lunedì 28 ottobre 2024

Il fascismo in marcia e la debolezza degli anticorpi - Livio Pepino

Quello che va in scena in questi giorni, con le intimidazioni del Governo nei confronti della magistratura, non è un conflitto tra giudici e potere politico, ma una tappa del processo di fascistizzazione dello Stato. Una tappa che presenta singolari analogie con quanto accaduto negli anni Venti, anche nella debolezza della reazione dei vertici istituzionali contro la deriva eversiva.

da Volere la Luna

 

Lo abbiamo detto e scritto molte volte (da ultimo: https://volerelaluna.it/commenti/2024/07/26/ma-i-giudici-sono-migliori-dei-politici/) ma conviene ripeterlo: quello che va in scena in questi giorni non è, come afferma la quasi totalità dei media, un conflitto tra magistratura e potere politico, ma una tappa del processo sempre più evidente di fascistizzazione dello Stato.

Andiamo con ordine.

Nell’approssimarsi della sentenza nei confronti di Matteo Salvini per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio per avere, come ministro dell’Interno, bloccato per 20 giorni l’approdo a Lampedusa della nave Open Arms con a bordo 147 migranti soccorsi in mare e all’indomani della decisione del Tribunale di Roma che, in (doverosa) applicazione dei principi di diritto affermati in una sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia dell’Unione europea, ha negato la convalida del trattenimento nel centro di Gjadër di 12 migranti ivi tradotti manu militari dalle autorità italiane (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/21/il-grande-bluff-del-trasferimento-dei-migranti-in-albania/), la presidente del consiglio, uno stuolo di ministri, sottosegretari e parlamentari e la stessa seconda carica dello Stato hanno messo in scena uno spettacolo dai tratti genuinamente eversivi. Diversi gli attori e le parti in commedia (rectius, in tragedia): alcuni hanno gagliardamente marciato, petto in fuori, sul Tribunale di Palermo per intimidire i giudici preposti al processo contro il leader leghista; altri – e talora gli stessi – si sono esibiti in insulti («Se qualcuno ha preso il Tribunale per un centro sociale ha sbagliato mestiere»), volgarità da osteria («I magistrati fanno entrare in Italia cani e porci»), minacce («Quel magistrato andrebbe licenziato»); altri infine – il presidente del Senato in primis – hanno sostenuto la necessità di modificare la Costituzione per mettere al loro posto i giudici. Identica l’impostazione di fondo, pur diversamente modulata. Al vicepresidente del Consiglio Salvini («Ho compiuto i fatti che mi vengono contestati per proteggere i confini nazionali da sbarchi incontrollati di stranieri irregolari sulle nostre coste, e nessun giudice quindi può condannarmi perché ho agito per proteggere un interesse dello Stato, esercitando il “sacro dovere del cittadino” di “difesa della Patria” sancito dall’articolo 52 della Costituzione»: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/04/23/salvini-la-difesa-della-patria-e-lo-stato-di-diritto/) fa eco la presidente del Consiglio Meloni («Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo») in un coro sintetizzato, infine, dal giurista (si fa per dire) dell’allegra compagnia, il guardasigilli Nordio, che pronuncia la sua sentenza: «Se la magistratura esonda dai propri poteri attribuendosi delle prerogative che non può avere come quella di definire uno Stato sicuro deve intervenire la politica che esprime la volontà popolare. Noi rispondiamo al popolo, se il popolo non è d’accordo con quello che facciano noi andiamo a casa. La magistratura, che è autonoma e indipendente, non risponde a nessuno e quindi proprio per questo non può assumersi prerogative che sono squisitamente ed essenzialmente politiche».

Tacciare il giudice sgradito di esondare dal ruolo e – il passo è breve e conseguente – di essere “comunista” è stato un leitmotiv della stagione berlusconiana (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/06/toghe-rosse-e-calzini-azzurri/) ma con precedenti illustri in epoca fascista, come ricorda Piero Calamandrei in Elogio dei giudici scritto da un avvocato (risalente al 1935) raccontando la storia di un miliardario che, per sottrarre il figlio dallo “sconcio” di un processo per omicidio colposo stradale, mette sul piatto una somma ingente e, all’obiezione del difensore che «la giustizia non è una merce in vendita», sbotta nella conclusione: «Ho capito, abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista».

Ma oggi c’è un salto di qualità: la teorizzazione (e la conseguente pretesa) che la giurisdizione abbia un ruolo servente nei confronti della politica, ne debba affiancare e sostenere le scelte, interpretandone e traducendone lo spirito e avendo come stella polare l’utilità contingente e non il rigoroso rispetto delle regole. È il ribaltamento dello Stato di diritto, la cui essenza – per usare le parole del più autorevole teorico del garantismo, Luigi Ferraioli – è il fatto che «ci sia un giudice indipendente che interviene a riparare i torti subiti, a tutelare il singolo anche se la maggior parte o persino la totalità degli altri si schierano contro di lui, ad assolvere in mancanza di prove quando l’opinione comune vorrebbe la condanna o a condannare in presenza di prove quando la medesima opinione vorrebbe l’assoluzione».

