La ‘didattica per competenze’ non ha alcun fondamento teorico, scientifico,
epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata
da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi
formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla
creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per
questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a
definire capitalista: una pedagogia che si fonda sulla
naturalizzazione di questa nuova ontologia imprenditoriale, immanente e
contingente. Sdradicate dalla scuola e dalla società, storia, memoria,
ermeneutica, interpretazione vengono spazzate via dall’orizzonte mentale delle
nuove generazioni. In questa “confortevole, levigata, ragionevole, democratica
non libertà” non sono più possibili processi di soggettivizzazione che non
siano adattivi al mercato del lavoro e, in quanto tali, spietatamente selettivi
e mortiferi. Possono le istituzioni politiche, che sull’istruzione si
muovono di concerto con organizzazioni economiche internazionali, sostituirsi
alla scienza e imporre processi di formazione e di valutazione, modalità di
insegnamento/apprendimento, prassi didattiche standardizzate su scala nazionale
e sovranazionale, addirittura una nuova teoria della conoscenza? E noi, noi
docenti, della scuola e dell’università, possiamo accettare senza reagire
l’imposizione autoritaria di un paradigma indimostrato, ma di cui è dimostrata
la funzionalità economicistica, l’imposizione di dispositivi ideologici che
impongono un regime veritativo che mina alle fondamenta la nostra libertà di
insegnamento, la libertà di apprendimento dei nostri studenti, e che,
soprattutto, pone una drammatica ipoteca sul mondo?
Sono un’insegnante di lingua e letteratura, dunque permettetemi di partire
con una citazione letteraria, tratta dal romanzo di Lewis Carroll “Alice
attraverso lo specchio”:
“Non capisco che cosa lei voglia dire con ‘gloria’” disse Alice. Coccobello
sorrise sprezzante:
“Naturale che non puoi capirlo finché non te lo spiego. Volevo dire: ‘ecco
un argomento che taglia la testa al toro’”
“Ma ‘gloria’ non significa ‘un argomento che taglia la testa al toro’” fece
osservare Alice
“Quando io mi servo di una parola” rispose con tono piuttosto sprezzante
Coccobello “quella parola significa quello che pare e piace a me, né più né
meno”
“Il problema è” insisté Alice “ se lei può dare alla parola dei significati
così differenti”
“Il problema è” tagliò corto Coccobello “chi è il PADRONE? Ecco tutto.”
Mi pare
che questo dialogo fotografi piuttosto bene una situazione storicamente
ricorrente: i rapporti di potere che si instaurano tra chi possiede –
gestendola – e chi utilizza – spesso subendola – la lingua e i suoi significati
così come essi si radicano e si diffondono nel senso comune. Tra chi esercita
l’egemonia linguistica (coniando nuove parole d’ordine, manomettendo
significati consolidati dei termini, trasferendo lemmi da ambiti diversi con
valori semantici nuovi) e chi ne è fruitore passivo, perché inconsapevole,
perché distratto, perché manipolato dall’informazione o, non di rado, da una
ricerca scientifica e da un’accademia condizionate da interessi economici o
omologate da spinte culturali, dunque politiche, acriticamente accettate.
Questo,
a mio avviso, è esattamente ciò che è accaduto e sta ancora accadendo con la
diffusione nel mondo della scuola, sotto il profilo della riflessione teorica
ma anche della gestione, del governo delle pratiche didattiche, del termine
‘competenze’ e della ‘didattica per competenze’: ovvero, la risemantizzazione
in chiave pedagogica (e vedremo nel prosieguo del mio ragionamento di quale
pedagogia si tratti) di una parola d’importazione, fatta oggetto di una
risignificazione eteronoma rispetto al suo significato originale e
pervasivamente imposta a milioni tra insegnanti e studenti con una finalità del
tutto estranea alla tradizionale dimensione formativa educativa che in
Occidente si attribuisce ai processi di insegnamento/apprendimento secondo i
modelli dell’eredità classica configurati dal principio socratico e dalla
paideia.
