venerdì 17 gennaio 2025

Il numero degli uccisi - Giorgio Agamben

 

Sempre di nuovo occorre meditare il passo dell’Apocalisse (6,9-11) in cui si legge: «E quando (l’agnello) aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime degli sgozzati a causa della parola di Dio e della testimonianza che avevano reso. E gridarono a gran voce dicendo: “fino a quando, o signore santo e verace, non compi il giudizio e non vendichi il nostro sangue su coloro che abitano sulla terra?” E fu data a ciascuno di loro una veste bianca e fu detto loro che avrebbero indugiato ancora per poco tempo, fino a che non fosse completato il numero dei loro conservi e fratelli, che debbono essere uccisi come loro».
La storia non finirà e il giudizio finale non sarà pronunciato finché non sarà completato il numero dei giusti uccisi. È forse questo che sta avvenendo intorno a noi? E quanto altri giusti dovranno essere uccisi, come ogni giorno li vediamo morire? Certo la storia è storia di guerre, morti e uccisioni. Ma il senso dell’apertura del quinto sigillo non è che, nel tempo che stiamo vivendo, noi dobbiamo aspettare inerti che sia completato il numero degli uccisi. Anche se i giornali non fanno che contarli ogni giorno, noi ignoriamo quale sia questo numero, come ignoriamo quando avverrà il giudizio e se mai avverrà. Noi viviamo in un tempo intermedio e, come coloro che sono stati sgozzati, dobbiamo testimoniare di quello che vediamo e di quello in cui crediamo. Non altro è il nostro compito prima che sia completato il numero degli uccisi.

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Qui in Venezuela si afferma la volontà popolare: ma i ‘sottonisti’ nostrani seguono le direttive Usa – Fabio Marcelli

Una delle espressioni più stupide coniate da certa politologia d’accatto, ben rappresentata tra i pennivendoli che vanno per la maggiore nella cosiddetta grande stampa e nei media radiotelevisivi è stata negli ultimi anni indubbiamente quella di “sovranismo”.

Non è mai stato ben chiaro cosa lorsignori volessero significare usando tale balorda categoria. Quello che è certo è che i politici che venivano definiti tali sono stati i più rapidi e risoluti a svendere ogni sovranità, sia popolare che nazionale, ai poteri forti privati, soprattutto il capitale finanziario transnazionale e allo Stato-guida dell’Occidente in crisi terminale, gli Stati Uniti d’America, emulando e superando in stoltezza i liberali che li avevano preceduti sulla strada della svendita delle risorse e del reclutamento a forza del popolo sovrano nell’assurda e suicida campagna contro la Russia, la Cina e gli altri Stati che rifiutano giustamente l’ordine capitalista dei privilegi per pochissimi, miseria e morte per la stragrande maggioranza dell’umanità.

Meloni & C., per i quali propongo la ben più pregnante definizione di “sottonisti”, sono in evidente linea di continuità con Draghi, massimo profeta del capitalismo e dell’atlantismo in Europa e nel nostro Paese. Di lui resterà storica la sciagurata frase “Volete i condizionatori o la pace?”, che segnò la sottomissione dell’Italia alla politica guerrafondaia di Biden e della Nato, col risultato della lunga e sanguinosa guerra in Ucraina, oltre un milione di morti e della fine dell’intercambio energetico con la Russia che sta determinando un’ulteriore rovinosa tappa della crisi senza fondo dell’economia dell’Europa asservita alla Nato e alle lobby finanziarie.

L’ascesa al potere di Trump e Musk sta ponendo le premesse per l’accelerazione della corsa dell’Occidente verso l’autodistruzione e la catastrofe planetaria. Trump è certamente più sveglio e intelligente di Biden, non è che ci voglia molto, ma le sue recenti irricevibili smargiassate su Canada, Groenlandia e Panama non lasciano molti dubbi sulla sua vocazione imperiale e la sua proterva volontà di rilanciare la grandezza degli Stati Uniti a spese dei popoli del mondo.

I sottonisti nostrani riescono al tempo stesso a omaggiare il nuovo Zar di Washington, dando importanti settori strategici chiavi in mano a Musk, e ad assecondare la folle velleità europea di continuare la guerra. Meloni si intesta la liberazione di Cecilia Sala, ottenuta grazie all’intelligence nazionale che conserva monostante tutto importanti conoscenze e professionalità sedimentate nel corso dei decenni, ma ribadisce il suo incondizionato sostegno al regime genocida di Netanyahu che continua ogni giorno a massacrare i Palestinesi mentre si espande in Libano e Siria e prepara ulteriori attacchi contro l’Iran.

Qui in Venezuela, dove mi trovo da qualche giorno, e Nicolas Maduro si è insediato come presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela, la situazione è complessivamente tranquilla, salva qualche soporadica manifestazione dell’opposizione, per lo più poco partecipata, pacifica e ben controllata dal popolo chavista adeguatamente organizzato.

Ciò costituisce il risultato di una volontà popolare coesa e di cristallina chiarezza volta a riaffermare in ogni circostanza il principio della sovranità nazionale e popolare quale deve essere nel contesto del mondo multipolare e pluricentrico che va costruito superando l’obsoleto e cadente predominio di stampo imperialista e neocoloniale dell’Occidente. Trump e Musk vorrebbero mettere le mani sulle ricchissime risorse energetiche e di altro genere del Paese, ma troveranno ora e sempre la strada sbarrata dalla mobilitazione popolare organizzata e dall’alleanza incrollabile tra popolo, milizia, forze di polizia e Forze armate.

Chiunque voglia informarsi in merito sulla stampa italiana è destinato a imbattersi in titoli demenziali come quello apparso ieri sulla Repubblica che per l’ennesima volta parla del “baratro” in cui starebbe cadendo il Venezuela. Stando qui l’impressione è quella, del tutto opposta, di un popolo animato da una fortissima volontà di pace e prosperità, simboleggiata anche dal consumismo perfino eccessivo che si è registrato durante le recenti festività natalizie.

I sottonisti nostrani, annidati nei media, nel governo ma anche nel vertice di forze di finta opposizione come il Pd, spingono il loro estremo servilismo nei confronti dell’Impero in declino al punto di negare il riconoscimento al legittimo presidente Maduro per darlo invece all’insulso burocrate Edmundo Gonzalez, da sempre attivo come marionetta di Washington in servizio permanente attivo. E’ l’altra faccia dell’impegno per la continuazione dell’insensato massacro ucraino e del sostegno politico e militare al genocida Netanyahu. Una situazione davvero avvilente per uno Stato come l’Italia, che fu a lungo faro di civiltà per il mondo, ma che languisce oggi sotto il giogo dei sottonisti che la controllano per conto terzi,come sempre sono stati usi fare nelle varie contingenze storiche.

