Il 23 dicembre 1978, al termine di un lungo iter di discussione e di un
percorso culturale e politico iniziato nel 1958 con la nascita del ministero
della sanità, le camere approvavano la Legge 833 che istituiva il Servizio
sanitario nazionale. Il nuovo ente pubblico era basato sul modello del National
health service della VGran Bretagna, che era stato pensato nel 1948 da
William Beveridge come pilastro del nuovo stato sociale e che a sua volta si
era affacciato al mondo insieme ai sistemi diversi di Scozia, Inghilterra,
Galles e Irlanda del Nord.
Il nostro Servizio sanitario nazionale arriva in un anno piuttosto
tumultuoso fatto anche di enormi avanzamenti sociali. Sono sempre del 1078 sia la 180, la “legge Basaglia”, che la Legge 194, che trasformeranno profondamente non
solo l’assistenza socio-sanitaria per tutte e tutti, ma la società stessa di un
paese diviso, scosso, profondamente in agitazione. Sia la 180 che la 194
risalgono al maggio del 1978, un mese iniziato contemporaneamente a Cinisi, in
Provincia di Palermo, e a Via Caetani, a Roma. Queste tre leggi, è utile
ricordarlo, non sono solamente il frutto di un meritorio lavoro parlamentare:
derivano soprattutto da esperienze di lotta e resistenza, che attorno al
diritto alla salute iniziavano a prendere piede in quegli anni.
Il moderno Ssn, di stampo “Beveridge”, basato sulla fiscalità generale, con
ambizioni universalistiche e globali, con l’idea cioè di garantire a tutte e
tutti ogni prestazione ritenuta necessaria, nasce in quel clima, sostituendo
gradualmente le Casse mutue e le Opere pie, retaggi del passato modello
Bismarck, corporativo e lavorista che si appoggiava (e appoggia ancora oggi
nei paesi in cui viene adottato, Germania e Francia su tutti) ad un modello
produttivo fordista, in cui tutta la società ruotava attorno alla figura del
maschio, lavoratore, cittadino, che contribuisce direttamente al finanziamento,
assieme al padrone, tramite prelievi diretti dal salario.
Il modello corporativo di welfare ha retto in Italia per decenni,
garantendo quel minimo di sostegno in caso di bisogno ad una popolazione
tendenzialmente giovane, in buona salute, con poche necessità in termini di
assistenza, ma soprattutto ad una società operaia e contadina, nella quale il
lavoro dipendente e lungo tutto il corso della vita garantiva, specie a partire
dal secondo dopoguerra, benessere, tranquillità e relativa pace sociale. Forse
fu con lo stesso spirito con cui Bismarck istituì le prime forme di tutela, tra
il 1883 ed il 1892, utilizzando il corporativismo come “normalizzatore” dei
conflitti di classe che attraversavano la neonata Germania di fine ‘800, che il
legislatore, decise, nell’Italia di fine anni Settanta, di introdurre un servizio
finalmente universalistico, capace di ricomporre, almeno nelle intenzioni,
tensioni e conflitti, dovuti anche alla frammentazione del welfare in decine e
decine di enti professionali di categoria, che provocavano disuguaglianze, tra
mutuati e non, ma anche tra mutuati appartenenti a casse diverse, e
malcontento. Quel modello serviva anche a ricondurre sotto l’egida
istituzionale le esperienze autogestite di promozione della salute e lotte,
come i consultori e i comitati legati alla medicina del lavoro, che negli anni
Settanta erano nate su tutto il territorio italiano.
Con l’istituzione del Ssn, vennero inglobati, quindi, gli enti fino ad
allora erogatori, ma soprattutto finanziatori del servizio (in particolare
vennero liquidati gli enormi debiti accumulati dalle mutue professionali),
procedendo ad una vera e propria “statalizzazione” di risorse, strutture e
personale, slegando finalmente il diritto fondamentale alla salute, come
stabilito dall’articolo 32 della Costituzione, dai meccanismi di mercato legati
al lavoro, garantendo a tutte e tutti, gratuitamente, l’accesso al servizio ed
a tutte le sue prestazioni. I principali limiti furono, e sono ancora oggi, le
cure odontoiatriche, non garantite se non in caso di emergenza, e la medicina
generale, che ereditò la funzione di gatekeeper, nel senso che i
medici di medicina generale sono il principale punto di regolazione
dell’accesso al servizio senza tuttavia mai entrare con un rapporto di lavoro
subordinato all’interno del Ssn. Questa scelta ha comportato nel tempo uno dei
punti deboli, nel quale le dinamiche di mercato oggi iniziano a incunearsi.