Un
cambio di paradigma epocale, dunque, che, voglio dirlo subito, si fonda non
solo su un processo top down di progressiva modifica dall’alto
delle condizioni e delle prestazioni del nostro lavoro in classe (attraverso le
leggi di riforma, le loro norme applicative, le circolari ministeriali, le
pressioni dei dirigenti scolastici e dei responsabili dei dipartimenti,
finanche dei colleghi più solerti, con l’introduzione coatta dei test di
misurazione e dei certificati di valutazione delle competenze, fino all’ultima
modifica degli esami di Stato al termine del primo e del secondo ciclo della
scuola secondaria che va radicalmente in questa direzione) ma anche e
soprattutto attraverso un processo bottom up di capillare e
pervasiva diffusione dal basso del termine ‘competenze’ e delle pratiche
didattiche, psicologiche e pedagogiche ad esso collegate, teso a indurre una
vera e propria autoregolazione delle condotte, degli insegnanti e degli
studenti. Un processo di colonizzazione biopolitica che mira ad una spontanea
conformazione acritica delle condotte dei comportamenti verso
le forme, le pratiche previste dal sistema e dai nuovi paradigmi pedagogici
cui, purtroppo, quotidianamente assistiamo in tante, troppe scuole.
Se è
vero, come notava Gramsci, che ogni questione della lingua pone un più ampio
problema politico, ovvero un problema di egemonia e dominio sociale, dobbiamo
comprendere fino in fondo perché e come il termine ‘competenze’ non sia affatto
neutro e non ideologico, da quali ambiti disciplinari extrascolastici giunga,
da chi e perché sia stato importato nel mondo della scuola e imposto con una
tenacia, un’insistenza e, oserei dire, con una violenza pari, nella nostra
storia, solo alle imposizioni culturali e politiche, alle leggi messe in atto
nella società e nella scuola dal regime fascista nel ventennio tra le due
guerre. Arrivando, e qui mi spingo ancora oltre nella mia provocazione, a
intaccare gli anticorpi democratici della nostra Costituzione, che, non a caso,
dichiara con forza all’articolo 33 che ‘l’arte e la scienza sono libere e
libero ne è l’insegnamento’. Sottolineo, ‘l’arte e la scienza sono libere e
libero ne è l’insegnamento’.
Ma è
ancora così? Siamo ancora liberi di insegnare quelli che Franco Fortini, in una
straordinaria antologia per il biennio degli istituti tecnici del 1969,
chiamava ‘gli argomenti umani’? Siamo ancora liberi di procedere, lentamente e
gradualmente, con i necessari tempi lunghi, insieme ai nostri studenti, in
percorsi di conoscenza condivisi, significativi, formativi sul piano della
riflessione, del ragionamento e dell’analisi di noi stessi e del mondo? Siamo
ancora liberi di pensare in modo ‘disinteressato’, senza il giogo
dell’utilitarismo, della spendibilità, della trasferibilità, del ricatto di un
mercato del lavoro che inganna i nostri studenti due volte: quando impone a
scuola una formazione al lavoro che spesso è fasulla e che però sempre li
depriva del diritto allo studio, e quando nasconde che la repentinità dei suoi
cambiamenti richiederebbe, esattamente al contrario di quanto accade, una
formazione assai più astratta e speculativa, assai più tarata su quei saperi logici
e filosofico-critici che proprio la dimensione teorica delle discipline –
letterarie, artistiche e scientifiche – permette di attivare e stimolare.
Conoscenze ampie, non competenze minimalistiche. Dimensione simbolica, non
concretismo. Percorsi di astrazione, non compiti di realtà, dove poi la realtà
nel cui recinto si pretende di chiudere i nostri studenti è sempre quella
economica, produttivistica e consumistica: è quella che ci vuole tutti
‘soggetti di prestazione’, attraverso le forme di un disciplinamento in cui
ciascuno di noi sfrutta sé stesso perché chiamato ad essere imprenditore di sé
stesso, trasformandosi in soggetto d’obbedienza.