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giovedì 16 gennaio 2025

Sul ponte si è detto, ma qualcosa no - Giovanni Carbone

 

A parlare del ponte argomenti se ne trovano, da una parte, dall'altra. Quanto legittimi gli uni, tanto gli altri, con taluni che paiono di buon senso ed altri che invece s'inabissano con la ragione nelle profondità del mare di Scilla e Cariddi. Ma a parlare degli uni per stoltezza manifesta, o degli altri come cosa di buon senso, senza dire quali siano e per quali propendo, francamente mi venne a noia. Che a me preme assai, invece, puntare indice d'attenzione su altro aspetto assai meno frequentato e che riguarda un dato preciso: se l'isola è attaccata con tale legaccio cementante al continente, essa non è più tale, al massimo si fece isola al guinzaglio, meglio, escrescenza ectoplasmica di continente, derubricata a promontorio, non ci si riconosce più in quella come fu da che l'uomo vi abitò. Certo, “là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro) E se questo è vero, quell'incombenza immanente del naufragio appartiene all'isola, pure a chi vi nacque. Ne rappresenta sempre l'archetipo illustrativo, incontrovertibile, esattamente come dato anagrafico con tanto di firma del sindaco. Negarsi detto dato, ancorché a tratti ed a taluno poco avvezzo ad i-solitudini possa apparire luttuoso, è come piombarsi in dimensione da smemorato, privarsi d'un io irripetibile, divenire altra cosa che pare piuttosto io indistinto. Questo mi dice l'argomentazione sghemba e desueta sul legaccio continentale. Me lo dice pure che quando vado via io stesso dall'isola, a valigie non ancora pronte, già mi struggo, prima ancora, anzi, a pensiero solo di farle.

Aveva voglia Nisticò di classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come cozza, dattero, riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna di viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine, la lasci accanto a te. Tuttavia, per consapevolezza di tale innata abiezione d'accoglienza, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, quei sassi, isole essi stessi, li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. È come mentire a se stessi, innanzitutto, che si finisce per crederci più noi che gli altri. Gli altri se ne accorgono della natura mendace della difesa e, consapevoli e avversi alle i-solitudini con quel vezzo di farsi porto sicuro, ibride per oscure provenienze, preferiscono tendere guinzagli, meglio se a robusta campata. L'isolano, invece, se per ragioni di modernità se ne deve andare solo per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluta parenti e amici, fazzoletto in mano, si sente mancare il terreno sotto i piedi, s'avvede d'allontanamento da porto sicuro come stesse andando a sfidare cannibali nel Borneo. Posto che nel Borneo di cannibali ce ne siano, che quella pure è isola con tanto di isolani che potrebbero averlo fatto credere, sempre a scanso d'equivoco, per timore di visita di continentale.

Ad ogni buon conto, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Pure per questo nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, pigrizia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova in mezzo, circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in quell'unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca e talaltra dall'accondiscendenza d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. In tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto. Salvo che qualcuno, da qualche altra parte, non voglia mettergli il guinzaglio, per guidarla come gli pare, a dispetto del mare. Se non bastasse c'è all'orizzonte progetto di museruola.

Gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Europa - Piero Bevilacqua

 

Sarebbe lungo l’elenco degli episodi in cui gli Stati Uniti hanno mentito all’opinione pubblica internazionale. Menzogne con cui hanno coperto sabotaggi, movimenti insurrezionali, azioni terroristiche, colpi di Stato, massacri di popolazioni inermi. Basterebbe dare uno sguardo alle ricostruzioni storiche di alcuni grandi giornalisti americani, perché tanti ferventi democratici nostrani, sostenitori delle buone ragioni della Nato, fossero costretti a rivedere le proprie erronee convinzioni. Mi riferisco, ad esempio, a un testo come quello di William Blum, Il libro nero degliStati uniti, Fazi, 2003. A dispetto del titolo da pamphlet sensazionalistico della traduzione italiana (l’originale è Killing Hope: US Military and CIA Interventions since World War II.) si tratta di un imponente volume di 886 pagine, che getta una luce sconvolgente sulla politica estera americana a partire dal dopoguerra. Oppure alla più più recente fatica di Vincent Bevins, Il metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo, Einaudi, 2021. Un testo che svela tutto l’orrore di cui sono state capaci le amministrazioni americane per imporre il proprio dominio planetario, ricacciando nella loro subalternità coloniale tanti paesi del Sud del mondo. Sono pienamente convinto che senza aver letto almeno uno di questi due libri è difficile avere una idea non superficiale della politica estera americana e della reale natura di questo Stato. E certo anche la visione della storia mondiale perde un tassello della sua drammatica verità. Purtroppo i democratici italiani – i pochi che hanno un qualche interesse per le vicende della politica internazionale – si limitano a informarsi sui nostri quotidiani, impegnati a persuadere piuttosto che a informare, o ascoltando la propaganda quotidiana delle nostre TV.

Nel nuovo millennio la pratica della menzogna e dell’inganno da parte degli USA è diventata tuttavia moneta corrente delle relazioni internazionali. Dalla promessa a Gorbaciov di non estendere le basi Nato a Est, al pretesto delle armi di distruzioni di massa per invadere l’Iraq, dal doppio standard utilizzato nel promuovere l’indipendenza del Kossovo e nell’osteggiare le ragioni della Crimea. Nel primo caso uno Stato autonomo, in un’enclave a prevalenza albanese, è stato imposto alla Serbia a suon di bombe, nel secondo è stata condannata una reintegrazione nella Federazione russa di una regione da sempre russa, sulla base di un referendum pacifico in cui a favore si espresse tra il 96 e il 97% della popolazione. Con grande rispetto della Serbia e dell’alleato russo di allora, gli Usa poi piazzarono in Kossovo una grande base militare con 5000 uomini (D. Ganser, Le guerre illegali della NATO, Fazi, 2022)

