi profughi dei sahrawi sono composti perlopiù da
tende e case di fango sparse che si estendono nell'immenso deserto del Sahara
dell'Algeria occidentale. Vennero creati quando il Marocco annesse il Sahara
Occidentale nel 1975 e le 100 mila persone che li popolano dipendono dagli
aiuti umanitari per far fronte ai bisogni di cibo, acqua e vestiti.
Nel 1976, il popolo Sahrawi fondò uno stato chiamato
Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, o RASD. La RASD opera in esilio nei
campi e nelle zone del Sahara Occidentale controllate dal Fronte Polisario [it].
Dopo aver accettato il cessate il fuoco negoziato dall'Onu nel 1991, i sahrawi
si sono serviti di mezzi pacifici per richiedere il loro diritto
all'autodeterminazione. L'accordo di pace prometteva un referendum che avrebbe
permesso ai Sahrawi di votare per l'indipendenza, ma ciò non si è ancora
concretizzato.
Brahim Dahani
Dihani è venuto ai campi per partecipare ad un
laboratorio organizzato dall'Unione degli Studenti Sahrawi (o UESARIO). Tutti i
16 studenti riuniti nella stanza erano desiderosi di imparare. Non appena il
loro insegnante gli ha chiesto di riconoscere delle inquadrature
cinematografiche, hanno iniziato: “grandangolo”, “no, campo lungo”, in
un'atmosfera piena di entusiasmo.
“Sono venuto per imparare le tecniche di ripresa così
da poterle utilizzare quando torno a casa”, ha detto Dihani. Secono lui,
protestare nel Sahara Occidentale è difficile a causa del divieto imposto dal
Marocco, che impedisce qualsiasi genere di raduno di manifestanti.
La repressione delle proteste da parte del Marocco è
una questione che i gruppi internazionali di supporto e i funzionari dell'Onu
documentano da molto tempo. Ad una seduta del Congresso sul Sahara Occidentale,
indetta il mese scorso dalla Commissione Tom Lantos per i Diritti Umani, Eric Goldstein di Human Rights Watch ha espresso le preoccupazioni
dell'organizzazione, che includono “le violazioni del diritto alla
libertà di espressione, di associazione, di riunione e il diritto ad un equo
processo, le torture nel corso degli interrogatori e la violenza della polizia
verso i manifestanti”.
“La tua vita è in pericolo”, mi ha detto Dihani, “non
appena metti piede fuori dall'aeroporto di El Aaiun”. Come ha spiegato, la
repressione contro i media a cui lo sottopongono le autorità marocchine è un
processo che prevede controlli severi. “Mentre torno a casa”, ha aggiunto, “mi
aspetto ogni tipo di ispezione come la perquisizione senza vestiti e così via”.
Mariem Zafri ha 33 anni e vive nella città di Smara,
nei territori occupati dal Marocco. Ha da poco completato uncorso di attivismo video per i diritti umani organizzato
da FiSahara e WITNESS.
Al ritorno dai campi verso casa sua nel Sahara
Occidentale, le è stato sequestrato il volantino dei difensori dei diritti
umani. “Sono stata oggetto di discriminazioni razziali, in quanto mi hanno
messo in una stanza per gli interrogatori separata.” Ha descritto l'attivismo
digitale nel territorio come uno specchio per riflettere su “la grave
situazione dei diritti umani nella regione”. Per esempio, Zafri ha segnalato il processo militare del 2013 dei detenuti di Gdeim Izik,
che ha portato alla condanna a morte per 9 civili sahrawi. I prigionieri
politici avevano indetto lo sciopero della fame per 36 giorni. Quando alle famiglie
fu impedito di far loro visita, hanno protestato a Rabat, cantando: “Nessuna
legittimità per il tribunale militare”.
Zafri è d'accordo con le numerose organizzazioni
sahrawi e internazionali che vorrebbero il mandato della MINURSO, la missione
di pace dell'Onu nel Sahara Occidentale, esteso anche al monitoraggio dei diritti umani. Tale
monitoraggio, dice Zafri, “permetterà ai Sahrawi di scendere in piazza ed
esigere i loro diritti”. Attualmente, i diritti umani sono trattati di rado da
giornalisti e sostenitori internazionali. All'inizio di questo mese, un gruppo
di cittadini europei in visita a Gdeim Izik è stato espluso da Rabat dalle autorità marocchine. A Human
Rights Watch è stato proibito di far visita al territorio.
Tuttavia, quando oggi il Consiglio di Sicurezza ha votato per il prolungamento
della missione MINURSO, non è stata fatta alcuna modifica.
Video dei familiari dei prigionieri politici sahrawi in protesta a Rabat, Marocco
Gli attivisti digitali del posto, come Zafri e Dihani,
sono gli unici rimasti a documentare gli abusi nel Sahara Occidentale. Come mi
ha detto Zafri, le sue possibilità di portare avanti questo servizio
sono a rischio. “Sono sempre in pericolo, anche quando non sto
riprendendo”.
Habibulah Mohamed Lamin è un
giornalista che vive nei campi-profughi del Sahara Occidentale. Ha lavorato
come interprete e traduttore per i visitatori dei campi, tra cui WITNESS, ed è
direttore del Equipe Media Branch di Tindouf, un gruppo di attivisti digitali
che opera nel Sahara Occidentale.
sabato 28 maggio 2016
Essere o non essere competitivi? - Emilia de Rienzo
Che per riuscire nella vita bisogna essere competitivi, è
un’idea assodata e indiscutibile. La parola competizione con le altre parole
che viaggiano insieme a lei: merito, valutazione, selezione, sembrano ormai ciò
di cui c’è assoluto bisogno per costruire una società moderna ed efficiente.
Secondo questa visione, la competizione ha effetti positivi,
migliora la realtà, favorisce il progresso e quindi la vita di tutti. Lo
crediamo senza indagare più di tanto cosa voglia veramente dire dover sempre
gareggiare.
Non si analizza questa parola nelle sue implicazioni
sociali, economiche e psicologiche più profonde, non si guardano gli effetti
negativi e, se lo si fa, si pensa che i danni “collaterali” siano inevitabili.
Di slogan in slogan, queste idee sono diventate patrimonio
collettivo, hanno messo radici nella mente di ognuno di noi e rimbalzano ogni
giorno dai discorsi ufficiali della politica ai dialoghi della gente più
comune. La competizione deve animare le imprese, le istituzioni, gli stati, ma
anche le relazioni sociali tra persone, e purtroppo anche l’educazione dei
nostri bambini. Ci vantiamo se sono intelligenti, bravi a scuola, nello sport,
se sono belli; li vogliamo vestititi all'ultima moda, con il cellulare ultima
generazione e ci preoccupiamo se soni troppo altruisti, se sono
sensibili, se pensano troppo agli altri. Li impegniamo dalla mattina
alla sera: a scuola, in palestra, a lezioni di musica o di una lingua. Vogliamo
che imparino subito a difendersi, a essere forti. La fragilità, la delicatezza
d'animo non sono delle doti, sono degli handicap da cui bisogna
"guarire".
La forza del modello competitivo viene dalla determinazione
con cui viene applicato, dal consenso acritico di cui gode e dal suo
radicamento nella nostra cultura.
E così che ci siamo costretti a correre sempre più
velocemente per superare gli altri e noi stessi: non abbiamo tempo è il
ritornello più in voga ogni volta che qualcuno ci chiede di fermarci un attimo
anche solo a fare due chiacchiere.
Siamo presi dall'ansia da prestazione, temiamo di
non essere all'altezza…, ci sentiamo umiliati se non riusciamo a
realizzare ciò che ci eravamo prefissati, abbiamo sempre paura di perdere
“qualcosa”.