Siamo
ancora liberi di immaginare una scuola umanistica, nel senso etimologico del
termine e quindi senza distinzione tra le due culture, in cui il profitto, in
termini culturali e economici, non abbia diritto di cittadinanza, in cui non ci
siano contabilità di debiti e crediti, in cui gli studenti prima ancora che
come lavoratori, prima ancora che come cittadini, siano considerati persone,
una scuola in cui si possa insegnare e imparare a vivere, come diceva Spinoza,
“una vita propriamente umana”?
Perché
dico questo? Perché, a mio avviso, lo spostamento forzoso del baricentro delle attività
didattiche verso il concetto di ‘competenza’ sta mettendo profondamente in
discussione una certa idea di scuola, una buona idea di scuola, ancorché antica
o forse proprio perché antica, cancellandola per sempre. E con conseguenze, a
mio avviso, devastanti, per ciascuno di noi. Perché la scuola non è un’agenzia
educativa, non è un servizio messo a disposizione dalla comunità, è
un’istituzione dello Stato e tutti noi, 60 milioni di italiani, ne siamo, ma
non come si intende oggi nella neolingua economicistica che domina il discorso
pubblico, portatori d’interesse
Vorrei
innanzi tutto sgombrare il campo da una serie di equivoci con cui, volutamente,
i fautori delle competenze e della neopedagogia cui alludevo all’inizio del mio
ragionamento (e cioè, burocrati, legislatori, pedagogisti, accademici,
intellettuali, esperti e varia umanità, addetti istituzionali nazionali e
sovranazionali) legittimano le loro posizioni innovative: a scuola si fa una
didattica trasmissiva, tutta incentrata sul docente e non sul discente, basata
su presupposti superati, quali l’ora di lezione, la lezione frontale, la
classe, l’aula. A questo, considerato vecchiume da rottamare (e teniamo
presente che la migliore tradizione della rottamazione viene, in Italia, da sinistra
ma si sovrappone perfettamente alle finalità anticulturali della destra)
contrappongono una serie di misure moderne, spacciate come più efficaci (badate
bene, spacciate come più efficaci, altra mistificazione culturale e basterebbe
leggere l’ultimo libro di Susan Greenfield “Cambiamento mentale. Come
le nuove tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli” per
assumere un altro punto di vista, questo sì scientificamente fondato): la
flipped classroom, il CLIL, la scomposizione del gruppo classe, il DADA, la
Lim, lo smartphone e in generale le nuove tecnologie informatiche, il libro
digitale autoprodotto, la didattica laboratoriale, il debate,
l’insegnante come mediatore, accompagnatore, animatore digitale, attivatore di
competenze attraverso appunto esperienze e compiti di realtà che nulla abbiano
a che fare con la tradizione culturale, con la memoria storica e col libro.
E’ qui
che si incardina, a mio avviso, l’operazione di mistificazione lessicale,
concettuale, culturale e politica che sta minando la scuola italiana fin dalle
fondamenta. A dispetto di un mondo che sempre più privilegia istintività,
immediatezza, disintermediazione, spontaneità acritica, superficialità (e che
ha trovato nei social network la perfetta espressione di questa nuova,
pervasiva, dimensione dell’esistenza) la scuola italiana ha mantenuto nel tempo
e con tenacia il valore della conoscenza, della cultura, del pensiero, della
ricerca, dell’indagine, della speculazione e dell’esplorazione della complessità.
Ma in un mondo sempre più piegato alle logiche del mercato e del profitto, di
un capitalismo ferocemente estrattivo che dopo aver depredato la natura e le
sue risorse attraverso lo sfruttamento della forza lavoro dei corpi umani oggi
trova nelle nostre menti, nei nostri sentimenti, nelle nostre attitudini
trasformate in big data nuovi pascoli da desertificare, ecco in un mondo così
configurato oggi anche la scuola deve piegarsi alle logiche economiche che
permeano scelte politiche scellerate. Non è, a onor del vero, una novità
assoluta: la scuola ha sempre anche riprodotto l’ordine sociale vigente (basta
leggere Bourdieu e Passeron o, in Italia, le ricerche degli anni Settanta sulle
vestali della classe media) ma con un margine fondamentale che oggi sembra
essere scomparso dall’orizzonte del nostro sguardo: l’accesso ai saperi
implicava anche la critica dei saperi, la messa in discussione dell’esistente,
la possibilità della scelta ideologica, che è sempre una scelta di campo, per i
docenti e per gli studenti. E’ancora praticabile oggi questa scelta di campo?