Il conflitto con i giudici è solo la punta di un iceberg fatto di insofferenza per ogni regola. E ciò mentre, per la nostra carta fondamentale, l’investitura del voto non attribuisce un potere assoluto e incontrollato, come precisato nell’articolo 1 (scritto in italiano, a beneficio del guardasigilli, notoriamente a disagio con la lingua francese delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, e posto all’inizio della Carta, con conseguente possibilità di agevole e immediata lettura), in forza del quale «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»: forme e limiti analiticamente indicati negli articoli successivi che prevedono, tra l’altro, diritti e libertà inviolabili tutelati da una magistratura soggetta soltanto alla legge. Di più: il fatto che l’atto politico incontri i limiti del diritto (anche quello penale) è un’acquisizione fondamentale delle democrazie, come hanno insegnato, tra gli altri, la Camera dei Lords di Londra, che, con sentenza 25 novembre 1988, ha negato l’immunità all’ex presidente del Cile Augusto Pinochet Ugarte per i crimini commessi durante la dittatura, e la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con sentenza 22 marzo 2001, ha respinto i ricorsi dell’ex Ministro della Difesa e dell’ex presidente del Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca, condannati dai giudici nazionali per gli omicidi di 133 persone che cercavano di oltrepassare il muro di Berlino, con la motivazione che persino in uno Stato autoritario le autorità politiche, anche nell’esercizio della legittima facoltà di difesa delle frontiere, dovevano rispettare le leggi penali poste a tutela del bene della vita e della libertà delle persone (https://www.domenicogallo.it/2024/10/meloni-e-salvini-uniti-a-berlino/).

Democrazie, si è detto. Già, perché è proprio questo che si sta cercando di abbandonare. C’è, nella nostra storia nazionale, un precedente attualissimo, persino nelle parole utilizzate. Un precedente che riguarda i passaggi dalla democrazia al fascismo e il consolidamento del regime. «La magistratura – proclamò solennemente in Parlamento, il 19 giugno 1925, il guardasigilli Alfredo Rocco – non deve far politica di nessun genere. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista. Questo nella immensa maggioranza dei casi accade. I magistrati politicanti costituiscono una trascurabile eccezione, una insignificante minoranza». Che cosa significava essere apolitici lo precisò lo stesso Rocco appena quattro anni dopo: «Lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Fino ad arrivare al 1939 quando i più alti magistrati del regno – come ricorda ancora Piero Calamandrei – si radunarono in divisa a palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al riconoscimento del ministro di avere finanche superato «i limiti formali della norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge», applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala al canto di inni della Rivoluzione…

Il precedente è tanto inquietante quanto pertinente e proietta un’ombra ulteriore. Il fascismo si affermò grazie all’ignavia del re e all’accettazione della classe dirigente dell’epoca. Dobbiamo, dunque, interrogarci oggi sull’adeguatezza della resistenza dei vertici delle istituzioni alla deriva in atto. E la risposta non autorizza ottimismi se finanche il presidente della Repubblica, di fronte all’aggressione eversiva nei confronti della magistratura, si ferma all’auspicio che «le istituzioni non si limitino a visioni di parte, perché collaborare rafforza la democrazia»… Non siamo di fronte a una semplice mancanza di collaborazione tra poteri!

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domenica 27 ottobre 2024

L'elenco di quello che BlackRock possiede oggi in Italia - Alessandro Volpi

 

Per rendere chiaro il peso di BlackRock nell'economia italiana può essere utile elencare tutte le società quotate a cui partecipa: un elenco in cui sono comprese le grandi partecipate pubbliche, le multiutility, l'energia, la moda, le banche, la meccanica, le armi e altro ancora.

Ecco l'elenco: A2a, Amplifon, Azimut, Mps, Banca Generali, Banco Bpm (dove ha il 4,75), Banca Mediolanum, Bper Banca, Brunello Cucinelli, Buzzi, Campari, Diasorin, Enel (dove ha il 5%), Eni (dove ha superato il 5%), Erg, Ferrari, FinecoBank (dove ha quasi il 10%), Generali (dove ha il 3%), Hera, Interpump, Intesa San Paolo (dove ha il 4%), Inuit, Iveco, Leonardo, Mediobanca (dove ha il 5%), Moncler (dove ha il 5%), Nexi, Pirelli, Poste italiane, Prysmian (dove ha il 7%), Recordati, Saipem, Snam (dove ha il 5%), Stellantis (dove ha il 4%), StMicroeletronics (dove ha il 5%), Telecom, Tenaris, Terna (dove ha il 5%), Unicredit (dove ha più del 7%) e Unipol.


Il totale del valore azionario di BlackRock in queste società è pari a 25 miliardi di euro. Nel giro di pochissimi anni, la politica italiana è riuscita a trovarsi un nuovo padrone, che ha realizzato formidabili dividendi mentre l'economia reale languiva e le retribuzioni diventavano tra le più basse d'Europa. Non un bel modello.