I primi lustri del Ssn sono segnati da grandi successi e antipatici
fallimenti (oltre che tanta accidia dovuta all’incapacità di molte Regioni e
Comuni nel gestire un meccanismo così complesso). Un sistema così importante fa
gola ai partiti, come è capitato a quelli degli anni Ottanta, alla disperata
ricerca di bacini elettorali ed economici per alimentare meccanismi clientelari
alla base del proprio potere autoreferenziale. Così, quando la grande
ubriacatura collettiva dei partiti di governo si schianta con Tangentopoli, il
Servizio sanitario mostra tutta la sua fragilità. I meccanismi di
partecipazione democratica, come le assemblee generali legate al territorio e ai
comuni, che dovevano garantire prossimità e capacità di interpretazione dei
contesti e dei bisogni di salute, sono stati usati a volte come meri strumenti
di consenso partitico, mentre le commissioni regolative, come quella sui
farmaci, si rivelarono fin troppo permeabili a pressioni esterne, specie quando
queste assumevano le sembianze della cartamoneta.
Il “quasi-mercato”
In questo clima di totale sfiducia per le istituzioni iniziano a farsi
largo idee nuove. In nome della presunta oggettività della tecnica, alla luce
delle introduzioni dell’ideologia del New Public Management, si
procede all’introduzione di pezzi di mercato anche all’interno del Servizio
sanitario arrivando a teorizzare quel “quasi-mercato” oggi alla base del
funzionamento dei Servizi pubblici in generale. I decreti legislativi 502/92 e
517/93 riorganizzano in senso aziendalistico le Unità sanitarie locali, che
divengono appunto Aziende sanitarie locali, enti dotati di “personalità giuridica
pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile,
gestionale e tecnica”. Il “quasi-mercato” costruito da queste riforme, mette le
aziende nella condizione di separare l’acquisto delle prestazioni dalla loro
erogazione, consegnando la prima funzione alle Asl, e la seconda a soggetti,
pubblici o privati, che una volta accreditati dalla Regione (un presidio
ospedaliero pubblico deve accreditarsi presso la propria Asl allo stesso modo
di una clinica privata), vengono remunerati a prestazione in base ad un
tabellario.
Anche con queste riforme, resta irrisolto il nodo della medicina generale
assieme a quello dell’assistenza odontoiatrica, che ancora una volta non viene
inserita all’interno dei Livelli essenziali di assistenza, ovvero quel
pacchetto di prestazioni che ogni Regione è obbligata a erogare, nel tentativo
del ministero della salute di rendere la più uniforme possibile l’assistenza,
visto che la riforma costituzionale del 2001 che ha frammentato il Ssn in
ventuno Servizi sanitari regionali.
La debolezza intrinseca della gestione della medicina di base e delle cure
primarie in generale, la problematica legata alle cure odontoiatriche, il
federalismo sanitario (che, per inciso, il disegno di legge di riforma
costituzionale del 2016 non avrebbe sostanzialmente modificato), l’introduzione
di meccanismi di mercato, ed infine la parziale liberalizzazione dell’offerta
privata con l’introduzione del “terzo pagante”, ovvero soggetti esterni al
Servizio abilitati a raccogliere finanziamenti per erogare quote di
prestazioni, hanno contribuito nel tempo ad indebolire i presupposti
universalistici della Legge 833/78.
In questo mosaico, caratterizzato oggi da profonde disuguaglianze sociali
in salute tra nord e sud del paese, iniziano a muoversi attori nuovi, capaci di
fare leva sulle debolezze, facilitati da martellanti campagne pubblicitarie
volte a minare la fiducia delle persone nel Servizio, aiutati indirettamente da
scelte politiche scellerate, come quelle sulla “compartecipazione alla spesa”,
i cosiddetti ticket, e dall’incapacità di personale, in particolare medici, e
decisori di far fronte all’enorme problema delle liste di attesa.
Per capire cosa si stia muovendo, nel sottobosco dell’assistenza privata,
occorre scomporre i flussi di denaro relativi alla spesa sanitaria: secondo il
rapporto Gimbe 2018, nel 2016 la spesa totale è stata di 157,6 miliardi di
euro, di cui poco più di 112 hanno carattere di spesa pubblica e quasi 45,5
miliardi di spesa privata. Questi numeri ci permettono di poter parlare, in
prima battuta, di quanto poco costi allo stato l’assistenza sanitaria di più di
60 milioni di persone: una cifra che, se rapportata al Pil, ci colloca nella
parte bassa della scala dei paesi Ocse. Nessun governo negli ultimi anni, compreso
l’attuale, ha provato a invertire la marcia o allentare i meccanismi di
revisione di spesa delle regioni. Sette regioni sono in “piano di rientro”,
sono cioè commissariate sul loro principale capitolo di bilancio, che assorbe
più del 70% dell’intera spesa regionale. Questa condizione pone il ministero
dell’economia e delle finanze in una posizione di assoluto predominio rispetto
al ministero della salute sulle questioni riguardanti il servizio sanitario, ed
in ultima analisi, riguardanti la salute della popolazione.