E’ ancora possibile oggi scegliere un proprio metodo tra i tanti? Quali sono i
nostri margini? E quali le condizioni, le implicazioni, le limitazioni?
Quali spazi di autonomia ci lascia a scuola il giogo delle competenze,
impostoci in questi termini e con tale, diffusa, penetrante, insistenza?
La
“lunga marcia delle competenze”[1] nella politica scolastica italiana
parte da molto lontano, nello spazio, metaforico e geografico, e nel tempo. Il
processo di colonizzazione di questo dispositivo normativo parte nel mondo
anglosassone dal campo dell’organizzazione del lavoro. In Italia, il costrutto
emerge “a partire dagli anni ’70 del secolo scorso soprattutto in due
sfere della società – il lavoro e la formazione – e in tre campi scientifici:
le scienze del lavoro, dell’organizzazione e del management; le scienze
dell’educazione e dell’apprendimento; le scienze linguistiche”.[2] In un volume del 2002, Annamaria
Ajello, attuale presidente dell’Invalsi, presentava il concetto di
‘competenza’ “come un cambiamento di prospettiva culturale, con il
passaggio del primato delle conoscenze e della dimensione trasmissiva
dell’insegnamento, delle mansioni e dei compiti predefiniti (in senso fordista e
taylorista) a regimi teorici e d’azione in cui il primato è della sfera del
sapere pratico in situazione e dei processi di apprendimento sociale”.[3]
Liquidato immediatamente l’unico ambito in cui ha senso parlare di competenza,
quello linguistico, che è quello che tutti noi a scuola condividiamo e su cui
ha senso ragionare anche nelle pratiche didattiche, accanto all’esplorazione
delle competenze in ambito psicologico se ne diffonde contemporaneamente lo
studio nell’ambito dei sistemi organizzativi e manageriali, investendo
potentemente la sfera del lavoro, della sua organizzazione e della sua governance, anche
in virtù delle nuove esigenze di figure professionali flessibili, trasferibili
e non rigidamente specializzate del mondo globalizzato del terzo millennio.
Dall’impresa e dal mondo produttivo è partita dunque la richiesta al mondo
dell’istruzione e della formazione di un profondo adeguamento culturale e
politico e la gran parte dell’accademia e della ricerca scientifica insieme a
tutte le istituzioni nazionali e sovranazionali non si è sottratta (anzi vi ha
trovato spazi, progetti di ricerca, rivendicazioni, ruoli, cattedre, ambiti di
potere) La prima fondando su presupposti sociocostruttivisti e attivisti questo
nuovo filone di ricerca teorica e empirica, peraltro oggi ampiamente superati
in molti ambiti delle neuroscienze, le seconde trovando una cornice di
riferimento normativo nelle raccomandazioni dell’Unione Europea e nelle
indagini OCSE, di cui non è peregrino ricordare il mandato esclusivamente
economico (Ocse è l’acronimo di Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico).
Insomma,
che il re è nudo è sotto gli occhi di tutti. Il capitalismo contemporaneo, alle
soglie di quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale o
industria 4.0, prima ha chiesto e ottenuto che la scuola diventasse una fetta
di mercato come le altre (e, in Italia, questo è stato reso possibile
dall’autonomia scolastica che ha trasformato la scuola in un’azienda e il
preside nel suo amministratore delegato) poi ha preteso che la scuola
concorresse alla realizzazione di un unico sistema sociale, fortemente
modellizzato a livello globale attraverso tassonomie prescrittive (cfr.