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Lo Stato è una forma di organizzazione brutale, razzista e disumana - John Holloway

 

Quanto accade a Gaza e in Libano svela l’essenza di ciò che è lo Stato nella società capitalista, anche se cerca di convincerci che è qualcosa di neutrale. Lo Stato non solo divide i cittadini dagli stranieri ma, sia lo Stato autoritario che quello democratico, esclude chi vuole cambiare l’ordine delle cose: lo fa con le elezioni (“Vi abbiamo ascoltato, ora andate a casa e ci vediamo tra qualche anno”) e sempre più spesso con la repressione. Per questo dobbiamo proteggere i tentativi che prendono forma ovunque di far nascere una cultura politica che, fuori dallo Stato, si riappropria di quello che lo Stato esclude. Scrive John Holloway: “Il capitale attraversa un processo ripetuto di crisi e lo Stato si concentra sempre più sul sostegno al capitale che si trova sul suo territorio, in modo che sopravviva… Ciò implica un’intensificazione della competizione con altri Stati e anche un’intensificazione della disciplina sociale all’interno del territorio dello Stato. È in questo contesto che bisogna comprendere l’ascesa dell’autoritarismo e del militarismo nel mondo in questo momento e le tendenze all’espansione della guerra. Gaza non è un’eccezione, ma l’espressione di una tendenza globale. Siamo tutti Gaza, non solo per empatia con i palestinesi, ma anche perché guardiamo al nostro possibile futuro”

 

È impossibile parlare di Stato in questo momento senza parlare di Gaza. Svela lo Stato, non solo lo Stato israeliano, ma l’essenza di ciò che lo Stato è come forma di organizzazione sociale: brutale, razzista, disumana. Ho quindi deciso di cambiare il titolo del mio articolo. Invece di “Stato e capitale: lo stato dell’arte nel dibattito sulla derivazione dello Stato”, ho deciso di intitolarlo “Lo Stato è una forma di organizzazione brutale, razzista e disumana. E allora? Cosa facciamo?”.

Cosa c’entra questo con il “dibattito sulla derivazione” dello Stato? Molto. Il dibattito (diventato importante negli anni Settanta, intende lo stato come una componente necessaria del capitalismo, ndr) è condotto in termini molto astratti, ma ha implicazioni politiche molto forti e rilevanti. Gli stalinisti lo capirono quando giustiziarono Pashukanis nel 1937.

Quali sono queste implicazioni? In primo luogo, che lo Stato è uno Stato capitalista. Ha l’apparenza di essere uno Stato potenzialmente neutrale all’interno della società capitalista, ma non lo è. È uno Stato capitalista. Immagino che tutti voi abbiate votato per Lula contro Bolsonaro alle ultime elezioni, io avrei fatto lo stesso. Ma questo non cambia il fatto che Lula è a capo di uno Stato capitalista, parte di quella dinamica di distruzione che è il capitalismo.

Questa è la prima conclusione del “dibattito derivazionista”. Lo Stato è uno Stato capitalista. Non è che abbia una relativa autonomia dal capitale, come sostenuto da Poulantzas, le cui idee sono ancora molto influenti. Contrariamente alle apparenze, lo Stato è una forma particolare di capitale, di relazioni capitalistiche, una forma che genera la propria apparenza di neutralità. Il Capitale è un insieme di forme particolari che proclamano la loro autonomia ma fanno parte della stessa totalità. Nel Capitale, Marx critica questa autonomia delle forme sociali attraverso un processo di derivazione di una forma dall’altra: merce-valore, lavoro astratto dal valore, merce-lavoro-valore astratto-denaro, capitale dal denaro e così via. Se pensiamo a qualsiasi società come a una coesione sociale, una totalità più o meno coerente di relazioni sociali, allora il metodo derivazionista di Marx nel Capitale dimostra la forza di questa coesione, il carattere chiuso di questa totalità. Ciò che mancava era la derivazione dello Stato. Una questione molto importante, perché sembra che lo Stato non faccia parte di questa coesione, di questa totalità chiusa, ma che possa funzionare come contrappeso al capitale. L’obiettivo dei partecipanti al dibattito, così come quello di Pashukanis nel 1924, era quindi quello di dimostrare che, nonostante le apparenze, lo Stato fa parte dello stesso insieme capitalistico di forme sociali, cioè della stessa totalità capitalistica. È un modo specificamente capitalista di relazionarsi l’uno con l’altro.

Quindi No allo Stato. Questa è la conclusione più importante del dibattito, per me. La particolarizzazione della forma statale viene talvolta confusa con l’idea di un’autonomia relativa dello Stato. Ma non è così. L’idea di autonomia relativa è un’argomentazione a favore della partecipazione allo Stato, come la intendeva Poulantzas e come la intendono persone come Álvaro García Linera, l’ex vicepresidente della Bolivia. Parlare di particolarizzazione dello Stato, non di autonomia relativa dello Stato, significa dire innanzitutto che lo Stato è una forma capitalistica di relazioni sociali. Se siamo contro il capitale, siamo contro lo Stato come forma di organizzazione sociale.