Ma di recente la china delle falsificazioni è diventata inarrestabile. Si pensi a quante volte il governo Biden ha annunciato come prossima una tregua, che sospendesse la carneficina in corso a Gaza, mentre continuava a opporsi alle risoluzioni dell’ONU, alle condanne della Corte Internazionale di Giustizia, inviando nel frattempo migliaia di tonnellate di bombe a Israele perché continuasse la sua pratica sanguinaria. Ma ci sono stati altri comportamenti meno cruenti, di cui gli USA sono più o meno segreti ispiratori, e tuttavia non meno dirompenti negli effetti sulla credibilità dell’Occidente: il rifiuto del responso delle urne delle elezioni politiche in Georgia, del 26 ottobre 2024, e di quelle presidenziali di dicembre. Cosi come di quelle in Romania, dove si è contestato al vincitore Calin Georgescu – perché considerato filorusso – di partecipare al ballottaggio previsto per l’8 dicembre. È la continuazione di una storia già nota. Sappiamo che Washington punta da tempo all’inserimento della Georgia nella Nato, come dichiarato esplicitamente nel cosiddetto “Memorandum di Bucarest”, emanato a conclusione di un vertice dell’Alleanza nel 2008, che prevedeva anche l’inclusione dell’Ucraina. Ma non dimentichiamo che in quell’anno, dopo un’imponente esercitazione NATO, l’esercito georgiano, addestrato e finanziato dagli Stati Uniti, lanciò un massiccio attacco missilistico e di artiglieria contro il distretto dell’Ossezia del Sud, popolato da filorussi e confinante con la Federazione. Un’aggressione che costrinse Mosca a un intervento armato in difesa della popolazione. Com’é noto (e come credono ancora tanti democratici italiani) la vicenda è stata rubricata come l’”invasione russa della Georgia”, una manifestazione dell’”imperialismo di Putin”: vale a dire un rovesciamento della realtà. E infatti, una commissione dell’Unione Europea, istituita a ridosso degli avvenimenti, accertò che l’aggressione da parte dell’esercito della Georgia era «illegale» e che l’iniziativa di Mosca – intervenuta tra l’altro dopo che erano stati uccisi alcuni peacemaker russi – era «legittima». (G. Monestarolo, Ucraina, Europa, mondo. Guerra e lotta per l’egemonia mondiale, Asterios, 2024). L’opposizione ai risultati elettorali non graditi anche da parte dell’Europa e del resto dell’Occidente continua dunque la pratica del doppio standard della politica estera americana. Ma in questo caso l’eversione è ancora più grave: colpisce un istituto fondamentale della democrazia liberale, l’espressione della volontà popolare. L’ultima forma di resistenza alle oligarchie che in occidente stanno svuotando lo stato di diritto

Da questo rapido quadro c’è da trarre una conclusione in genere poco considerata dagli analisti filoccidentali. Una così aperta violazione del diritto internazionale da parte del più potente Stato del mondo e della più grande e antica democrazia liberale, non solo getta un’ombra di delegittimazione su tutte le democrazie occidentali al suo seguito, ma produce un danno anche più grave. La postura attuale degli USA (destinata ad accentuarsi con l’arrivo di Trump), che li fanno assomigliare al lupo della favola di Esopo, finisce col togliere ogni credibilità alla politica, ai suoi mezzi, alle sue capacità di compromesso, al suo stesso linguaggio. Se le parole dei governi sono una moneta falsa, come si fa a scambiare reciprocamente i beni di ciascuno? Come si fa a mantenere la stessa legittimità delle relazioni fra stati. Dunque, il comportamento degli USA e dell’Europa al seguito della Nato, stanno favorendo la creazione di uno scenario mondiale inquietante, senza che i protagonisti abbiano l’aria di essersene accorti: l’impraticabilità della politica e il crescente ricorso argomentativo alla forza delle armi da parte di tutti i paesi del globo. Ed è facile immaginare che già oggi chi sta subendo il maggior danno di questa grave svalutazione del governo razionale dei conflitti sia il popolo ucraino, perché la Russia, troppo a lungo ingannata, terminerà la guerra solo quando la situazione di vantaggio militare le consentirà le condizioni di sicurezza che la Nato le ha voluto sin qui negare.

Ora in che cosa si può sperare, che cosa possiamo auspicare e soprattutto, pur nelle nostre limitatissime possibilità, che cosa dovremmo rivendicare, proporre? Come individuare un qualche spiraglio di prospettiva per uscire dalla disperazione e soprattutto come mutare in positivo anche il modo di fare politica delle forze di riformismo anticapitalistico del nostro paese? Forze che sono tante, variegate, disperse, ma unite nella denuncia, nella condanna, nell’urlare “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, come scrive Montale. E tuttavia alquanto incapaci di prospettare qualche sentiero di impegno, di rivendicazione mirata, di lavoro costruttivo e soprattutto poco volenterose di farsi carico di ricadute concrete delle proprie analisi e denunce. Io credo che una rivendicazione utile per dare al movimento pacifista una maggiore efficacia politica sia la richiesta di un ripristino di relazioni normali con la Russia. Solo la straordinaria ignoranza (ma spesso anche la malafede) delle cause della guerra in Ucraina ha impedito ai nostri rappresentanti politici, ma anche a intellettuali e studiosi, di scorgere una delle ragioni fondamentali che hanno spinto gli USA a provocarla: staccare la Russia dall’Europa, colpire le condizioni di vantaggio economico del Vecchio Continente, basato sul basso costo delle fonti di energie, sbarrare il corridoio strategico (fatto di strade, ferrovie, gasdotti, oleodotti ecc.) che dall’Asia Centrale, attraverso Ucraina e Bielorussia, arriva sino all’Europa e al Mediterraneo. Una nuova area di economia e di scambi che avrebbe consentito ben presto all’Europa di assumere una centralità strategica assolutamente inedita e assai temuta dagli Americani. Gli USA, dotati di gruppi dirigenti imperiali, programmano le loro strategie con lo sguardo al futuro e su scala planetaria. Il ceto politico europeo, diviso e indebolito dalla perdita di legami con le masse popolari, sguazza nelle piccole bagattelle elettorali, fa minuta ragioneria contabile e si autopunisce con le politiche di austerità. La politica estera la lascia alla Nato, cioè agli USA, immaginati come stato amico e protettore.

Oggi appare evidente (ma fino a un certo punto) perfino a un leader della statura di Scholz, che le sanzioni varate da USA e Nato sono anche in danno degli interessi materiali dell’Europa. Esse non sono altro che barriere doganali, come ha mostrato, tra gli altri, Emiliano Brancaccio (Le condizioni economiche della pace, Mimesis, 2024) destinate a colpire certo la Russia, ma più rovinosamente le nostre economie. Ebbene, i vari movimenti contro la guerra devono a mio avviso puntare a rendere evidenti i danni che la condotta di governi e dei partiti politici filoatlantici infligge alla nostra economia e alle condizioni di vita dei cittadini. Non abbiamo i dati che sarebbero necessari. Ma sappiamo, ad esempio, che già a un anno dall’inizio della guerra le imprese europee lamentavano, solo in danni diretti, ben 100 miliardi di euro di perdite (P. Hollinger, E. Sugiura, O. Telling, European companies suffer €100bn hit from Russia operations, in “Financial Times”, 6 agosto 2023). Non possiedo informazioni più aggiornate di questa ampiezza. Non è difficile tuttavia immaginare che i danni si siano accresciuti nel frattempo con l’estendersi dell’impegno militare. La Germania in recessione ne costituisce una prova eloquente. Ma sul piano sociale per l’Italia le cose appaiono ancor più drammatiche. Un dato su tutti: la condizione di povertà assoluta, aumentata in tutti questi anni, e che con la guerra si è come cronicizzata, passando da 5,6 milioni, del 2021 ai di 5,7 milioni del 2023 confermati nel 2024.