Competenze chiave di cittadinanza europee, 2006; Global Competence
Model, 2006; Documento sulle competenze di cittadinanza planetaria
dell’Unesco, 2016); insomma che la smettesse di perdere tempo con la cultura,
con la filosofia, con la letteratura, con la scienza o con l’arte, e
promuovesse competenze (per definizione trasversali e generiche) come “asset
competitivi per le organizzazioni e per gli stessi individui nel passaggio
attuale all’economia dell’immateriale, del digitale, dell’informazione”.[4]
Eccoci a
noi: la ‘didattica per competenze’ così come la intendono Confindustria,
Fondazione Agnelli, tanta università e ricerca, Invalsi e Anp non è altro che
questo. Non è il ‘saper fare’ coerente con lo specifico orizzonte disciplinare
che ciascuno di noi persegue quotidianamente con i propri studenti. Non è il
sapere procedurale che accompagna nelle nostre attività didattiche l’approccio
teorico e speculativo, fondamento induttivo o deduttivo di ogni esperienza
culturale, laboratoriale e non, cognitiva e metacognitiva. E’, piuttosto, il
‘saper essere’ esecutori acritici, lavoratori addestrati a competenze basiche
elementari (quali sono esattamente le 8 competenze chiave di cittadinanza
prescritte dall’UE), flessibili e manipolabili, disponibili alla riconversione
continua in una condizione estrema di precarietà (questo, e non altro, è
il life long learning, una giostra impazzita che obbliga i giovani al
business della riqualificazione continua ), lesti in un ‘problem solving’ che
esclude la possibilità di rappresentare autonomamente qualunque possibile
problematicità e complessità delle situazioni di vita e di lavoro, quello che
Rossella Latempa mi ha insegnato a chiamare il ‘problem setting’, il ‘farsi
domande’, l’unica cosa significativa e davvero interdisciplinare che possiamo
insegnare ai nostri studenti per la vita.
La
‘didattica per competenze’ ministeriale e burocratica, che traduce
in praxis l’ideologia neoliberista – che oggi ha bisogno dello Stato per
garantire al mercato la sua libera concorrenza, la sua competitività, il suo
irrefrenabile sviluppo – e non prevede quella che con Gramsci chiamiamo “la
dura fatica del concetto” da cui, lentamente, nascono i saperi e la critica dei
saperi, a partire dai banchi di scuola dove, in primis, quei saperi
si formano, si custodiscono e si tramandano. La ‘didattica per competenze’
risponde a un’“economia pedagogica di guerra”[5], come ha recentemente affermato
lo psichiatra Michel Benasayag proprio parlando di questi temi, che prevede
bambini e adolescenti attrezzati con le ‘competenze’ utili per ‘competere’ in
un mondo in cui ognuno è solo e la concorrenza è spietata. Bambini e
adolescenti non più ‘educati’ alla convivenza, alla coabitazione, alla
condivisione, attraverso percorsi di conoscenza di ampio respiro, bensì
individualmente ‘armati’ per compiti specifici: le competenze servono “to
perform a specific task”[6] come si conviene ai soldati di una
guerra globale, centrata sulla sfida, sull’azione, sulla performance, sul
risultato, sul controllo, sul traguardo, sul dominio, sull’affermazione attiva
di sé sull’altro. Alla centralità del pensare, viene sostituita la centralità
dell’agire. Le competenze sono comportamenti da apprendersi a scuola, sono un
insieme di esecuzioni, di prestazioni, sono pratiche, individuali e sociali,
tutte orientate al lavoro e all’occupabilità, intesi come finalità fondamentali
dell’istruzione. “Le competenze sono disposizioni nell’agire delle
persone”.[7] Dunque sono un modo di essere, che
deve corrispondere all’individuo del terzo millennio: flessibile, disponibile,
fungibile, trasferibile, dematerializzabile (ricordiamo che legge che ha
istituito il registro elettronico a scuola si chiama “Dematerializzazione dei rapporti
scuola-famiglia”). I riferimenti pedagogici all’attivismo, al cognitivismo, al
sociocostruttivismo cui alludevo precedentemente sono totalmente ingannevoli,
funzionali a garantire un’accettabile patina di copertura ad un inaccettabile
progetto di manipolazione culturale e sociale.