Nonostante la stanchezza che a volte ci pervade, non
mettiamo in dubbio che essere competitivi sia una necessità e ci adoperiamo per
essere sempre al top delle nostre possibilità sia fisiche che intellettive. E
questo lo chiediamo anche ai nostri figli che devono anticipare ogni
apprendimento per poter superare gli altri, per essere superiori, i più bravi,
per raggiungere “mete ed obiettivi” e acquisire più competenze possibili.
Alcuni mandano i figli a scuola prima dei sei anni, nelle scuole materne
migliori si imparano le lingue straniere, si impara a scrivere e a leggere. E
il gioco, l'imparare a stare con gli altri, l'esplorazione di un mondo che in
un bambino piccolo è una necessità, non è poi così importante. L'importante è
che "sappiano"...
La competizione, quindi, si estende ben oltre la
competizione economica e il mercato; arriva a plasmare la nostra quotidianità e
soggettività senza che ne abbiamo piena coscienza. Siamo messi in competizione
con gli altri e con noi stessi, nel mondo del lavoro, ma anche nel modo con cui
stiamo con gli altri, con cui educhiamo i nostri figli. La vita stessa
diventa una incessante gara.
Tutti devono giocare, e si gioca per vincere, sapendo che,
se qualcuno vince, qualcun altro dovrà perdere. Lo si sa e non ci si chiede
cosa succederà a chi perde. Si gioisce per la propria vittoria, ma si gioisce
anche per la sconfitta degli altri.
Ma come regolare nella scuola una "sana competizione"? Ed ecco entrare in campo la parola magica che appassiona e fa discutere: meritocrazia. Nella scuola va incoraggiata la meritocrazia e non c'è merito che non si misuri, che "finalmente" introduce l'obiettività delle valutazioni. Nella scuola finalmente entrano i test, le griglie di valutazione nel consiglio di classe, ma anche a livello nazionale e transnazionale. La logica che li sottende è la misurazione oggettiva. E i test sono davvero uno strumento eccezionale, così accurati e "intelligenti" da saper misurare non solo le competenze cognitive, ma anche la capacità di comunicare, di socializzare, di saper lavorare con gli altri...
Quanto lavoro per rendere la scuola sempre più efficiente e capace di individuare gli alunni più meritevoli!
Se hai un buon punteggio sei dentro, se non lo raggiungi, sei fuori. Tutto quello che rimane fuori dalla griglia non "vale", non esiste perché non è previsto un punteggio.
Questo vale per ogni tipo di valutazione, anche quella prevista per gli insegnanti.
Eppure se interroghiamo i ragazzi, ma anche noi stessi, ricordiamo come gli insegnanti che abbiamo più amato, che hanno saputo trasmetterci la gioia del sapere, erano quelli capaci di dare "qualcosa in più", un qualcosa di indefinibile che ci apriva le vie della conoscenza senza farla "odiare", anzi...
Questo "qualcosa in più" ci racconta quanto sia irrinunciabile la componente soggettiva, non quantificabile e non standardizzabile anche se non arbitraria. Il che significa, come dice Beatrice Bonato, in Aut Aut, che bisogna:
Ma come regolare nella scuola una "sana competizione"? Ed ecco entrare in campo la parola magica che appassiona e fa discutere: meritocrazia. Nella scuola va incoraggiata la meritocrazia e non c'è merito che non si misuri, che "finalmente" introduce l'obiettività delle valutazioni. Nella scuola finalmente entrano i test, le griglie di valutazione nel consiglio di classe, ma anche a livello nazionale e transnazionale. La logica che li sottende è la misurazione oggettiva. E i test sono davvero uno strumento eccezionale, così accurati e "intelligenti" da saper misurare non solo le competenze cognitive, ma anche la capacità di comunicare, di socializzare, di saper lavorare con gli altri...
Quanto lavoro per rendere la scuola sempre più efficiente e capace di individuare gli alunni più meritevoli!
Se hai un buon punteggio sei dentro, se non lo raggiungi, sei fuori. Tutto quello che rimane fuori dalla griglia non "vale", non esiste perché non è previsto un punteggio.
Questo vale per ogni tipo di valutazione, anche quella prevista per gli insegnanti.
Eppure se interroghiamo i ragazzi, ma anche noi stessi, ricordiamo come gli insegnanti che abbiamo più amato, che hanno saputo trasmetterci la gioia del sapere, erano quelli capaci di dare "qualcosa in più", un qualcosa di indefinibile che ci apriva le vie della conoscenza senza farla "odiare", anzi...
Questo "qualcosa in più" ci racconta quanto sia irrinunciabile la componente soggettiva, non quantificabile e non standardizzabile anche se non arbitraria. Il che significa, come dice Beatrice Bonato, in Aut Aut, che bisogna:
smettere di spingere gli studenti verso il miraggio di
punteggi più elevati, riconoscere gli allievi dotati senza pretendere di
creare, fin dalla scuola, un'élite dei talenti .
Martha Nussbaum ci invita poi a sottrarci all'idea di
rendere sempre più efficienti le scuole:
Distratti dall'obbiettivo del benessere chiediamo sempre
più alle nostre scuole di insegnare cose utili per diventare uomini d'affari
piuttosto che cittadini responsabili.
Forse un buon esercizio sarebbe quello di provare a
reintrodurre possibilità umane fondamentali, teoricamente e praticamente
scartate dall'ideologia dominante: aprire spazi di relazione, di
libertà, di bellezza per riflettere sulla costruzione di una società
democratica veramente inclusiva, tenendo fuori dalla porta l'ossessione del
confronto competitivo e della "traduzione delle differenze in
classifiche".
La cultura è un dono che dobbiamo saper offrire ai nostri studenti vivificandola, avvicinandola alle loro realtà di vita, sottraendola a un'idea "aristocratica" in cui ancora troppi insegnanti credono.
Questo è il passaggio fondamentale a cui bisogna prepararsi. E per fare questo dobbiamo "metterci in gioco" nella relazione, imparare ad accettare l'imprevedibilità, a ridefinire le regole del gioco, diventare ricercatori il cui sapere non è fine a se stesso, ma il mezzo mediante il quale si potenziano e sviluppano le abilità degli allievi e si entra in dialogo continuo con loro.
La cultura è un dono che dobbiamo saper offrire ai nostri studenti vivificandola, avvicinandola alle loro realtà di vita, sottraendola a un'idea "aristocratica" in cui ancora troppi insegnanti credono.
Questo è il passaggio fondamentale a cui bisogna prepararsi. E per fare questo dobbiamo "metterci in gioco" nella relazione, imparare ad accettare l'imprevedibilità, a ridefinire le regole del gioco, diventare ricercatori il cui sapere non è fine a se stesso, ma il mezzo mediante il quale si potenziano e sviluppano le abilità degli allievi e si entra in dialogo continuo con loro.
venerdì 27 maggio 2016
Sciola, appunti di una biografia (mai scritta) sulla gioia di vivere e di creare - Donatella Percivale
Nell’ottobre del 2013 Pinuccio Sciola mi
chiese di aiutarlo a scrivere la sua biografia. “E’ arrivato il momento di
farlo”, mi disse. A lui mi legava una stima profonda e un sentimento forte
della vita che chiamavamo bellezza. Accettai. Quelli che seguirono furono
pomeriggi di stupore, ricordi e risate. E frotte di amici e conoscenti che non
smettevano mai di bussare alla sua porta. “Pinù, vogliono vedere le tue
pietre”, gridavano da dietro la grande finestra. Così, interrompeva i fiumi di
racconti e scompariva per far suonare i suoi amati graniti. Quando capimmo
che quel libro difficilmente saremmo riusciti a scriverlo, scherzò:
“Magari ci ispiriamo a Leopardi e buttiamo giù un bel Zibaldone”. Non scrivemmo
nemmeno quello. Erano troppi gli impegni, le commesse, le mostre, la voglia di
vivere e lavorare che animavano Pinuccio Sciola.