Ora appare evidente che nei prossimi mesi per i paesi dell’Europa, e dell’Italia in particolare, si apre uno scenario di drammatica insostenibilità. La nuova amministrazione USA pretende un contributo alle spese Nato da parte dei vari stati membri del 5% del PIL. Che per il nostro Paese, gravato da un enorme debito, costituirà un esborso semplicemente distruttivo. Anche perché combinato con prospettive economiche manifestamente avverse. L’America first di Trump vuol dire interessi commerciali privilegiati per l’impero e dunque probabili barriere alle merci in arrivo considerate competitive. Per un’economia come la nostra, che in tutti questi anni ha puntato sulle esportazioni, deprimendo salari e consumi, la politica americana metterà in gravissima difficoltà molte nostre imprese e dunque il governo, il nostro ceto politico filoatlantico. Questi ultimi dovranno spiegare in maniera persuasiva la loro ostinazione suicida nel sostenere la guerra, non solo alle masse popolari sempre più impoverite, ma anche alle aziende minacciate nella loro sopravvivenza.

In queste difficoltà difficilmente aggirabili i movimenti per la pace (i cui dirigenti dovrebbero studiare con più serietà le cause della guerra, senza cedere alle favole da rotocalco dei nostri media), devono diventare ancor più credibili proponendo la fine delle sanzioni alla Russia. Un’operazione orchestrata dagli USA per gli stessi interessi che ora perseguirà Trump. Dobbiamo avere il buon senso e il coraggio di rivendicare la ripresa delle nostre relazioni vantaggiose con quel grande Paese, da cui non abbiamo ricevuto nessun danno o minaccia. È una scelta di pace, ma necessaria per un Paese che vuole sottrarsi alle prepotenze dell’amministrazione americana. Una richiesta da accompagnare con la proposta di una conferenza internazionale di pace, destinata a ricreare sicurezza e fiducia nelle relazioni tra stati. Dobbiamo ridare alla politica il protagonismo che è stato compromesso dall’infedeltà imperialistica degli USA, senza la quale sarà impossibile salvare l’umanità dalla catastrofe atomica. L’Italia è la sede del papa, potrebbe costituire il centro di questa grande iniziativa. Un progetto in cui coinvolgere le più diverse forze e culture e che potrebbe aprire un’era di pace drammaticamente necessaria anche per cura della biosfera, la nostra casa comune, che nel frattempo rischia il collasso.

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mercoledì 15 gennaio 2025

Davide Grasso, Lorenzo Guadagnucci e Fabio Anselmo scrivono sull'omicidio di Ramy Elgaml e sullo Scudo penale agli agenti

Le notizie su Ramy sono sempre relegate a fine tg. Ma non è cronaca: è politica di primo piano - Davide Grasso

Ieri studenti e polizia si sono scontrati a Torino per i fatti emersi in relazione alla morte di Ramy Elgaml. Oggi è iniziato il coro dello scandalo e delle condanne. C’è da stupirsi, al contrario, che di fronte alle circostanze che emergono sulla morte del giovane milanese non stia accadendo molto di più. È evidente che in Italia non siamo abituati alla rabbia sociale molto più amara che eventi del genere possono provocare.

La risposta alla comunicazione radio che annuncia la fatale caduta dello scooter – “Bene!” – mi ha fatto ricordare la frase “uno a zero per noi” pronunciata da una poliziotta quando è stato ucciso Carlo Giuliani a Genova.

Diverse personalità politiche dichiarano che le proteste di Torino, o altre che verranno, assumono forme “inaudite” e “intollerabili” perché hanno fatto bersaglio di oggetti gli edifici che ospitano le attività delle forze dell’ordine o gli agenti che le difendevano. Intollerabile è invece che le notizie riguardanti Ramy continuino ad essere relegate a uno scampolo di minuti a fine telegiornale, come se si trattasse di cronaca quando questa è politica, e di primissimo piano.

Le redazioni, inoltre, non lesinano commenti didascalici e ridondanti agli audio dei militari, dove si sottolinea che le frasi degli inseguitori erano ora “reazioni istintive”, ora erano proferite “senza sapere quanto grave fosse l’incidente”. Una forma di deferenza verso i carabinieri, o forse un timore mal riposto nell’esercitare una critica aperta e libera alle forze dell’ordine – ciò che ci è invece perfettamente consentito dalle leggi e garanzie per cui hanno lottato le generazioni passate.

Il problema è profondo. Ogni notte ha luogo un numero elevato di inseguimenti, pedinamenti, fermi, controlli e arresti. Della maggior parte di questi noi non conosciamo nulla. Il loro racconto è affidato alla redazione dei verbali degli agenti stessi e la stessa magistratura deve basarsi su queste sole fonti. In casi eccezionali un inseguimento aggressivo, un interrogatorio muscolare o l’uso di un’arma d’ordinanza finiscono male. Allora i riflettori si accendono: ma senza sottolineare che quella potrebbe essere la goccia del vaso immenso che ha fatto traboccare.

Un abuso emerge perché qualcuno muore, perché c’era una telecamera o perché chi ne era vittima era un cittadino in grado di rivolgersi alla stampa o pagarsi un avvocato. Molti di coloro che incontrano le forze dell’ordine non possiedono tuttavia le garanzie della cittadinanza, altri non conoscono la legge e quindi i limiti delle pretese che possono avanzare gli agenti di pubblica sicurezza nei confronti di un cittadino; altri infine sono intimoriti da una narrazione pubblica che riproduce il mito della polizia in prima linea per la difesa dei più deboli, avvalorata prevalentemente, oltre che da comizi politici, da milioni di euro spesi in soap opera che raccontano di innamorati e amanti col distintivo. L’amore è una cosa bella, ma in questo caso noi dobbiamo moltiplicare l’abuso che emerge nel caso eccezionale per tutte quelle volte in cui l’assenza di prove, la distruzione eventuale delle testimonianze e la presunzione di impunità comunicativa e istituzionale induce individui in divisa a tenere comportamenti pericolosi, violenti o criminali.

Per questo le manifestazioni pubbliche e di piazza contro gli abusi e gli omicidi compiuti da carabinieri e polizia, lungi dall’essere un problema, sono fondamentali: esse hanno lo stesso significato storico di quelle contro i femminicidi e le violenze di genere, e possono cambiare la nostra società grazie a una presa di coscienza generale che l’Italia ha rimandato da troppo tempo. La mobilitazione di piazza, inoltre, non è qualcosa che si possa contrapporre alla ricerca della giustizia nelle sedi legali. Le due cose sono complementari ed entrambe irrinunciabili. La sfida processuale è irta di ostacoli quando gli indagati o gli imputati sono coloro che redigono i verbali, maneggiano le prove, forse commettono dei delitti e hanno stretti o stabili rapporti di collaborazione con alcuni magistrati. Tuttavia, come hanno dimostrato le battaglie per Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, è nella procedura penale che emerge almeno in parte il dettaglio microscopico, e per questo tanto più istruttivo, delle pratiche di violenza e omertà.