Ci sono in realtà due linee di argomentazione che emergono dal dibattito sulla derivazione dello Stato (e immagino che entrambe siano presenti qui). Entrambe sono importanti, sono molto diverse, ma non sono necessariamente incompatibili. La prima può essere intesa come una teoria dello Stato, la seconda come una teoria dell’antistato.

La prima si concentra sullo Stato. Se intendiamo lo Stato come una particolare forma di capitale, ne conseguono diverse cose.

In primo luogo, se l’esistenza dello Stato deriva dal capitale, è chiaro che lo Stato deve promuovere la riproduzione del capitale. In altre parole, deve garantire la massima redditività possibile del capitale. Se non lo fa, il capitale andrà altrove. Se non lo fa e il capitale se ne va, ci saranno più disoccupazione e più povertà. Se non lo fa, non ci saranno abbastanza tasse per pagare i dipendenti pubblici. Questo impone limiti molto forti a ciò che un governo di sinistra può fare. Lula può essere migliore di Bolsonaro, ma non dobbiamo aspettarci troppo dal governo di Lula. Non si tratta di un tradimento delle lotte della classe operaia, ma semplicemente del fatto che è bloccato in un’istituzione che gli impone limiti molto forti.

Questo diventa più chiaro se teniamo presente che lo Stato non è uno Stato, ma più di duecento Stati, una molteplicità di Stati. Questa considerazione non era presente nei primi contributi al dibattito, ma è stata il tema principale di un articolo di Claudia von Braunmühl, che ha detto che dobbiamo comprendere lo Stato non a prescindere dal capitale nazionale, ma dal mercato mondiale o dal movimento globale del capitale. C’è un capitale che si muove nel mondo alla ricerca del massimo profitto possibile e ci sono molti Stati che cercano di attrarlo, dicendo al capitale “vieni qui, vieni qui, ti darò tutto ciò di cui hai bisogno”. Gli Stati sono Stati competitivi, come dice Joachim Hirsch in un libro successivo, esistono in competizione tra loro per attirare i capitali. Il capitale non ha nazionalità.

Un altro aspetto che emerge dal dibattito e che influisce sul modo di intendere lo Stato è che la sua particolarizzazione comporta una vera e propria separazione tra Stato e capitale. Lo Stato deve garantire le migliori condizioni per la redditività del capitale, ma non sa necessariamente come farlo. La politica pubblica è necessariamente un processo di tentativi ed errori, come sottolineato nel lavoro di Alberto Bonnet e Laura Álvarez.

Inoltre, questa reale separazione tra capitale e Stato è importante per la riproduzione del capitale nel suo complesso. Se uno Stato diventa troppo legato a un gruppo di capitali, come spesso accade, può ostacolare la riproduzione del capitale nel suo complesso. Da qui l’importanza delle elezioni come ristrutturazione periodica del rapporto tra Stato e capitale.

Un’altra implicazione del dibattito per la comprensione dello Stato è che ci dà modo di capire le tendenze storiche dell’organizzazione statale. Se lo Stato deve garantire l’accumulazione del capitale, il suo sviluppo è segnato dallo sviluppo dell’accumulazione. Il capitale attraversa un processo ripetuto di crisi e di possibile ristrutturazione, e lo Stato si concentra sempre più sul sostegno al capitale che si trova sul suo territorio, in modo che sopravviva e si ristrutturi attraverso la crisi. Ciò implica un’intensificazione della competizione con altri Stati e anche un’intensificazione della disciplina sociale all’interno del territorio dello Stato. È in questo contesto che bisogna comprendere l’ascesa dell’autoritarismo e del militarismo nel mondo in questo momento e le tendenze all’espansione della guerra. Gaza non è un’eccezione, ma l’espressione di una tendenza globale. Siamo tutti Gaza, non solo per empatia con i palestinesi, ma anche perché guardiamo al nostro possibile futuro.

Credo che tutto questo sia molto importante, ma ho detto poco fa che ci sono due linee di argomentazione che emergono dal dibattito sulla derivazione statale. La prima è quella che ho appena illustrato e che probabilmente è accettata da tutti coloro che seguono il dibattito. L’altra sottolinea il rifiuto dello Stato come forma di organizzazione sociale.

La particolarizzazione dello Stato in relazione al capitale è allo stesso tempo una particolarizzazione in relazione alla società. La violenza necessaria per mantenere una società basata sullo sfruttamento è separata dallo sfruttamento e si costituisce in uno Stato apparentemente neutrale. Da qui il titolo dell’articolo di Wolfgang Müller e Christel Neusüss che ha dato il via al dibattito: “L’illusione dello Stato sociale e la contraddizione tra lavoro salariato e capitale”. Da qui anche la nota domanda di Pashukanis: “Perché la dominazione di classe non rimane ciò che è, cioè la subordinazione di una parte della popolazione a un’altra parte?”. L’esercizio della violenza e dell’amministrazione sociale necessaria per mantenere l’intero sistema di sfruttamento si concentra in questa istanza chiamata Stato. È un recinto, un “ritorno a casa”. La costituzione dello Stato è la creazione di un corpo di funzionari pubblici che lavorano a tempo pieno per amministrare la società.