Quelli che seguono sono solo alcuni pensieri. Appunti di fine estate.
Frizzanti come la granita di uva zuccherina che mi preparava in quei pomeriggi
carichi di vita e libertà.
Santità
Chi farei santo? Quel gran genio di Leonardo! Chi più di lui ha fatto miracoli? L’artista che possiede la capacità creativa, porta in sé il segno del divino. Santificare vuol dire essere vicino a chi ha creato le meraviglie di questo mondo. Perché Giordano Bruno deve rimanere su un palo a bruciare e non essere invece adorato su un altare? Propongo un calendario laico di cervelli creativi che parta da Bruno per arrivare a Borsellino, uomini che si sono spesi per gli altri. Uomini che per la fede nella loro passione hanno dato la vita.
Chi farei santo? Quel gran genio di Leonardo! Chi più di lui ha fatto miracoli? L’artista che possiede la capacità creativa, porta in sé il segno del divino. Santificare vuol dire essere vicino a chi ha creato le meraviglie di questo mondo. Perché Giordano Bruno deve rimanere su un palo a bruciare e non essere invece adorato su un altare? Propongo un calendario laico di cervelli creativi che parta da Bruno per arrivare a Borsellino, uomini che si sono spesi per gli altri. Uomini che per la fede nella loro passione hanno dato la vita.
La funzione dell’arte
L’artista deve incidere, lasciare il segno, documentare il reale, far sì che le mostruosità di cui ci macchiamo non vadano dimenticate. Questa estate ho modellato alcune delle mie pietre pensando ai bambini morti in Siria. Pietre che simboleggiano delle date, pietre come salme crivellate di buchi, come quei poveri corpi. Siria 2013. Ecco cosa dovremmo ricordare di questa estate.
L’artista deve incidere, lasciare il segno, documentare il reale, far sì che le mostruosità di cui ci macchiamo non vadano dimenticate. Questa estate ho modellato alcune delle mie pietre pensando ai bambini morti in Siria. Pietre che simboleggiano delle date, pietre come salme crivellate di buchi, come quei poveri corpi. Siria 2013. Ecco cosa dovremmo ricordare di questa estate.
La notorietà
Ad oggi ho contato almeno una ventina di tesi sui miei lavori: studenti dell’Accademia di Brera di Milano, dell’Università di Parma o di Bologna. All’estero, mi conoscono più che in Sardegna. Ma oramai non mi fa più arrabbiare. Il problema della nostra isola è l’invidia. Ci corrode il petto. E ci fa solo strisciare.
Ad oggi ho contato almeno una ventina di tesi sui miei lavori: studenti dell’Accademia di Brera di Milano, dell’Università di Parma o di Bologna. All’estero, mi conoscono più che in Sardegna. Ma oramai non mi fa più arrabbiare. Il problema della nostra isola è l’invidia. Ci corrode il petto. E ci fa solo strisciare.
Lavoro
Quante ore lavoro durante la giornata? Almeno 14. Sto cercando dove vendono il tempo, ma non sono ancora riuscito a trovare il negozio.
Quante ore lavoro durante la giornata? Almeno 14. Sto cercando dove vendono il tempo, ma non sono ancora riuscito a trovare il negozio.
Creatività
Ognuno, a suo modo, ce l’ha. Magari è più nascosta, ma io la sento. Mi viene addosso, anche con un sorriso.
Ognuno, a suo modo, ce l’ha. Magari è più nascosta, ma io la sento. Mi viene addosso, anche con un sorriso.
Sagra delle pesche
Nel ’69, con un gruppo di amici di San Sperate, ci inventammo una festa, un’occasione per stare tutti insieme e fare baldoria. Per un mese intero addobbammo portali e dipingemmo murales, un’ondata di creatività che sembrava non finire. Decidemmo di chiamarla “La sagra delle pesche” e alla fine non c’era una casa che non fosse aperta, una gara tra rioni e famiglie a chi avesse più pesche e cibo buono da offrire. Per strada non si riusciva a camminare senza che qualcuno non ti invitasse a bere. L’ultima sera, durante un ballo, crollo a terra dalla stanchezza. Un amico si avvicina tutto spaventato e mi dice: “Pinuccio, Pinuccio, cosa possiamo fare, cosa desideri? Aprii gli occhi e gli gridai forte in faccia: “MORIRE!”.
Nel ’69, con un gruppo di amici di San Sperate, ci inventammo una festa, un’occasione per stare tutti insieme e fare baldoria. Per un mese intero addobbammo portali e dipingemmo murales, un’ondata di creatività che sembrava non finire. Decidemmo di chiamarla “La sagra delle pesche” e alla fine non c’era una casa che non fosse aperta, una gara tra rioni e famiglie a chi avesse più pesche e cibo buono da offrire. Per strada non si riusciva a camminare senza che qualcuno non ti invitasse a bere. L’ultima sera, durante un ballo, crollo a terra dalla stanchezza. Un amico si avvicina tutto spaventato e mi dice: “Pinuccio, Pinuccio, cosa possiamo fare, cosa desideri? Aprii gli occhi e gli gridai forte in faccia: “MORIRE!”.
La morte
E’ un bel momento questo per pensare alla morte, ho tre figli che viaggiano per il mondo con la loro testa, ho regalato e venduto emozioni, e se dovesse finire qui, semplicemente, ringrazierei. Ci troviamo su questa terra solo di passaggio e la nostra vita, paragonata al tempo delle pietre, è solo un attimo. Tutti siamo costretti a sparire, e se ognuno imparasse ad amare il proprio tempo vivrebbe meglio. Con meno ansia e più leggerezza. Avere ben chiara la consapevolezza della propria morte, aiuta a vivere meglio. E fa amare il proprio tempo.
E’ un bel momento questo per pensare alla morte, ho tre figli che viaggiano per il mondo con la loro testa, ho regalato e venduto emozioni, e se dovesse finire qui, semplicemente, ringrazierei. Ci troviamo su questa terra solo di passaggio e la nostra vita, paragonata al tempo delle pietre, è solo un attimo. Tutti siamo costretti a sparire, e se ognuno imparasse ad amare il proprio tempo vivrebbe meglio. Con meno ansia e più leggerezza. Avere ben chiara la consapevolezza della propria morte, aiuta a vivere meglio. E fa amare il proprio tempo.
La realtà
Penso che la lettura dei quotidiani sia fondamentale, una fonte inesauribile di idee e di suggestioni. Io sono ancorato alla realtà. La biciclettata che faccio ogni mattina per andare a prendere il cappuccino al bar, è fonte di energia e di pensiero. Amo il rapporto con la gente del paese: chi prima arriva al banco offre a tutti gli altri. E’ una fortuna infinita salutarsi, riconoscersi, scambiare parole. Che senso ha vivere nelle grandi città? Rivolgersi a mala pena qualche parola, vivere perennemente attaccati al telefono. Quante parole si scambia oggi una coppia? In Germania hanno calcolato che in media, durante una cena, ne dicono sette. E quello lo chiamano amore?
Penso che la lettura dei quotidiani sia fondamentale, una fonte inesauribile di idee e di suggestioni. Io sono ancorato alla realtà. La biciclettata che faccio ogni mattina per andare a prendere il cappuccino al bar, è fonte di energia e di pensiero. Amo il rapporto con la gente del paese: chi prima arriva al banco offre a tutti gli altri. E’ una fortuna infinita salutarsi, riconoscersi, scambiare parole. Che senso ha vivere nelle grandi città? Rivolgersi a mala pena qualche parola, vivere perennemente attaccati al telefono. Quante parole si scambia oggi una coppia? In Germania hanno calcolato che in media, durante una cena, ne dicono sette. E quello lo chiamano amore?