E’
interessante, a questo punto e per comprendere le ulteriori implicazioni di
questo processo di trasformazione epistemologica, leggere quanto sostiene
l’ANP, a proposito dei nuovi esami di Stato, appena riformati come previsto
dalla legge 107: “Si tratta di un cambiamento radicale che presuppone
un diverso approccio didattico e culturale da parte delle scuole e che ANP
considera ormai ineludibile. Apprezziamo la nuova visione, volta a superare la
rigida e ormai antiquata impostazione delle discipline scolastiche, auspicando
che si tratti di un effettivo preludio al complessivo rinnovamento della scuola
tradizionale. Il nuovo esame rappresenta l’occasione per misurarsi con quella
didattica per competenze verso la quale lo scenario educativo internazionale si
orienta da molto tempo, utile ad affrontare un contesto sociale sempre più
complesso”. [8]
La
dichiarazione si configura come una professione di fede, l’accettazione di un
dogma: nella letteratura internazionale (neurobiologica, psicologica e
pedagogica) non esiste alcuna dimostrazione scientifica della necessità di
conferire alle “competenze una posizione logicamente sovraordinata
rispetto a conoscenze, abilità e atteggiamenti” come chiede la
Fondazione Agnelli.[9] E infatti, nella stessa pagina,
poche righe dopo, si ammette che “all’assenza di un robusto impianto
teorico sopperisce evidentemente l’autorevolezza dell’istituzione”.
La
didattica per competenze non ha alcun fondamento teorico, scientifico,
epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata
da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi
formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla
creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per
questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a definire capitalista: una
pedagogia che si fonda sulla naturalizzazione di questa nuova ontologia
imprenditoriale, immanente e contingente. Sdradicate dalla scuola e
dalla società, storia, memoria, ermeneutica, interpretazione vengono spazzate
via dall’orizzonte mentale delle nuove generazioni. In questa “confortevole,
levigata, ragionevole, democratica non libertà”[10] non sono più possibili processi di
soggettivizzazione che non siano adattivi al mercato del lavoro e, in quanto
tali, spietatamente selettivi e mortiferi.
Concludo
ponendo due domande, che vorrei fossero due interrogative retoriche ma che
purtroppo non lo sono: possono le istituzioni politiche, che sull’istruzione si
muovono di concerto con organizzazioni economiche internazionali, sostituirsi
alla scienza e imporre processi di formazione e di valutazione, modalità di
insegnamento/apprendimento, prassi didattiche standardizzate su scala nazionale
e sovranazionale, addirittura una nuova teoria della conoscenza? E noi, noi
docenti, della scuola e dell’università, possiamo accettare senza reagire
l’imposizione autoritaria di un paradigma indimostrato, ma di cui è dimostrata
la funzionalità economicistica, l’imposizione di dispositivi ideologici che
impongono un regime veritativo che mina alle fondamenta la nostra libertà di
insegnamento, la libertà di apprendimento dei nostri studenti, e che,
soprattutto, pone una drammatica ipoteca sul mondo?
Anna Angelucci
Intervento al convegno nazionale “A scuola di competenze: verso un nuovo
modello didattico. Quale?”
Gilda degli insegnanti di Vicenza e associazione docenti Articolo 33
Vicenza, 18 marzo 2019
[1] Prendo in
prestito il titolo di un capitolo del libro “Le competenze. Una mappa
per orientarsi” della Fondazione Agnelli, a cura di L. Benadusi e S.
Molina, pubblicato da Il Mulino nel 2018
[2] L. Benadusi, S.
Molina, op. cit., p. 11
[3] L. Benadusi, S.
Molina, op. cit., p. 14
[4] L. Benadusi, S.
Molina, op. cit., p. 31
[5] la Repubblica,
21 gennaio 2019
[6] L. Benadusi, S.
Molina, op. cit., p. 38
[7] L. Benadusi, S.
Molina, op. cit., p. 44
[8] https://www.anp.it/il-miur-pubblica-le-materie-della-seconda-prova-per-lesame-di-stato/
[9] L. Benadusi, S.
Molina, op. cit., p. 18
[10] H.
Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia nella società industriale
avanzata, Einaudi, 1968, p. 21