Non è la magistratura, tuttavia, a dover trarre le debite conclusioni sociologiche, storiche e politiche da fatti di sangue di questo genere. Questo compito è della società tutta, a partire da chi abita le città e i quartieri dove queste e altre prevaricazioni – ad opera della polizia o di chiunque altro – avvengono. I giornalisti e gli intellettuali dovrebbero invece dedicare più attenzione a queste tematiche e avere più coraggio, comprendendo che la morte in tali circostanze di un giovane milanese di seconda generazione deve occupare il centro della comunicazione pubblica e del dibattito in Italia. Forse non è stato messo a fuoco cosa attende la società futura se forti ed estese mobilitazioni, sociali e culturali, non iniziano a risolvere questo problema, qui e ora.

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La morte di Ramy Elgaml e quel festival della menzogna che ricorda tanto Genova 2001 - Lorenzo Guadagnucci

Commenti sprezzanti verso la vita degli altri, verbali distorti, testimonianze inquinate. Dal video dell’inseguimento a Milano nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024 emergono scenari inquietanti. In attesa che la Procura faccia chiarezza, ci sono però delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero già rispondere. Per non recitare la stessa ignominiosa parte di 24 anni fa

“Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade. No, merda, non è caduto”. Possiamo partire da qui, da questa frase detta da un carabiniere durante l’assurdo inseguimento nelle vie di Milano, per qualche breve considerazione su quanto avvenuto nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024.

Il fatto è noto: uno scooter, con due giovani a bordo, non si ferma all’alt dei carabinieri per un controllo e due volanti si mettono all’inseguimento; è una corsa a tutta velocità nella notte, pericolosissima soprattutto per gli occupanti dello scooter e per eventuali passanti; dura ben otto chilometri, a un certo punto anche lungo una strada imboccata contromano.

Fino all’epilogo: lo scooter che svolta a sinistra, l’auto dei carabinieri così vicina che forse lo sperona, lo schianto dei due mezzi contro un palo del semaforo e la morte immediata del passeggero dello scooter, Ramy Elgaml, mentre il conducente, ferito gravemente, riuscirà a cavarsela dopo aver trascorso un periodo in ospedale in stato di coma.

C’è un’indagine in corso con sei carabinieri e il conducente dello scooter indagati per vari reati (omicidio stradale, falso, depistaggio, favoreggiamento personale a vario titolo per i carabinieri; omicidio stradale, resistenza a pubblico ufficiale per il giovane) e toccherà ai periti chiarire alcuni fatti: per esempio, se la gazzella dei carabinieri abbia speronato la moto nella curva fatale, o se in precedenza vi siano stati altri contatti fra i due mezzi e di che tipo (fortuiti o volontari?). E se davvero al testimone sfiorato dallo schianto, che aveva ripreso la scena col suo telefonino, sia stato immediatamente imposto, come ha dichiarato, di cancellare il video.

Qualcosa intanto però possiamo dire, a cominciare dalle frasi registrate quella notte. Oltre al “chiudilo che cade” e al “no, merda, non è caduto”, ci sono anche un “vaffanculo, non è caduto” e un “bene” alla fine della storia, quando arriva la notizia che i due ragazzi “sono caduti” (ma, va detto, senza nulla specificare sulle conseguenze per i due giovani).

Sono frasi che vengono giustificate con l’adrenalina e la concitazione del momento, ma che fanno pensare a scenari inquietanti, vista anche la dinamica del fatto: un inseguimento assurdo, rischiosissimo, a prima vista sproporzionato.

Sono frasi che fanno venire in mente un’altra nota registrazione, di 24 anni fa: il dialogo tra un’agente della questura e una volante di polizia il 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova. A un certo punto si parla di quel che sta avvenendo in piazza, delle “zecche” -cioè i manifestanti- che stanno impegnando le forze dell’ordine, e l’operatrice, commentando i fatti, se ne esce con un eloquente “intanto, uno a zero per noi, yeah”, riferito all’uccisione in piazza Alimonda di Carlo Giuliani, colpito il giorno prima alla tempia da una pallottola sparata da un carabiniere e subito dopo calpestato dal “Defender” dell’Arma. “Che simpatica”, replica il poliziotto all’altro capo del telefono. 

In attesa che la Procura chiarisca i fatti e chieda, se necessario, di processare i responsabili di eventuali abusi e reati, ci sono delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero rispondere.

Hanno chiesto conto di quelle frasi? Si sono domandati, come noi, se per caso i carabinieri quella notte abbiano perso il senso della misura? Si sono chiesti se sia ben chiaro, a chi lavora nelle forze dell’ordine, che le vite degli altri, qualunque sia il loro profilo, -“sono dei delinquenti, dei rapinatori, se la sono cercata”, è stato detto a posteriori dei due ragazzi sullo scooter, quasi a giustificare l’esito letale- sono vite da tutelare, non da mettere a rischio?

Hanno compreso quanto sia grave la denuncia del testimone sulla cancellazione del video dal telefonino? Sono domande che hanno una cornice: si ricordano, carabinieri e ministro, come andò al G8 di Genova? Sicuramente sì, ma, per sicurezza, possiamo rammentarglielo noi.

A Genova non ci furono solo violenze ingiustificate, torture di massa e un omicidio, fu anche una fiera del falso negli atti pubblici: falso il verbale dell’arresto di massa alla scuola Diaz, falsi innumerevoli verbali di singoli arresti eseguiti per strada, falsi i verbali del carcere delle torture a Bolzaneto.

Fu il festival della menzogna, della tortura e del disprezzo per i diritti e anche per la dignità dei cittadini. Fu il punto più basso per la credibilità delle nostre forze dell’ordine e non si è più risaliti, per la precisa ragione che i vertici delle nostre polizie fecero muro, non chiesero scusa, non indagarono le ragioni profonde di condotte così gravi. E non fecero autocritica. 

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Scudo penale agli agenti: col grimaldello della sicurezza, il governo smantella la separazione dei poteri - Fabio Anselmo

La ‘sicurezza’ è il grimaldello che il governo sta usando per smantellare il principio costituzionale di separazione dei poteri. La propaganda costituisce per la sua azione mezzo e scopo insieme. Con la propaganda si può creare il caos e nel caos tutto si può accettare, anche gli imbarazzanti strafalcioni della comunicazione istituzionale così come la si può leggere sui media odierni.

Dopo gli attacchi ai magistrati dell’immigrazione, gli interventi a gamba tesa (istituzionale) a danno dei pm del processo di Palermo, le intimidazioni esplicite a quel tribunale materializzate da violente prese di posizione da parte di esponenti del governo, dimentichi delle proprie responsabilità, ora si sbandierano, sul cadavere di Ramy Elgaml, norme tanto fantasiose quanto eversive in danno del nostro Paese, tutte dichiaratamente ostili alle indagini per fatti analoghi a quello di Ramy, oggi, di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, ieri.