La ricchezza
Quando sento la gente che si lamenta, impazzisco. Ma ce l’abbiamo il sole sulla testa o no? E le gambe per camminare? Perché ci lamentiamo sempre se poi continuiamo a sprecare tutto? Non sappiamo più inchinarci, non guardiamo più la terra. All’improvviso siamo diventati troppo alti? La ricchezza è quella che abbiamo sotto ai piedi. E la calpestiamo: tutti i giorni.
Quando sento la gente che si lamenta, impazzisco. Ma ce l’abbiamo il sole sulla testa o no? E le gambe per camminare? Perché ci lamentiamo sempre se poi continuiamo a sprecare tutto? Non sappiamo più inchinarci, non guardiamo più la terra. All’improvviso siamo diventati troppo alti? La ricchezza è quella che abbiamo sotto ai piedi. E la calpestiamo: tutti i giorni.
ascoltare Marco Ongaro
ecco un cantautore bravissimo, ma quasi
sconosciuto, ascoltare le sue canzoni non è tempo perso, almeno per me non lo è
mai – franz
Una recensione di Leon Ravasi
Il
nuovo disco di Marco Ongaro è un buon disco di solido rock e di verace impasto
cantautorale. Uno di quei solidi prodotti medi di cui c’è tanto bisogno, con
alcuni brani che si staccano nettamente dalle media, come la title track. Le
sonorità sono volutamente e in modo ricercato occhieggianti ai sixties, con
grande uso di organo hammond, svisate chitarristiche alla Hendrix, riff alla
Elvis Presley e armoniche alla Neil Young, citazioni tutte quante volute e
dichiarate in quanto tali. La voce di Ongaro è poi la parte più convincente:
scura naturale, arrochita al punto da far pensare a una vita vissuta, ma non
bruciata, è una voce che convince e affascina. Un buon disco.
Insomma
non sarà il caso di gridare ogni volta al miracolo! Qualche volta ci si può
accontentare delle cose fatte bene. E Dio è altrove?, forsse approfittando
della distrazione del Dio in questione, è fatto come Dio comanda. Insomma Dio
non è morto, ma è altrove, o almeno guarda altrove.
Lo
spunto è letterario (Ongaro cita Potocki), ma lo svolgimento è dilaniano. Così
come un po’ tutto il disco occhieggia a Dylan, tra citazioni e tributi
d’autore: l’assolo di “All along the watchtower” in Ligabue, il suono dell’organo così
Like-a-rolling-stoniano (quasi un omaggio ad Al Kooper da parte di Moreno
Piccoli), la voce e la scelta dei temi e lo spirito, disingannato ma non
annichilito, disposto ad ascoltare e a mettersi in discussione, che lo
caratterizza.
Dieci
canzoni che escono dopo un lungo periodo di silenzio da parte di Ongaro: un
silenzio rumoroso, in realtà il suo, perché se è vero che non esce con dischi a
suo nome dal 1995 (Certi sogni non si avverano), è altrettanto vero
che nel 2000 ha composto e prodotto un intero cd per Grazia De Marchi – Lasciatemi vivere –
e nel 2002 è uscito conShakespeariana, una ricca e interessante galleria
di personaggi femminili tratti dalle opere di Shakespeare, interpretata da
Giuliana Bergamaschi e tra le opere più votate all’ultimo Club Tenco. Oltre a
numerose collaborazioni per recital ed eventi teatrali.
Fatto
sta che per vedere uscire un uovo disco a nome Marco Ongaro si è dovuto
attendere la nascita dell’etichetta D’Autore di Edoardo De Angelis. Ongaro
canta molto bene, con una vocalità calda e profonda, capace di dare solennità e
spessore, mentre, musicalmente, la direzione artistica e gli arrangiamenti sono
di Roby Ceruti, che ha buona parte di “responsabilità” in questo ritorno alle
atmosfere dei sixties.
Sotto
questo aspetto il disco è addirittura rigoroso: spartano e vivido, suona forte
come una roccia, senza concessioni alle mode di tendenza, ma con quel tanto di
anacronistico che rende il prodotto gradito alle orecchie più gravate di anni.
Sognare, dormire, forse svegliarsi, Ginevra, Tutto è secondario, assieme alla
già più volte citata Dio è altrove sono i punti più alti del disco, ma il dato
più rilevante è la qualità media che non scende mai sotto il livello di
guardia.
Una recensione di Alessio Lega
“…singolare
sorte per questi due album (Archivio postumia ed Eptalogia), che interamente
arrangiati e registrati, non sono a tutt’oggi stati pubblicati. Per qualcuno è
filtrato il contenuto, dal momento che Ongaro ne ha proposto, dal vivo, le
scalette complete in più d’un occasione; alcuni estimatori dell’artista poi li
posseggono in copie fortunosamente scippate all’autore sotto minaccia di
torture e vessazioni. Rimangono però due opere sospese nel limbo,
incredibilmente, visto che oltre ad essere due dischi di valore artistico assoluto,
sono una chiave di volta fondamentale per capire l’evoluzione di questo
cantautore; mi scuserete quindi se ne parlo, pur consapevole del fatto di
parlare di opere che molto difficilmente potranno in qualche modo arrivare a
chi mi legge, a meno che la Rosso di sera, che le ha prodotte e ne detiene i
diritti, non decida di renderle pubbliche…”.
Così
scrivevo 3 anni fa in un libro cominciato e mai finito, e di cui l’opera di
Marco Ongaro era uno degli oggetti di studio più lungamente approfonditi.
Passatemi questo vezzo iniziale… ma mi sembrava così terribilmente ongariano
iniziare con la citazione di un proprio inedito, che non ho saputo resistere
oggi che finalmente, a quindici anni di distanza dalla loro registrazione, le
due opere vedono la luce.
Un
problema: io conosco questi dischi perfettamente, li ho ascoltati dal vivo, li
posseggo, come dicevo, in copia. Sono convinto che siano complessivamente un
capolavoro, e non è l’impressione dettata dalla scoperta subitanea, dal sorgere
dell’entusiasmo per una novità inaspettata. È piuttosto una convinzione
meditata e perfettamente formata in me, solo che questo atteggiamento poco si
addice al concetto di recensione… però non sono in grado di recensire questo
disco più di quanto sarei in grado di recensire Le nuvole, The Wall o Dias y
flores.
Ecco che dunque, più che recensire, mi proverò a manifestarvi le mie riflessioni su queste due opere raccolte in un solo CD.
Ecco che dunque, più che recensire, mi proverò a manifestarvi le mie riflessioni su queste due opere raccolte in un solo CD.
Iniziamo
dal titolo. Un’archivio dunque, un repertorio: repertorio di personaggi e
situazioni. Ma perché postumia? O meglio perché l’autore sin dalle prime
interviste ha adoperato per se la definizione di “cantautore postumo”?
Tutti
i personaggi di Ongaro sono non vivi, a partire dall’autore, che parla appunto
postumo, come la luce di una stella che ci giunge quando essa è spenta da
chissà quanto, ma non per questo brilla meno. Non confondiamo però il postumo
col morto, Ongaro parla da classico, dunque immortale, perciò fuori dalla
storia. La sua è una riflessione sul sacrificio che la vita fa alla parola per
divenire qualcos’altro. Un qualcos’altro che è Storia, storie o forse solo
avanspettacolo, ma che non è più vita. L’arte, o in fin dei conti la
comunicazione, inizia dopo la vita, appunto, postuma. Questa è l’amarissima
riflessione che nutre l’opera ongariana. Finchè si vive è impossibile
comunicare.