Devono farlo in modo da promuovere l’accumulazione del capitale. Ciò richiede l’esclusione di logiche alternative, la costruzione quotidiana di una logica che sostenga l’accumulazione, cioè il dominio del denaro, della redditività. Se sorge un movimento per cambiare qualche aspetto sociale, lo Stato risponde “Sì, vi abbiamo sentito, ora andate a casa, lo risolveremo”. Con questo si chiude la porta e si cerca di risolvere o gestire il problema in modo da non interrompere l’accumulo di capitale. L’esistenza dello Stato è un processo quotidiano di esclusione, di esclusione di noi. Questa esclusione è necessaria per promuovere l’accumulazione del capitale. È una caratteristica di qualsiasi Stato, autoritario o democratico. Le elezioni sono una forma di esclusione molto efficace: “Vi abbiamo ascoltato, ora andate a casa e ci vediamo tra sei anni, altrimenti dovremo reprimervi”.

È un processo di esclusione. La parola “processo” è molto importante. Lo Stato è una forma di relazioni capitalistiche, come il valore, il denaro e così via. Ma tutte queste relazioni sono processi che incontrano continuamente resistenza. Le forme capitalistiche sono infatti processi-forma, processi di formazione, processi che generano contro-processi.

Anche lo Stato è un processo che genera opposizione. È un processo di esclusione che genera una lotta contro l’esclusione. Il “vai a casa” che è al centro della forma di Stato si confronta con “No, non ce ne andiamo. Vogliamo risolvere questo problema. Non vogliamo essere esclusi dal determinare lo sviluppo della nostra società”. In generale, lo Stato, come forma di relazione sociale, come esclusione, si confronta con un anti-Stato, con la pratica e il progetto di fare le cose in modo diverso, secondo un’altra logica. La teoria dello Stato ci porta a una teoria dell’antistato, della politica antistatale. Questo per me è l’aspetto più importante del dibattito sulla derivazione dello Stato.

Cosa intendo per politica antistatale? È una politica che combatte la particolarizzazione dello Stato, cioè una politica che cerca di superare l’esclusione che è insita nell’esistenza dello Stato. Se lo Stato è costituito dalla sua separazione dalla società, l’antistato si muove nella direzione opposta, come un riassorbimento del pubblico all’interno dello Stato.

Innanzitutto, un aspetto che tocca tutti noi che lavoriamo nello Stato. Sappiamo di lavorare in un’istituzione capitalista, ma siamo contro il capitalismo. Lavoriamo dentro e contro lo Stato. Se lavoriamo nell’istruzione, ad esempio, siamo consapevoli di far parte di un sistema progettato per produrre lavoratori sfruttabili, ma cerchiamo di andare nella direzione opposta, di dare un contenuto critico o anticapitalista alla nostra attività di insegnamento. Se lavoriamo nella sanità, siamo consapevoli di far parte di un sistema che tratta i pazienti come oggetti e cerchiamo di creare un altro concetto di medicina e di assistenza medica. Si tratta di pensare alla nostra attività quotidiana come a un’attività che va contro la forma-stato, contro la particolarizzazione della società. Un libro che un gruppo di noi ha realizzato (come London Edinburgh Weekend Return Group), nel 1979, In and Against the State, ha cercato di esplorare questo tipo di politica quotidiana anti-statale e ha avuto un successo sorprendente, il che mi fa pensare che ci sono molti di noi che, per un motivo o per l’altro, lavorano all’interno dello Stato ma allo stesso tempo cercano di camminare nella direzione opposta. Anche questo congresso può essere inteso in questi termini: un congresso all’interno di un’istituzione statale che cerca di promuovere la riflessione e l’azione antistatale.

Quando penso alla politica antistatale, penso anche alla grande tradizione delle lotte anticapitaliste. I movimenti contro il capitalismo sono stati storicamente organizzati in due modi principali. Da un lato, abbiamo la tradizione dei partiti: i partiti comunisti, socialisti e rivoluzionari. I partiti hanno come punto di riferimento centrale lo Stato e cercano di conquistarlo per cambiare la società. Ciò implica l’adozione della forma statale, come modo di relazionarsi, di comportarsi, di organizzarsi. Il risultato è sempre stato la riproduzione dello Stato che esclude. È vero che ci sono stati tentativi da parte degli Stati di superare questa esclusione (come i bilanci partecipativi a Porto Alegre o i consigli di quartiere promossi dal governo chavista in Venezuela), ma si sono sempre inseriti nel quadro generale del rispetto della priorità dell’accumulazione del capitale.