Stiamo parlando di questo e di niente altro di diverso. In caso di sospetti abusi, gli agenti non vanno iscritti nel registro degli indagati se non in caso di prove ‘evidenti’. Nella maggioranza delle vicende giudiziarie si raggiunge l’evidenza della prova solo ad esito dell’indagine, quasi mai subito. Si tratta di un concetto che esprime un ossimoro giuridico.

Due semplici osservazioni:
– scudo penale per difenderli dalla legge penale che loro stessi sono chiamati a far rispettare e che gli stessi pm non possono certo derogare. Ma gli agenti sì?
– essere indagato come atto dovuto è una garanzia per colui che è sottoposto ad indagini per un fatto che può essere un reato. Gli consente di partecipare ad accertamenti anche tecnici che potranno essere determinanti per fare chiarezza sugli accadimenti oggetto di investigazione. Si chiama diritto di difesa. Perchè impedirlo agli agenti diversamente da tutti gli altri cittadini? Perché se la verità sulla quale si farà luce sarà scomoda per l’agente allora non si potranno utilizzare le prove raccolte contro di lui perchè non ha potuto difendersi. Impunità.

L’ex magistrato Roberto Settembre dice oggi che in uno Stato democratico le forze dell’ordine hanno il monopolio dell’uso della forza “ma questo dato di fatto – continua – ha alla base un presupposto essenziale: la responsabilità.”

Leggo i proclami governativi che si susseguono in queste ore approfittando del clamore provocato a seguito della morte di Ramy. Qualcuno parla di dare la competenza per l’avvio della prima fase dell’istruttoria di questo tipo di procedimenti al ministro dell’Interno (sic!). Al limite, in seconda battuta ma non si capisce bene, alle ‘procure delle corti d’appello’ perché sarebbero ‘più morbide’. Spero che i cronisti non abbiano ben compreso.

A prescindere dall’abnormità di un sistema di tal fatta sotto ogni punto di vista, quello Costituzionale in primis, credo sia sempre opportuno cercare di avere una prospettiva concreta di messa a terra di queste idee profuse in libertà e sotto l’entusiasmo avanti l’indubbia efficienza della propria propaganda sulla opinione comune.

Ve l’immaginate voi cosa sarebbe accaduto dopo la morte di Stefano Cucchi? Allora si espresse con tutta la forza e il vigore possibili non il ministro dell’Interno ma quello della Difesa, Ignazio La Russa, che giurò sull’estraneità dei fatti per i Carabinieri coinvolti nel suo arresto. Fummo costretti, infatti, a partecipare a sei anni di processi sbagliati che vedevano imputati gli agenti della penitenziaria e testimoni di accusa i carabinieri. Il resto è storia nota.

Per Ramy si è subito espresso colui che si ritiene ministro dell’Interno in pectore, Salvini. I carabinieri si sono comportati correttamente. Amen.

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Interferenze ucraine in Italia: Kiev MINACCIA la nostra libertà di espressione?

 



Villa Paradiso e la vergognosa russofobia del Comune di Bologna - Leonardo Sinigaglia

 

Il consiglio comunale di Bologna, guidato dal membro del Partito Democratico Matteo Lepore, ha deliberato la rimozione di “Villa Paradiso” dall’elenco delle Case di Quartiere della città. La struttura ospita da cinque anni un centro sociale culturale che si trova quindi fattivamente “sfrattato”. Quella che potrebbe sembrare una semplice decisione amministrativa è in realtà squisitamente politica, perché il centro sociale di Villa Paradiso ha la grave “colpa” di  aver provocato più di un grattacapo ai dirigenti piddini del comune, organizzando, oltre a numerose iniziative sociali, eventi culturali volti a infrangere la cupola di propaganda e mistificazione della realtà costruita dalla macchina mediatica della NATO, dando spazio a temi come il genocidio in corso in Palestina, il ricordo dei partigiani sovietici nella Resistenza italiana, le cause e la realtà del conflitto in corso in Donbass e Ucraina.

L’azione “non-allineata” del centro sociale aveva già portato a diversi episodi di censura, con l’ordine dato da Lepore di desistere dall’organizzare conferenze e proiezioni di documentari, pena la revoca della concessione della struttura. Mancando i presupposti per poter procedere in questo senso, essendosi i gestori sempre adeguati alle liberticidi direttive, il sindaco ha pensato di risolvere la questione alla radice, “chiudendo” la casa di quartiere. Così facendo Bologna si qualifica a tutti gli effetti come “capitale italiana della censura”.

Incontenibile la gioia della fanatica atlantista Pina Picierno, vicepresidente del cosiddetto “Parlamento europeo”, che sul suo profilo X scrive: “Molto bene la decisione del @comunebologna che revoca la convenzione con l’associazione filorussa che gestiva Villa Paradiso; Villa Paradiso sarà destinata al welfare e al benessere dei cittadini e non più alla diffusione di disinformazione di stampo putiniano; La consapevolezza delle istituzioni locali che la disinformazione del regime putiniano è un problema di sicurezza nazionale cresce giorno dopo giorno e continueremo ad essere vigili e attenti, ognuno per la propria parte di responsabilità. Intanto grazie al Sindaco di Bologna Matteo Lepore per questa importante iniziativa[1].

Quello che Lepore e la sua ghenga piddina ammettono solo a denti stretti è orgogliosamente sbandierato dalla Picierno: una struttura è stata sottratta all’uso pubblico unicamente per le opinioni politiche dei suoi gestori, che rifiutano di essere arruolati nella guerra della NATO contro la Russia sottomettendosi a narrazioni tossiche frutto di vere e proprie operazioni psicologiche e propagandiste.

Il vergognoso atto del Comune di Bologna è la “degna” conclusione di più di un anno di campagna censoria e persecutoria volta disperatamente a combattere l’oggettiva tendenza che porta gli italiani sempre più lontani dalle bugie della NATO e li spinge a cercare punti di vista alternativi. Non si tratta di un caso isolato: solo in questa settimana ben due strutture comunali, a Tortona e Arezzo, sono state negate per motivi politici a chi voleva organizzare la proiezioni di documentari prodotti da Russia Today. L’ambasciata di Kiev in Italia è scesa direttamente in campo per cercare invece di impedire la proiezione di un documentario a Resana, in provincia di Treviso. In questo caso si tratta del documentario  “I bambini del Donbass”, che getta luce su coloro che, dal 2014 ad oggi, nella loro vita non hanno conosciuto altro che la guerra e le bombe sganciate dalle milizie del regime di Kiev.