A
noi, posterità vivente, l’autore invia bagliori da chissà quale altrove, da
chissà quale pianeta, segnali di fine corsa, mappe, giornali di bordo. La sua
poetica per questo deve rinunciare a possedere il senso, tutt’al più può
affiancarlo, ci si può confondere senza intrappolarlo; per questo la sua parola
è chiara ma imprecisa, la sua musica è evocativa, ma laddove sembra vertere a
un crescendo viene a mancare.
Il
procedimento compositivo di Marco Ongaro rifugge l’originalità bizzarra, il
passaggio che lascia increduli. La sua cifra è nella perfetta comprensione dei
meccanismi mitici della canzone, quelli fuori dal tempo, per riportare ogni
parola a una casa/trappola, una casa dolce casa incantata e pericolosa, una
casa di bambola risaputa e inquietante.
Questi dischi di Ongaro sono una sorta di casa di Hansel e Gretel, dove si sgranocchierà la dolcezza retrò al gusto di rosolio dei confetti, dei muri di marzapane, ma chissà, vi si potrà anche attendere la trappola di una profondità stregata.
Questi dischi di Ongaro sono una sorta di casa di Hansel e Gretel, dove si sgranocchierà la dolcezza retrò al gusto di rosolio dei confetti, dei muri di marzapane, ma chissà, vi si potrà anche attendere la trappola di una profondità stregata.
Tutte
le canzoni di questo CD appaiano frammentarie, come pezzi di un puzzle fra i
relitti di un naufragio, che galleggiano suggerendo l’idea di un antica visione
d’insieme irrimediabilmente perduta. Tutti i punti di vista proposti non
trovano l’unità di fini, pur in qualche modo suggerita, Marco Ongaro sembra
anzi compiacersi del binomio chiarezza/mistero che propone continuamente in
questa tappa d’arrivo del suo stile ironico e swingante, in seguito abbandonato
per il Rock di Dio è altrove e di Esplosioni nucleari a Los
Alamos.
Tappa d’arrivo, dicevamo, ma anche mappatura di una crisi: non una crisi creativa ovviamente, le canzoni sono molto belle, ma il loro risolversi nel giro di pochissimi versi, il loro fare quasi sempre riferimento a topos letterari consolidati (a volte precisi: Lolita, Landru; a volte generici: La signora Russa), pone falsi paletti in una sabbia mobile di informazioni, fa intravedere un’uscita che non esiste, promette una comprensibilità che non arriverà.
Emblematica la politicamente scorretta e avarissima di parole Lolita:
Tappa d’arrivo, dicevamo, ma anche mappatura di una crisi: non una crisi creativa ovviamente, le canzoni sono molto belle, ma il loro risolversi nel giro di pochissimi versi, il loro fare quasi sempre riferimento a topos letterari consolidati (a volte precisi: Lolita, Landru; a volte generici: La signora Russa), pone falsi paletti in una sabbia mobile di informazioni, fa intravedere un’uscita che non esiste, promette una comprensibilità che non arriverà.
Emblematica la politicamente scorretta e avarissima di parole Lolita:
Forse c’è un bambino in me / ed è lui che ama te.
Ma se c’è un bambino in me / certo è lui che ama te (sempre se c’è!).
Lolita / finisci la tua pasta al burro
Lolita / quel telefono è un po’ troppo azzurro, mettilo giù
Se mi prometti, mi prometti che non lo farai più
Io ti prometto, ti prometto che non lo farò più.
Ma se c’è un bambino in me / certo è lui che ama te (sempre se c’è!).
Lolita / finisci la tua pasta al burro
Lolita / quel telefono è un po’ troppo azzurro, mettilo giù
Se mi prometti, mi prometti che non lo farai più
Io ti prometto, ti prometto che non lo farò più.
nell’affrontare
uno dei temi più scottanti e repressi della sessualità ecco che Ongaro non
cerca la deflagrante sfida e passione della stupenda canzone di Léo Ferré Petite (Allora
tu non mi andrai / perchè sotto la gonna non avrai più / il codice penale),
sussurra piuttosto all’orecchio turbato dell’ascoltatore una tenerezza
incoffessabile e affida ogni commento alla melodia che, retta dal sax e scossa
dal contrabasso, si avvolge come un serpente sulle parole, e rabbrividisce
strascicando la voce su quell’ineffabile e torbidissima pasta al burro (si
suppone proveniente dallo stesso panetto usato da Brando in Ultimo tango a Parigi).
Arrangiato
in maniera talvolta trionfalisticamente fastidiosa Eptalogia, pur
meno unitario di Archivio, contiene brani stupendi, a partire dal
primo Demian, di derivazione Herman Hessiana, questo personaggio rappresenta lo
struggimento senza fine della memoria dell’antica amicizia, di un alleanza
perduta.
Il sosia è un altro dei brani chiave del disco per il gioco di sovrapposizioni multiple, per la schizofrenia evidente del tema, per la bella invenzione che ricorda il famosissimo doppio perverso inventato da Gainsbourg nei suoi ultimi anni (Gainsbarre).
Il sosia è un altro dei brani chiave del disco per il gioco di sovrapposizioni multiple, per la schizofrenia evidente del tema, per la bella invenzione che ricorda il famosissimo doppio perverso inventato da Gainsbourg nei suoi ultimi anni (Gainsbarre).
Sospesi
così perfettamente, come fra le pagine mancanti di una rivista, questi pezzi
rappresentano l’esito ultimo del gioco di rimandi e travestimenti iniziato
dall’autore col suo primo disco AI: Ongaro è partito facendo canzoni che
sembravano le Songs di un musical di cui non conoscevamo trama e dialoghi, ma a
cui eravamo richiamati dai luoghi comuni, dagli spazi stabiliti per tacito
accordi fra ascoltatore e narratore.
In questi due dischi però quel Musical è diventato la vita stessa, le paillettes si sono sbiadite e i confini fra vita e cultura, fra futuro e passato son diventati inestricabili.
Nella straordinaria L’hai voluto tu la crisi della coppia è tutta sancita da giochi con le (e non di) parole che si affiancano e si contraddicono, che restano le stesse per dire l’opposto:
In questi due dischi però quel Musical è diventato la vita stessa, le paillettes si sono sbiadite e i confini fra vita e cultura, fra futuro e passato son diventati inestricabili.
Nella straordinaria L’hai voluto tu la crisi della coppia è tutta sancita da giochi con le (e non di) parole che si affiancano e si contraddicono, che restano le stesse per dire l’opposto:
Tu mi parlavi / io non capivo
probabilmente ti tradivo / poi te l’ho detto
che ti ho tradito / mi hai perdonato
mi son pentito
probabilmente ti tradivo / poi te l’ho detto
che ti ho tradito / mi hai perdonato
mi son pentito
specularmente,
nella seconda strofa rimane quasi tutto uguale, cambiando completamente il
significato:
poi me l’hai detto / che mi hai tradito
ti ho perdonato / mi son pentito.
ti ho perdonato / mi son pentito.
Cioè:
mi son pentito d’averti perdonato, quando la prima volta il tuo perdono m’aveva
fatto pentire d’averti tradito!
La conclusione della canzone scivola su una doppia citazione, anch’essa speculare, di due autori speculari e leggendari (che fra l’altro, racconta la leggenda, un giorno litigarono per una stessa donna):
La conclusione della canzone scivola su una doppia citazione, anch’essa speculare, di due autori speculari e leggendari (che fra l’altro, racconta la leggenda, un giorno litigarono per una stessa donna):
mi lascerai / non che non ti lascerò
io si, io si / tu no, tu no.
io si, io si / tu no, tu no.
la
prima (Io si) è una
canzone di Tenco, la seconda (Tu no) è una canzone di Piero Ciampi.
A
giocare troppo col fuoco delle parole si rischia però di rimanere
bruciati…raschiato il fondo del barile della comunicazione può cominciare
l’afasia. Forse per questo l’autore trattò con le pinze questo materiale,
lasciandolo alla fuggevole attenzione di qualche concerto, ma non premendo
troppo per farlo pubblicare, annunciandolo postumo sin dal titolo.