L’altra tradizione di organizzazione anticapitalista è quella assembleare, consiliare, comunale: la comune di Parigi, i soviet russi, le comuni in Spagna, le assemblee curde e zapatiste. Sono antistatali nel senso che, anche se non usano il linguaggio del dibattito sulla derivazione dello Stato, cercano di superare la particolarizzazione caratteristica della forma statale. Cercano cioè di riappropriarsi dell’organizzazione sociale che viene espropriata dallo Stato, cercano di riassorbire l’amministrazione sociale all’interno della società stessa. La natura capitalista dello Stato non è una questione di chi lo controlla, ma di una logica di esclusione che si adatta alla riproduzione del capitale. Il rifiuto del capitale è un rifiuto di questa logica e la formulazione e l’attuazione di un altro modo di fare le cose con altre forme di organizzazione.

Comprendere lo Stato come forma sociale ci aiuta a capire l’urgenza del suo superamento. La particolarizzazione in relazione alla società significa astrazione, identificazione, categorizzazione, cioè disumanizzazione delle persone. Lo Stato non si rapporta a me, John, come persona con le mie idiosincrasie, le mie follie, i miei amori, ma come cittadino o straniero, come numero, come anziano. Mi impone delle categorie, mi impone una logica basata sull’astrazione, sull’identificazione, su una grammatica. Si può dire “beh, sì, ma non importa”. Oppure si può dire che questa separazione di base tra cittadino e straniero, questa separazione che è una condizione costitutiva dello Stato come forma di dominio territoriale, ha portato al massacro di milioni e milioni di persone nel secolo scorso e continua a causare la miseria dell’enorme e crescente numero di migranti in tutto il mondo. Lo Stato come forma di organizzazione è un allenamento costante all’identificazione astratta e disumanizzante.

È una scuola di fascismo. Questa disumanizzazione dell’altro, implicita nell’esistenza dello Stato come forma di relazione sociale, è ciò che rende possibile il genocidio che si sta perpetrando a Gaza in questo momento. Da qui il nuovo titolo del mio articolo: Lo Stato è una forma di organizzazione brutale, razzista e disumana. E allora? Cosa facciamo?


Testo dell’intervento realizzato per un seminario (Debate sobre a Derivação do Estado: contribuições para a Economia Política da Saúde e o Trabalho) promosso dal 16 al 20 settembre a San Paolo, in Brasile, da diversi gruppi formati da ricercatori, docenti e studenti universitari. Traduzione di Comune.

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sabato 26 ottobre 2024

L’età dell’oro: il Burkina Faso nazionalizza le miniere e ora attende la reazione delle compagnie occidentali - Simona Losito

 

Il Burkina Faso è uno dei maggiori produttori d’oro del continente africano. L’estrazione aurifera rappresenta una delle principali fonti di reddito per lo Stato e un pilastro dell’economia nazionale. Tuttavia, le risorse minerarie del Paese sono storicamente state sfruttate in gran parte da compagnie straniere, con benefici spesso limitati per la popolazione locale. Recentemente, il governo ha annunciato una svolta epocale: la nazionalizzazione delle miniere d’oro. Ad agosto ci sono state le prime nazionalizzazioni ai danni di società britanniche e statunitensi. Prima la miniera di Boungou, gestita dalla britannica Endeavour Mining, e quella di Wahgnion, gestita dalla statunitense Burkina Lilium Mining.

Questa decisione fa parte di una serie di azioni che vede diverse nazioni africane riappropriarsi delle risorse della propria terra al fine di riorientare i profitti a proprio vantaggio, soprattutto da parte di quegli Stati che puntano all’indipendenza dalle direttive neocoloniali occidentali. Si parla in particolar modo delle nazioni del Sahel, nonché luoghi in cui negli ultimi anni si sono verificati numerosi colpi di Stato per rovesciare i governi filoccidentali. E il Burkina Faso è tra questi.

La notizia ha suscitato sia entusiasmi sia preoccupazioni. Da un lato nazionalizzare le miniere d’oro significa ricondurre le risorse naturali e i possibili guadagni nelle mani dello Stato, accertandosi che i profitti dell’estrazione mineraria rimangano nel Paese. Dall’altro, le conseguenze per il mercato internazionale sono inevitabili.

Le miniere del Burkina Faso

Il Burkina Faso ha iniziato a sfruttare il suo potenziale minerario su larga scala negli anni Novanta, quando sono state aperte le porte agli investimenti stranieri in seguito a una serie di riforme economiche. Le compagnie minerarie multinazionali, attratte dall’abbondanza di giacimenti e dalla relativa stabilità politica, hanno iniziato a operare nel Paese, instaurando relazioni con il governo per lo sfruttamento delle risorse.

Durante il periodo coloniale, la Francia esercitava un controllo diretto sull’economia delle sue colonie, sfruttando le risorse minerarie per alimentare l’industria nazionale. Dopo l’indipendenza, nel 1960, l’influenza francese non è scomparsa del tutto, ma si è trasformata in un modello neocoloniale e ha continuato a mantenere un’influenza economica e politica attraverso accordi bilaterali e la presenza di aziende francesi.

Nel tempo, anche società provenienti da nazioni come Canada, Australia, Regno Unito e Russia sono diventate protagoniste del panorama minerario. La Russia è l’unica a non essere penalizzata, perché il governo locale ha stretti rapporti economici e militari con Mosca .