E’ chiaramente in atto una campagna a livello nazionale dalla chiara matrice euro-atlantica che mira a combattere la libertà d’informazione ed esercitare una censura politica preventiva su qualsiasi iniziativa culturale. Questa campagna, nonostante gli sforzi degli agenti del potere imperialista, dal “Parlamento europeo” ai consigli comunali, è destinata a fallire, non solo per il declino dell’egemonia statunitense, ma per la tenace resistenza di chi in Italia continua ad opporsi all’esistenza di una narrazione a senso unico, di un monopolio informativo atlantista che avvelena le coscienze della nostra popolazione.

[1] https://x.com/pinapic/status/1877811615518560272?t=TNq8bgpIuqkskcy3o-DNrQ&s=19

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martedì 14 gennaio 2025

Genocidio, la nuova normalità - Chris Hedges

 

Israele e il governo degli Stati Uniti continueranno il Genocidio a Gaza per molti mesi finché i palestinesi non saranno annientati o cacciati dalla loro Patria e il Grande Israele non sarà consolidato.


Il  regalo di commiato di Joe Biden di 8 miliardi di dollari (7,7 miliardi di euro) in vendite di armi allo Stato di Apartheid di Israele conferma la raccapricciante realtà del Genocidio a Gaza. Questa non è la fine. Non è nemmeno l’inizio della fine. Questa è una guerra permanente e infinita progettata non per distruggere Hamas o liberare gli ostaggi israeliani, ma per sradicare, una volta per tutte, i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. È la spinta finale per creare un Grande Israele, che includerà non solo Gaza e la Cisgiordania, ma anche pezzi di Libano e Siria. È il culmine del sogno Sionista. E sarà pagato con fiumi di sangue: palestinesi, libanesi e siriani.

Il Ministro dell’Agricoltura e della Sicurezza Alimentare di Israele Avi Dichter stava probabilmente offrendo stime prudenti quando ha detto: “Penso che resteremo a Gaza per molto tempo. Credo che la maggior parte delle persone capisca che Israele passerà anni in una specie di situazione tipo quella della Cisgiordania in cui si entra e si esce e forse si rimane lungo il Corridoio Netzarim”.

Lo Sterminio di massa richiede tempo. È anche costoso. Fortunatamente per Israele, la sua Lobby negli Stati Uniti ha una presa soffocante sul Congresso, sul nostro processo elettorale e sulla narrazione dei media. Gli americani, sebbene il 61% sostenga la fine delle spedizioni di armi a Israele, ne pagheranno le conseguenze. E coloro che esprimono dissenso saranno trascinati a forza nei buchi neri Sionisti dove le loro voci saranno messe a tacere e le loro carriere minacciate o distrutte. Donald Trump e i Repubblicani hanno un aperto disprezzo per la democrazia, ma lo stesso vale per i Democratici e Joe Biden.

Gli Stati Uniti hanno fornito 17,9 miliardi di dollari (17,2 miliardi di euro) in aiuti militari a Israele da ottobre 2023 a ottobre 2024, un aumento sostanziale rispetto ai già 3,8 miliardi di dollari (3,65 miliardi di euro) di aiuti militari che gli Stati Uniti forniscono a Israele ogni anno. Si tratta di un primato per un singolo anno. Il Dipartimento di Stato ha informato il Congresso che intende approvare altri 8 miliardi di dollari (7,7 miliardi di euro) di vendite di armi prodotte negli Stati Uniti a Israele. Ciò fornirà a Israele più sistemi di guida GPS per bombe, più proiettili di artiglieria, più missili per aerei da caccia ed elicotteri e più bombe, tra cui 2.800 bombe MK-84 non guidate, che Israele ha l’abitudine di sganciare su accampamenti di tende densamente affollati a Gaza. L’onda di pressione delle 2.000 libbre (900 kg) delle bombe MK-84 polverizza gli edifici e stermina la vita entro un raggio di 400 metri. L’esplosione, che frantuma i polmoni, squarcia gli arti e fa scoppiare le cavità nasali fino a centinaia di metri di distanza, lascia dietro di sé un cratere largo 15 metri e profondo 11. Israele sembra aver usato questa bomba per assassinare Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, a Beirut il 27 settembre 2024.

Il Genocidio e la decisione di alimentarlo con miliardi di dollari segnano una svolta inquietante. È una dichiarazione pubblica degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Europa che il Diritto Internazionale e Umanitario, sebbene palesemente ignorato dagli Stati Uniti in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria e una generazione prima in Vietnam, è privo di significato. Non gli renderemo nemmeno omaggio a parole. Questo sarà un mondo hobbesiano in cui le nazioni che hanno le armi di distruzione di massa più avanzate stabiliscono le regole. Coloro che sono poveri e vulnerabili si inginocchieranno in segno di sottomissione. Il Genocidio a Gaza è il modello per il futuro. E chi vive nel Sud del mondo lo sa.

I “diseredati della Terra” che non hanno armi sofisticate, che non hanno eserciti moderni, unità di artiglieria, missili, marina, unità corazzate e aerei da guerra, risponderanno con strumenti rudimentali. Faranno corrispondere singoli azioni di ritorsione a massicce campagne di Terrorismo di Stato.

Siamo sorpresi di essere odiati? Il terrore genera terrore. Lo abbiamo visto a New Orleans, dove un uomo che si dice sia stato ispirato dallo Stato Islamico di Siria e Iraq (ISIS) ha ucciso 14 persone quando ha lanciato il suo fuoristrada in mezzo alla folla il giorno di Capodanno. Succederà ancora. Ma siamo chiari. Siamo stati noi a iniziare. Il vuoto morale dell’attentatore suicida nasce dal nostro vuoto morale.

La frustrazione di Israele per la tenace Resistenza a Gaza, in Cisgiordania, nello Yemen e in Libano aumenta la sete di sangue. I membri del Comitato per gli Affari Esteri e Difesa di Israele hanno inviato una lettera al Ministro della Difesa Israel Katz, invitando il governo a intensificare l’assedio di Gaza.

“Il controllo efficace del territorio e della popolazione è l’unico mezzo per ripulire le linee nemiche dalla Striscia di Gaza e, naturalmente, per una vittoria decisiva, piuttosto che impantanarsi in una guerra di logoramento, dove la parte più logorata è Israele”, scrivono. “Pertanto finiamo per continuare inviare i nostri soldati in quartieri e vicoli che sono già stati conquistati da loro molte volte”.

Israele, si legge nella lettera, deve effettuare “l’eliminazione a distanza di tutte le fonti di energia, ovvero carburante, pannelli solari e qualsiasi attrezzatura rilevante (tubi, cavi, generatori ecc.)”. Dovrebbe assicurare “l’eliminazione di tutte le fonti alimentari, compresi magazzini, acqua e tutte le attrezzature rilevanti (pompe idrauliche ecc.)” e deve facilitare “l’eliminazione a distanza di chiunque si muova nell’area e non esca con una bandiera bianca durante i giorni dell’assedio effettivo”.