Ongaro aveva intuito di aver toccato il fondo e che la risalita non sarebbe stata cosa facile: il suo linguaggio ha poi dovuto necessariamente riverginarsi attraverso la purezza popolare di Lasciatemi vivere. Ma per questo sarebbe dovuta passare una nottata di quasi dieci anni (giusto interrotta da quella sorta di autoantologia che fu Certi sogni non si avverano).
Ongaro aveva intuito di aver toccato il fondo e che la risalita non sarebbe stata cosa facile: il suo linguaggio ha poi dovuto necessariamente riverginarsi attraverso la purezza popolare di Lasciatemi vivere. Ma per questo sarebbe dovuta passare una nottata di quasi dieci anni (giusto interrotta da quella sorta di autoantologia che fu Certi sogni non si avverano).
Oggi
una delle più belle opere della canzone italiana, una delle più profonde
riflessioni sul suo linguaggio, è finalmente disponibile. Come dissero Cafiero
e Malatesta ai contadini del Matese: “I forconi li avete, i coltelli ve li
abbiamo dati, se volete fate, se no vi fottete”.
Un’intervista di Giorgio
Maimone
Marco
Ongaro ha un viso schietto e sincero, di quelli che fanno subito simpatia e
ispirano fiducia. E una bella stretta di mano salda. È vero che questo non
basta, soprattutto in campo musicale, ma aiuta molto. È una persona con cui si
può parlare della “sensualità dei cibi” e di “piatti di assoluta
autorevolezza”. Se poi aggiungiamo che queste caratteristiche si traducono in
un modo di far musica altrettanto schietto, abbiamo il disegno a tutto tondo di
un cantautore anomalo, un cantautore “su commissione” come ama definirsi, in
questa chiacchierata tutta vissuta con un sorriso sotto i (reciproci) baffi.
“Lavoro
su commissione, sì. Come stimolo, scrivere per qualcuno che ti ordina una cosa
è intrigante. È quasi uno spunto rinascimentale. Non mi sento pittore ma
pennello e tavolozza. Se scrivo per Grazia De Marchi scrivo cose mie che
parlano di lei. L’idea di “Shakespeariana”, invece me l’ha data il regista
Paolo Valerio che più di me aveva .in testa Shakespeare. Cleo, l’ultima
canzone, l’ho scritta a luglio dello scorso anno e prima di partire mi telefona
questo chitarrista di Verona, Roberto Cerutti. Mi chiama e mi fa: “Senti io
vorrei farti fare un disco. La formazione è questa: chitarra, basso, batteria,
organo hammond. Il gruppo si chiama La Scorta”. Benissimo – gli ho detto –
troviamo una cantante e io ti scrivo le canzoni. E lui mi ha detto voglio: “No,
io voglio la tua voce “rovinata”. Queste esatte parole. E li mi ha convinto.
Lui voleva la mia voce “rovinata”, quindi mi sono sentito tranquillo sul
tornare a cantare. Ma ho scritto “Dio è altrove” come se fossi un autore. Ho
scritto per “quella formazione” e per “questa voce”. Ero di nuovo un autore.Non
un cantautore. Poi io sono la voce della Scorta…..”
È un caso?
“Non è proprio un caso, ma è un approccio differente. Una sfumatura”.
“Non è proprio un caso, ma è un approccio differente. Una sfumatura”.
Ma sei tu nelle cose che
scrivi.
“Sì sono io, ma mi piace la sfida. Esistono dei margini di sfida. È quello che mi piace. Il fatto che ci siano dei limiti. Il fatto che debba scrivere qualcosa su quello che Shakespeare ha già scritto. O su un episodio della vita della De Marchi. O sull’ecologia. Tra 10 anni non ci sarà più acqua sul pianeta. Io svolgo il tema, li c’è la sfida”.
“Sì sono io, ma mi piace la sfida. Esistono dei margini di sfida. È quello che mi piace. Il fatto che ci siano dei limiti. Il fatto che debba scrivere qualcosa su quello che Shakespeare ha già scritto. O su un episodio della vita della De Marchi. O sull’ecologia. Tra 10 anni non ci sarà più acqua sul pianeta. Io svolgo il tema, li c’è la sfida”.
Come se fossi un giornalista?
“Ho dei limiti. Mi piace aver dei limiti. Poter vincere la sfida all’interno di quei limiti è la sfida, quello mi stimola. Quando mi propongono un nuovo lavoro, come primo impulso dico no. Poi torno a casa e l’ho già scritta. Così funziona”.
“Ho dei limiti. Mi piace aver dei limiti. Poter vincere la sfida all’interno di quei limiti è la sfida, quello mi stimola. Quando mi propongono un nuovo lavoro, come primo impulso dico no. Poi torno a casa e l’ho già scritta. Così funziona”.
E, a parte tutto, quando scrivi
sei un autore molto prolifico.
“Questo disco nuovo ha questa nascita su commissione ma devi sapere che c’è già pronto un nuovo lavoro con Grazia de Marchi, che ho scritto lo scorso luglio e in agosto me n’è stato commissionato un altro, simile a Dio è altrove, su tema ecologico, sempre dallo stesso chitarrista della Scorta. Ho scritto 16 brani per Grazia e 13 per lui, perché quando mi si chiede qualcosa io sono febbrile. Altrimenti il pianoforte resta chiuso, la chitarra nella custodia.
“Questo disco nuovo ha questa nascita su commissione ma devi sapere che c’è già pronto un nuovo lavoro con Grazia de Marchi, che ho scritto lo scorso luglio e in agosto me n’è stato commissionato un altro, simile a Dio è altrove, su tema ecologico, sempre dallo stesso chitarrista della Scorta. Ho scritto 16 brani per Grazia e 13 per lui, perché quando mi si chiede qualcosa io sono febbrile. Altrimenti il pianoforte resta chiuso, la chitarra nella custodia.
Ne esce fuori un mosaico a
molte facce, ma quali sono le musiche di Marco Ongaro?
“Se compongo alla chitarra è impossibile che non esca Dylan. Se compongo al pianoforte ecco Paolo Conte. Se scrivo per la De Marchi mi ritrovo tra il De Andrè e il Branduardi. Sono forse l’ultimo in grado di definire il mio stile vocale; credo di avere varie sedimentazioni che vengono fuori a seconda delle occasioni. Il motivo per cui mi piace fare l’autore è che non devo pormi problemi di questo tipo. Devo pormi il problema di far cantare gli altri”.
“Se compongo alla chitarra è impossibile che non esca Dylan. Se compongo al pianoforte ecco Paolo Conte. Se scrivo per la De Marchi mi ritrovo tra il De Andrè e il Branduardi. Sono forse l’ultimo in grado di definire il mio stile vocale; credo di avere varie sedimentazioni che vengono fuori a seconda delle occasioni. Il motivo per cui mi piace fare l’autore è che non devo pormi problemi di questo tipo. Devo pormi il problema di far cantare gli altri”.
Ti piace il tuo nuovo disco?
“Sì, mi piace, riconoscendo anche quello che non sono io di quel disco. Il lavoro che ho fatto su commissione mi piace. Sono io nei testi e nelle musiche; negli arrangiamenti non sono io, mai. Però ne sono contento: ero appena reduce da “Shakespeariana” in cui, sotto questo aspetto, ho sofferto moltissimo. Incidere un quartetto d’archi con quattro archi che non si sono mai incontrati tra loro è stata un esperienza terribile. Ci sono musicisti che non si sono mai conosciuti in quel disco e che suonano nella stessa canzone!”