Dal lato della spesa privata le cose iniziano a muoversi. Se è vero che la
quasi totalità di questa voce è ascrivibile all’out-of-pocket, alla
spesa cioè letteralmente “di tasca propria”, che riguarda ad esempio visite in
“libera professione intramuraria”, o intramoenia, ma anche
prestazioni richieste direttamente al privato (spesso a causa di tempi di
attesa proibitivi, ad esempio per quanto riguarda le visite di controllo della
gravidanza, ma anche dell’assurdità per cui il ticket per alcune prestazioni
costa più che effettuare quelle stesse prestazioni privatamente), così come la
spesa farmaceutica non rimborsata. Tutto questo costa alla popolazione quasi 40
miliardi di euro l’anno. Ma c’è un’altra voce, in continua crescita, e che
riguarda l’out-of-pocket cosiddetto intermediato, ovvero quella
quota di spesa che ogni anno privati cittadini affidano a soggetti terzi, che a
loro volta utilizzano, almeno in parte, per erogare prestazioni complementari
(soprattutto odontoiatriche), ma anche sostitutive dei Lea, configurando una
sorta di canale parallelo di servizi. I principali attori di questa
intermediazione sono i fondi sanitari, eredi delle mutue ottocentesche, e le
assicurazioni private. Tralasciando per un attimo il ruolo che queste ultime
ricoprono, ad oggi ancora piuttosto marginale (anche se parliamo di un mercato
di circa 600 milioni di euro di polizze private), la vera partita oggi si gioca
nel campo dei fondi sanitari, attori non profit, che raccolgono
circa 10 milioni di italiani (lavoratori e famiglie a carico, generalmente),
muovendo un totale di circa 5 miliardi di euro.
Addio al patto redistributivo?
Le tentazioni corporativiste di un mondo del lavoro sempre più frammentato,
in cui ciascuna categoria prova a “salvarsi da sola” (emblematici sono i casi
del Fondo Meta Salute dei metalmeccanici e dei piani integrativi offerti
dall’Enpam, la cassa previdenziale dei medici), e l’espansione delle polizze
assicurative private (oramai offerte dalle principali banche commerciali, ma
anche da enti universitari e pubblici tramite broker aziendali), stanno
mettendo a dura prova l’universalismo del servizio sanitario pubblico, in preda
a forti tensioni interne, in particolare dovute ai rinnovi contrattuali ed alle
pressioni finanziarie, ed esterne, dovute a liste di attesa, ticket, e a un
generale clima di sfiducia, spesso alimentato ad arte anche da rapporti nutriti da conflitti di interesse.
Diventa abbastanza intuitivo come, da parte di chi continua a condurre una
spietata lotta di classe per salvaguardare rendita e posizione, diventino
accettabili anche ipotesi come l’opting-out, ovvero l’uscita dal patto
sociale redistributivo dato dalle tasse, in nome di una presunta giustizia
sociale. «Lo stato regala troppi servizi ai ricchi, ad esempio servizi sanitari
gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Ha senso tassare il 50% del
reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Non
sarebbe meglio se quei servizi li pagassero, a fronte di una riduzione
dell’imposizione fiscale?», hanno scritto ad esempio qualche tempo fa Alesina
e Giavazzi sul Corriere della Sera.
A 40 anni dalla sua istituzione quindi, il Ssn ha più bisogno che mai di
una maggiore integrazione in termini di rapporto contesto-servizi offerti, in
particolare per quanto riguarda prevenzione e cure primarie, ma soprattutto di
un solido consenso che si fondi sui principi cardine di universalismo ed equità
nell’accesso, globalità di servizio e finanziamento proporzionale alle
possibilità di ciascuno. Per ottenere tutto questo l’unica strada percorribile
passa per il restituire l’intero Servizio, dal coordinamento e finanziamento
fino all’erogazione delle prestazioni, nelle mani del pubblico, fugando ogni
dubbio da possibili derive corporative o peggio privatistiche, sottraendo
definitivamente il diritto alla salute dalle logiche di mercato.
*Lorenzo Paglione è medico specializzando in sanità pubblica, fa parte
dell’esecutivo nazionale del coordinamento “Chi si cura di te”.