La lettera conclude che “dopo queste azioni e i giorni di assedio su coloro che rimangono, l’IDF deve entrare gradualmente e condurre una completa Pulizia dei covi nemici. Questo dovrebbe essere fatto nella Striscia di Gaza settentrionale, e in modo simile in qualsiasi altro territorio: accerchiamento, evacuazione della popolazione in una zona umanitaria e assedio efficace fino alla resa o alla completa eliminazione del nemico. È così che agisce ogni esercito, e così deve agire l’IDF”.

In breve, Sterminare i primitivi.

Shamsud-Din Jabbar, il quarantaduenne veterano militare statunitense che ha travolto con il suo fuoristrada la folla che festeggiava il Capodanno a New Orleans uccidendo 14 persone e ferendone altre 35, ci ha parlato nella lingua che usiamo per parlare al mondo arabo. Morte indiscriminata. Prendere di mira gli innocenti. L’insensibile indifferenza per la vita. La sete di vendetta. La demonizzazione degli altri. La convinzione che il destino, Dio o la civiltà occidentale abbiano decretato che abbiamo il diritto di imporre la nostra visione del mondo con la violenza. Jabbar, che ha pubblicato video in rete in cui professava il suo sostegno allo Stato Islamico, è il nostro sosia assassino. Non sarà l’ultimo.

“Quando una società viene espropriata, quando le ingiustizie che le vengono imposte sembrano insolubili, quando il ‘nemico’ è onnipotente, quando il proprio popolo viene bestializzato come insetti, scarafaggi, ‘bestie a due zampe’, allora la mente va oltre la ragione”, scrive Robert Fisk in: La Grande Guerra per la Civiltà (The Great War for Civilization). “Diventa doppiamente attraente: dall’idea di una vita dopo la morte e dalla possibilità che questa convinzione possa in qualche modo fornire un’arma con un potenziale più che nucleare. Quando gli Stati Uniti trasformarono Beirut in una base NATO nel 1983 e usarono la loro potenza di fuoco contro le guerriglie musulmane sulle montagne a Est, le Guardie Rivoluzionarie Iraniane a Baalbek promettevano che Dio avrebbe liberato il Libano dalla presenza americana. All’epoca scrissi, ironicamente, che questa sarebbe stata probabilmente una battaglia titanica: la tecnologia statunitense contro Dio. Chi avrebbe vinto? Poi il 23 ottobre 1983 un attentatore suicida solitario si lanciò con un camion carico di esplosivi contro il complesso dei Marines degli Stati Uniti all’aeroporto di Beirut e uccise 241 militari americani in sei secondi. In seguito ho intervistato uno dei pochi marines sopravvissuti ad aver visto l’attentatore. “Tutto quello che ricordo”, mi disse, “è che il tizio stava sorridendo”.

Questi atti di terrorismo, o nel caso di Gaza, Cisgiordania, Libano e Yemen, di Resistenza armata, vengono usati per giustificare infinite uccisioni di massa. Questa Via Dolorosa porta a una spirale di morte globale, soprattutto perché la crisi climatica riconfigura il pianeta e gli organismi internazionali, come le Nazioni Unite e la Corte Penale Internazionale, diventano appendici vuote.

Stiamo seminando denti di drago in Medio Oriente e, come nell’antico mito greco, questi denti stanno spuntando dal terreno come guerrieri infuriati determinati a distruggerci.

 

Traduzione di Beniamino Rocchetto  – Incvictapaelstina.org

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Capolavoro di servilismo – Alberto Capece

 

La cosa che mi colpisce è la “resilienza” degli italiani. Uso lo stesso termine improprio tirato fuori dai media al tempo del covid per evitare di dire resistenza che ha comunque un significato positivo, perché la vicenda Abedini non merita altro. Resilienza a ciò che era evidente fin da subito e che adesso il ministero della Giustizia (chiamiamolo così per carità di patria) ha chiarito definitivamente: prendiamo ordini da Washington e tutta la vicenda non è stata altro che una chiara dimostrazione del nostro status meno che coloniale.  Non è solo che il ministro Nordio e insieme a lui tutta la giurisdizione dapprima hanno avallato l’arresto di Abedini e la sua permanenza in carcere senza alcuna base giuridica, ma poi lo hanno miracolosamente scarcerato  dopo la deplorevole contrattazione fatta dalla Meloni in Usa.

Il fatto è che il ministero non fa mistero (perdonate il gioco di parole) di tale patteggiamento sottobanco quando in una nota afferma che il trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti prevede che questa misura venga adottata solo nel caso in cui i reati siano punibili in entrambi i Paesi. Ma questo si sapeva fin dall’inizio della vicenda e dunque non si capisce in base a cosa si debba l’arresto e la detenzione di Abedini, tanto più che la richiesta degli Stati Uniti non era accompagnata da un mandato internazionale, ma era una richiesta unilaterale. Ci hanno insomma detto chiaramente che per compiacere quello che passa per un alleato, si è proceduto a un arresto illegale e privo di qualsiasi base giuridica, visto che Abedini in Italia non ha commesso alcun reato, se non quello di atterrare in un territorio sottoposto di fatto alla giurisdizione americana.

Ora bisogna vedere che cosa la Meloni ha concesso agli Usa per evitare una cosiddetta figura di merda di fronte a una richiesta di estradizione che violava la lettera e lo spirito dei trattati. O forse tutta questa farsa è servita per copiare i dati contenuti nel computer dell’ingegnere. In ogni caso adesso è in debito con Trump e la brutta figura c’è stata lo stesso, nonostante qualcuno privo di testa pensante, parli di capolavoro diplomatico. No, si è trattato solo di un capolavoro di servilismo. Certo i giornaloni hanno tentato di distrarre l’attenzione buttandola sul patetico, facendo parlare gli avvocati tutti presi dal loro ruolo salvifico, descrivendo le lacrime dell’ingegnere finalmente liberato, facendo insomma cronaca spicciola e distrattiva. La realtà rimane però intatta: Cecilia Sala avrebbe potuto evitare tre settimane in balia del patriarcato durante le quali non solo è stata privata degli occhiali, a dimostrazione della ferocia degli iraniani. ma ha dovuto mangiare solo riso e carne, invece dei manicaretti di qualche chef stellato.

Certo non so cosa sia meglio, ma a parte gli scherzi ci troviamo di fatto di fronte a un’aberrazione giuridica di cui nessuno sembra voler prendere atto, per non dover ammettere che le nostre leggi non soltanto sono di fatto sottoposte alla volontà di Bruxelles, ma anche direttamente a quella di Washington. Del resto cosa aspettarsi da un  Paese che svende le proprie telecomunicazioni vitali a Musk che anche senza cariche specifiche è comunque un personaggio eminente della nuova amministrazione Usa? Così la destra fa la medesima figura che fece la sinistra con la strage del Cermis quando si consentì ai piloti dei marines che avevano provocato 20 morti, tranciando i cavi di una funivia, giusto per divertirsi, di essere processati in America e non in Italia.

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