“Sì, mi piace, riconoscendo anche quello che non sono io di quel disco. Il lavoro che ho fatto su commissione mi piace. Sono io nei testi e nelle musiche; negli arrangiamenti non sono io, mai. Però ne sono contento: ero appena reduce da “Shakespeariana” in cui, sotto questo aspetto, ho sofferto moltissimo. Incidere un quartetto d’archi con quattro archi che non si sono mai incontrati tra loro è stata un esperienza terribile. Ci sono musicisti che non si sono mai conosciuti in quel disco e che suonano nella stessa canzone!”
“Dio è altrove” è tutta
un’altra cosa. A parte che in certi momenti suona come se fosse in presa
diretta. Addirittura in certi momenti ti dà l’idea del work in progress, di
qualcosa non rifinita, interrotta a un certo punto. Sbozzata, ma non ultimata,
ma forse questo è un po’ nel tuo stile. E lo dico come pregio del lavoro, sia
ben chiaro, non come critica.
“Dio è altrove”, la canzone, a parte il fatto che è ovvio che per me è perfetta così (sorride mentre si brinda con un bicchiere di Ripasso dal titanico splendore), aveva lo spunto più che altro nell’emozione. Questa sorta di eresia nel fatto che Dio se ne sia andato altrove. L’inizio è una storia ebraica di un rabbino in Polonia che nella sua sinagoga trova Dio seduto. “Signore cosa fai qui? Gli chiede. “Non ti immagini quanto io sia stanco”.Il concetto dell’eresia è che Dio sia andato in un luogo così disperso dell’universo in modo da non sentire niente di quello che succede qui e che i messaggeri ci mettano così tanto ad arrivare e a riportare le notizie che qualcosa sarebbe inevitabilmente cambiato nel frattempo, ma lui non se ne preoccupa più.
“Dio è altrove”, la canzone, a parte il fatto che è ovvio che per me è perfetta così (sorride mentre si brinda con un bicchiere di Ripasso dal titanico splendore), aveva lo spunto più che altro nell’emozione. Questa sorta di eresia nel fatto che Dio se ne sia andato altrove. L’inizio è una storia ebraica di un rabbino in Polonia che nella sua sinagoga trova Dio seduto. “Signore cosa fai qui? Gli chiede. “Non ti immagini quanto io sia stanco”.Il concetto dell’eresia è che Dio sia andato in un luogo così disperso dell’universo in modo da non sentire niente di quello che succede qui e che i messaggeri ci mettano così tanto ad arrivare e a riportare le notizie che qualcosa sarebbe inevitabilmente cambiato nel frattempo, ma lui non se ne preoccupa più.
E la “title track” è infatti il
brano più di presa di tutto il disco,
“Ho imparato dopo molti anni ad aprire il disco con un pezzo “forte”.
Il motivo dei ringraziamenti del disco ha a che fare proprio con la scrittura in quel mese. Sono passato prima da Lecce dove c’era Max Manfredi, mi sono fermato a casa di Alessio Lega, abbiamo suonato per tre giorni poi sono andato in Calabria, sono arrivato caricatissimo. La prima canzone che ho scritto è stata Il Conte Max da Genova”
“Ho imparato dopo molti anni ad aprire il disco con un pezzo “forte”.
Il motivo dei ringraziamenti del disco ha a che fare proprio con la scrittura in quel mese. Sono passato prima da Lecce dove c’era Max Manfredi, mi sono fermato a casa di Alessio Lega, abbiamo suonato per tre giorni poi sono andato in Calabria, sono arrivato caricatissimo. La prima canzone che ho scritto è stata Il Conte Max da Genova”
Quello con le dita
insanguinate…
“Esatto. Gandalf Foschini è chi mi trascrive le musiche perché io possa depositarle in SIAE, Ferdinando Dolfo è l’autore del primo progetto di copertina (bocciato). George Steiner ha scritto “Morte della tragedia” che stavo leggendo in quel mese, il libro in cui si parla dell’eresia del Dio che è altrove. Nicola Nicolis è un cantautore veronese decano, “nonno” lo chiamano, che mi ha prestato il libro “Morte della tragedia”. Iole e Gaetano Mazzone mi hanno ospitato in Calabria. Poi c’è mio fratello: il fratello del cantautore come ha detto Micocci. Mi fa: “Tu come campi?” “Ho un fratello che mi aiuta”. “Il fratello del cantautore! Anche Tenco ne aveva uno!”. Ora fa il fotolito e mi prepara tutti gli impianti delle copertine.
“Esatto. Gandalf Foschini è chi mi trascrive le musiche perché io possa depositarle in SIAE, Ferdinando Dolfo è l’autore del primo progetto di copertina (bocciato). George Steiner ha scritto “Morte della tragedia” che stavo leggendo in quel mese, il libro in cui si parla dell’eresia del Dio che è altrove. Nicola Nicolis è un cantautore veronese decano, “nonno” lo chiamano, che mi ha prestato il libro “Morte della tragedia”. Iole e Gaetano Mazzone mi hanno ospitato in Calabria. Poi c’è mio fratello: il fratello del cantautore come ha detto Micocci. Mi fa: “Tu come campi?” “Ho un fratello che mi aiuta”. “Il fratello del cantautore! Anche Tenco ne aveva uno!”. Ora fa il fotolito e mi prepara tutti gli impianti delle copertine.
Quindi ora sei soprattutto un
autore. Ma nei primi dischi ti sentivi cantautore?
“Sì, li scrivevo senza un progetto. Apparentemente le cose che mi venivano fuori da sole. Vado al Tenco nell’82 ottengo un discreto successo. Il fatto è che il Tenco allora aveva un paio di giornali che scrivevano sulla manifestazione. Soprattutto la prima sera. Poi mi sono reso conto che effettivamente la discografia non era aperta a nuovi dischi di cantautori emergenti. Lucio Quarantotto ha vinto nell’84 e poi fino all’87 non è esistita una targa per opera prima. Perché non esistevano opera prime! Però c’era questa dance-music, disco-music. Anni ’82-83. Mi ricordo che anche qui è partito tutto con una commissione (eccoci che ci risiamo con le commissioni). Il tizio che me l’ha commissionata mi ha dato una cassetta e mi ha detto “Tu sapresti fare un brano come questo”. Era un brano dei Twins, un gruppo tedesco. Dopo un’ora gliel’ho consegnata la canzone. Arrangiata in modo identico. Ma la mia era più bella e cercava di dire cose intelligenti. E così è nato il mio alter-ego: O’gar, l’autore di disco-music. Ma cercavo comunque di dire cose intelligenti. Per questo poi O’gar è morto a Parigi nell’86. Per quanto cercasse di dire cose intelligenti le diceva in inglese a gente che l’inglese non capiva. Ha avuto successo in Spagna!
“Sì, li scrivevo senza un progetto. Apparentemente le cose che mi venivano fuori da sole. Vado al Tenco nell’82 ottengo un discreto successo. Il fatto è che il Tenco allora aveva un paio di giornali che scrivevano sulla manifestazione. Soprattutto la prima sera. Poi mi sono reso conto che effettivamente la discografia non era aperta a nuovi dischi di cantautori emergenti. Lucio Quarantotto ha vinto nell’84 e poi fino all’87 non è esistita una targa per opera prima. Perché non esistevano opera prime! Però c’era questa dance-music, disco-music. Anni ’82-83. Mi ricordo che anche qui è partito tutto con una commissione (eccoci che ci risiamo con le commissioni). Il tizio che me l’ha commissionata mi ha dato una cassetta e mi ha detto “Tu sapresti fare un brano come questo”. Era un brano dei Twins, un gruppo tedesco. Dopo un’ora gliel’ho consegnata la canzone. Arrangiata in modo identico. Ma la mia era più bella e cercava di dire cose intelligenti. E così è nato il mio alter-ego: O’gar, l’autore di disco-music. Ma cercavo comunque di dire cose intelligenti. Per questo poi O’gar è morto a Parigi nell’86. Per quanto cercasse di dire cose intelligenti le diceva in inglese a gente che l’inglese non capiva. Ha avuto successo in Spagna!