Nonostante l’aumento della produzione e delle esportazioni, i benefici per la popolazione locale sono stati spesso limitati. Il settore ha generato introiti significativi per il governo e per le imprese, ma ha anche sollevato polemiche riguardo alle condizioni di lavoro nelle miniere, all’impatto ambientale e alla distribuzione iniqua della ricchezza. Gran parte dei profitti è infatti rimasta nelle mani delle compagnie straniere, con una parte marginale che ritorna sotto forma di tasse e royalties allo Stato.

Nazionalizzare: obiettivi e motivazioni

La decisione del governo burkinabé di nazionalizzare le miniere si inserisce in un contesto di crescente desiderio di autonomia economica e di recupero della sovranità sulle risorse nazionali. Il Burkina Faso, come altri Paesi africani, ha assistito a una crescente disillusione nei confronti del modello di sfruttamento delle risorse dominato dalle multinazionali, che spesso lascia indietro la popolazione locale. La nazionalizzazione rappresenta un tentativo di invertire questa tendenza, garantendo che una quota maggiore delle entrate derivate dall’estrazione aurifera rimanga all’interno del Paese, finanziando infrastrutture, servizi pubblici e programmi di sviluppo economico.

Attraverso la gestione diretta delle miniere, lo Stato può ottenere maggiori entrate da investire in programmi di sviluppo e lotta alla povertà, affrontando la disparità economica che affligge il Paese. Inoltre, la gestione pubblica delle miniere può contribuire a creare nuove opportunità di lavoro per la popolazione locale, migliorando le condizioni di lavoro e garantendo maggiori tutele.

Dal punto di vista interno, la nazionalizzazione delle miniere d’oro rappresenta una sfida per il Paese. Se da un lato il Governo può aumentare i propri guadagni diretti dal settore minerario, dall’altro si presenta la necessità di sviluppare capacità amministrative e tecniche per gestire efficientemente le operazioni. La sfida sarà quella di dimostrare di essere in grado di gestire autonomamente le proprie risorse senza rischiare che le miniere nazionalizzate non riescano a raggiungere gli stessi livelli di produttività e profittabilità delle compagnie straniere che hanno dominato il settore fino ad ora.

La nazionalizzazione potrebbe anche creare tensioni sociali interne. Nonostante le promesse del governo di redistribuire i benefici alla popolazione, esiste la possibilità che le risorse aggiuntive vengano mal gestite o che le élite politiche ne traggano maggior vantaggio rispetto alle comunità locali. In un Paese che lotta contro la povertà e instabilità sociale, qualsiasi percezione di iniquità nella distribuzione delle ricchezze minerarie potrebbe alimentare conflitti.

Ripercussioni sul mercato internazionale

Oltre agli effetti interni, la decisione del Burkina Faso avrà sicuramente conseguenze sul mercato globale dell’oro. Con le multinazionali coinvolte nella produzione aurifera del Paese, la nazionalizzazione potrebbe portare a tensioni diplomatiche e legali. Le compagnie minerarie straniere, che hanno investito ingenti somme in infrastrutture e operazioni nel Paese, potrebbero tentare di bloccare la nazionalizzazione attraverso cause legali internazionali o tramite la pressione dei loro governi. La nazionalizzazione segna anche una rottura simbolica e concreta con l’influenza storica della Francia nella regione.

Un altro possibile effetto è una riduzione della produzione di oro nel breve termine, poiché le strutture nazionalizzate potrebbero non essere immediatamente in grado di operare alla stessa capacità delle compagnie private. Ciò potrebbe incidere sui prezzi dell’oro a livello globale, aumentando la volatilità del mercato. Tuttavia, l’impatto sul mercato globale dipenderà anche dalla reazione di altri Paesi produttori di oro, molti dei quali stanno anch’essi riconsiderando le proprie politiche di gestione delle risorse naturali.

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venerdì 25 ottobre 2024

Lager albanesi e chiusura dei porti: il governo di pericolosi incompetenti scopre la magistratura - Fabio Marcelli

 

I membri dell’infausto e nocivo governo Meloni hanno scoperto, di recente, l’esistenza della legge e della magistratura, due diaboliche forze sovversive che minacciano di impedire i loro insulsi show, indegni teatrini coi quali cercano di propinare le loro false e disastrose soluzioni a un popolo sempre più povero e demoralizzato.

Lo show si svolge su di un terreno che, istruiti da spin doctor del calibro di Musk o poco meno, ritengono particolarmente propizio per mettere in azione le loro armi di distrazione di massa, destinate a distogliere l’attenzione dai loro continui fallimenti e dalla loro “politiche” meschinamente reazionarie e filopadronali. Mi riferisco ovviamente al tema delle migrazioni, trasformato in minaccia esistenziale per la nostra società che invece sono loro a disgregare ogni giorno di più colla loro proverbiale inettitudine e l’esasperata coltivazione del “particulare” proprio e delle loro famiglie allargate.