E a quel punto sei partito coi
dischi a tuo nome.
“Sì, il primo disco è dell’87. Che ho dovuto forzare, perché ancora c’era questo blocco ai nuovi cantautori. Figurano tutti nei ringraziamenti del primo disco; tutti quelli che non mi hanno preso. Vincenzo Micocci, Lilli Greco, Sandro Colombini … Per cui ho detto a Venturiero che prima era il mio agente che cercava di procurarmi una casa discografica e che nel frattempo aveva fondato una sua etichetta, di farmi fare il disco. Venturiero era rimasto fuori alla mia esperienza di O’gar che sarebbe stata l’unica avventura in comune che gli avrebbe fruttato dei soldi in tutta la nostra carriera unità. Con me ci ha solo rimesso. Però è un collezionista privato. È una questione affettiva. Lui deve avere tutto quello che faccio. È una questione maniacale. Del primo disco mi ha detto: “Di questo disco non verrà mai trasmessa una canzone in nessuna radio” E il giorno stesso l’ha pubblicato. Se non è collezionismo questo!”
“Sì, il primo disco è dell’87. Che ho dovuto forzare, perché ancora c’era questo blocco ai nuovi cantautori. Figurano tutti nei ringraziamenti del primo disco; tutti quelli che non mi hanno preso. Vincenzo Micocci, Lilli Greco, Sandro Colombini … Per cui ho detto a Venturiero che prima era il mio agente che cercava di procurarmi una casa discografica e che nel frattempo aveva fondato una sua etichetta, di farmi fare il disco. Venturiero era rimasto fuori alla mia esperienza di O’gar che sarebbe stata l’unica avventura in comune che gli avrebbe fruttato dei soldi in tutta la nostra carriera unità. Con me ci ha solo rimesso. Però è un collezionista privato. È una questione affettiva. Lui deve avere tutto quello che faccio. È una questione maniacale. Del primo disco mi ha detto: “Di questo disco non verrà mai trasmessa una canzone in nessuna radio” E il giorno stesso l’ha pubblicato. Se non è collezionismo questo!”
Ma dopo l’esordio più o meno
faticato ci sono stati i sette anni di silenzio. Perché?
“Nel ’90 a fatica, quando cominciavano di nuovo ad uscire i cantautori, con lentezza terribile siamo riusciti a buttar fuori “Sono bello dentro”. Che è coinciso con l’incisione del Vino di Ciampi al Teatro Argentina, forse il massimo successo che abbia avuto. Da lì ho inciso “Archivio Postumia” nello stesso anno, con un gruppo, ed è l’unico disco che ho arrangiato completamente io.
Nel ’91 “Eptalogia” che è un altro progetto che avevo in mente. E la Rosso di Sera non li ha pubblicati. “Archivio Postumia” lo sapevo che non sarebbe potuto essere pubblicato prima di 10 anni. Per questo gli ho dato quel titolo. Suona ’90, ma con strumenti non datati. Poi ho fondato un gruppo: Le vittime del sesso, una rock-band con cui ho girato un paio di mesi. A quel punto non avevo più voglia neanch’io di pubblicare “Eptalogia” che era di stampo più jazzistico. Nel ’95 finalmente riesco ad uscire con il disco successivo: “Certi sogni non si avverano” ma a quel punto ero stufo dell’ambiente e mi sembrava un modo di concludere perfetto. Esce il disco e io invece di promuoverlo mi ritiro, altra prova di affetto del mio editore”.
“Nel ’90 a fatica, quando cominciavano di nuovo ad uscire i cantautori, con lentezza terribile siamo riusciti a buttar fuori “Sono bello dentro”. Che è coinciso con l’incisione del Vino di Ciampi al Teatro Argentina, forse il massimo successo che abbia avuto. Da lì ho inciso “Archivio Postumia” nello stesso anno, con un gruppo, ed è l’unico disco che ho arrangiato completamente io.
Nel ’91 “Eptalogia” che è un altro progetto che avevo in mente. E la Rosso di Sera non li ha pubblicati. “Archivio Postumia” lo sapevo che non sarebbe potuto essere pubblicato prima di 10 anni. Per questo gli ho dato quel titolo. Suona ’90, ma con strumenti non datati. Poi ho fondato un gruppo: Le vittime del sesso, una rock-band con cui ho girato un paio di mesi. A quel punto non avevo più voglia neanch’io di pubblicare “Eptalogia” che era di stampo più jazzistico. Nel ’95 finalmente riesco ad uscire con il disco successivo: “Certi sogni non si avverano” ma a quel punto ero stufo dell’ambiente e mi sembrava un modo di concludere perfetto. Esce il disco e io invece di promuoverlo mi ritiro, altra prova di affetto del mio editore”.
Ma gradatamente, a forza di
dischi su commissione, sei tornato.
“Questo disco è più rock dei precedenti perché mi è stato commissionato da un chitarrista rock. Ha una fender del ’68 in casa! Mentre Luca Olivieri ha vinto a Memphis la gara per i migliori Elvis”.
“Questo disco è più rock dei precedenti perché mi è stato commissionato da un chitarrista rock. Ha una fender del ’68 in casa! Mentre Luca Olivieri ha vinto a Memphis la gara per i migliori Elvis”.
Si respira un aria vintage tra
i solchi del tuo disco
“Ce l’hanno detto. L’arrangiatore fa a Cerutti: “Hai fatto bene a stare fermo trent’anni perché adesso sei tornato di moda!”. I ragazzi cresciuti coi suoni di plastica non li sopportano più e adesso riscoprono la chitarra di Hendrix.
“Ce l’hanno detto. L’arrangiatore fa a Cerutti: “Hai fatto bene a stare fermo trent’anni perché adesso sei tornato di moda!”. I ragazzi cresciuti coi suoni di plastica non li sopportano più e adesso riscoprono la chitarra di Hendrix.
Ogni disco una storia, completamente
diversa.
“E paradossalmente abbiamo cercato di allontanarci dai riferimenti . Ma Dio è altrove suona come Like a Rolling Stone. La chitarra e l’hammond fanno lo stesso gioco. Così come Ginevra richiama Neil Young e così abbiamo inserito l’armonica a bocca, perché non ci nascondiamo. Lo facciamo proprio così, come deve essere il riferimento. È un disco ricco anche di citazioni italiane. L’assolo in mezzo a L’infermiere è degno di Solieri, il chitarrista di Vasco Rossi. Una canzone che ho scritto la De Marchi, Colombo, diceva: “ho passato metà della mia vita a cercare di non somigliare”, ma è quasi impossibile. Se non somigli a uno somigli all’altro. L’importante è rivendicarlo, non nasconderlo.
“E paradossalmente abbiamo cercato di allontanarci dai riferimenti . Ma Dio è altrove suona come Like a Rolling Stone. La chitarra e l’hammond fanno lo stesso gioco. Così come Ginevra richiama Neil Young e così abbiamo inserito l’armonica a bocca, perché non ci nascondiamo. Lo facciamo proprio così, come deve essere il riferimento. È un disco ricco anche di citazioni italiane. L’assolo in mezzo a L’infermiere è degno di Solieri, il chitarrista di Vasco Rossi. Una canzone che ho scritto la De Marchi, Colombo, diceva: “ho passato metà della mia vita a cercare di non somigliare”, ma è quasi impossibile. Se non somigli a uno somigli all’altro. L’importante è rivendicarlo, non nasconderlo.
qui una pagina su Marco Ongaro
qui il
suo sito
Iscriviti a:
Post (Atom)