“Non passa lo straniero” è lo slogan lanciato da lorsignori con esilarante rievocazione delle vicende del Piave, mettendo al posto delle armate austroungariche gli esseri umani espulsi dai loro contesti originari dalle politiche di guerra, devastazione ambientale, oppressione sociale e rapina delle risorse che l’Occidente neocoloniale continua a promuovere in tutto il mondo, anche se fortunatamente con sempre minore successo.

Meloni, fra le sue numerose sparate pre-elettorali, aveva promesso il blocco navale per impedire l’invasione. Di fronte all’evidente impraticabilità di questa misura, aveva ripiegato, oltre che sugli ostacoli ai salvataggi, sulla spedizione dei migranti in Albania. Senonché il suo geniale progetto si è infranto proprio sulla legge europea. Cifre esorbitanti sono state spese per una passeggiata marittima ben poco rilassante di sedici migranti fino alle coste albanesi e ritorno.

Il secondo esempio, del pari illuminante è costituito dalle imprese di Salvini, convinto all’epoca che indossando le vesti di strenuo difensore dei confini patrii avrebbe guadagnato qualche consenso colla chiusura dei porti.

Per sfortuna loro e fortuna del popolo italiano l’Italia non è ancora il Regno di Pulcinella ed esiste sempre e comunque una magistratura non disposta a farsi intimidire e che costituisce oggi a ben vedere una delle poche risorse istituzionali e sociali di cui siamo ancora dotati, tanto è vero che l’uomo col busto del Duce sul comodino, autentico cervello giuridico della squalificata congrega, la vuole fare fuori come potere autonomo per trasformarla in mero ammennicolo del potere.

In preda a comprensibile disappunto e indignazione degna di migliori cause essi rivolgono quindi oggi i propri strali contro i giudici, che vorrebbero proni ai loro voleri anticostituzionali, obbedienti e servili. Con involontario umorismo il ministro Nordio parla di giudici “che esondano” quasi si trattasse dei corsi d’acqua che a causa di cambiamento climatico, tradizionale incuria del territorio, paralisi burocratica e insensibilità politica, stanno facendo da tempo danni e vittime crescenti in Italia. E si propone di metterli a posto lui, quasi ignorasse le guarentigie costituzionali di cui la magistratura è circondata e che costituiscono elemento fondamentale e irrinunciabile di ogni Stato di diritto degno di questo nome.

Analoghe minacce e intimidazioni, sia di stampo governativo che criminale diffuso, sono state rivolte contro i giudici di Palermo che nei prossimi giorni potrebbero condannare Salvini per il suo comportamento illegittimo e ingiustificabile.

Vero è che i migranti costituiscono oggi parte integrante e sempre più importante di coloro che, col loro ingrato e faticoso lavoro quotidiano, specie nei settori dove vige il padronato più selvaggio, come l’agricoltura e la logistica, portano sulle loro spalle l’Italia. Il razzismo istituzionale sfoggiato e messo in pratica da lorsignori serve anche a mantenerli in uno stato di privazione dei diritti frantumando l’unità di classe e colpendo al cuore il principio di eguaglianza formale e sostanziale che costituisce l’architrave della Costituzione repubblicana.

Del resto lo Stato costituzionale di diritto è minacciato fortemente in Italia anche da tanti altri punti di vista, come la foga bellicista antirussa in spregio all’art. 11, il sostegno al genocidio dei Palestinesi, la cosiddetta autonomia differenziata che fa a pezzi l’unità nazionale, il cosiddetto premierato che mina gli equilibri istituzionali previsti dalla Costituzione, l’atteggiamento permissivo nei confronti di evasione fiscale, corruzione e altre illegalità della classe dominante che emerge dal tentativo di smantellare l’opera di contrasto di questi fenomeni che dilagano oggi in Italia insieme a povertà e degrado ambientale e sociale, mentre i governanti falliti continuano ad allestire i loro fallimentari spettacoli con sempre minor gradimento di critica e di pubblico.

Che ci possono propinare impuniti solo per la perdurante assenza di un’opposizione politica e sociale che sia degna di questo nome, come dimostrano soprattutto le poco edificanti vicende del Pd.

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L’esperienza del linguaggio è un’esperienza politica - Giorgio Agamben

 

In che modo sarebbe possibile cambiare veramente la società e la cultura in cui viviamo? Le riforme e persino le rivoluzioni, pur trasformando le istituzioni e le leggi, i rapporti di produzione e gli oggetti, non mettono in questione quegli strati più profondi che danno forma alla nostra visione del mondo e che occorrerebbe raggiungere perché il mutamento fosse davvero radicale. Eppure noi abbiamo quotidianamente esperienza di qualcosa che esiste in modo diverso da tutte le cose e le istituzioni che ci circondano e che tutte le condiziona e determina: il linguaggio. Abbiamo innanzitutto a che fare con cose nominate, eppure continuiamo a parlare a vanvera e come capita, senza mai interrogarci su che cosa stiamo facendo quando parliamo. In questo modo è proprio la nostra originaria esperienza del linguaggio che ci rimane ostinatamente nascosta e, senza che ce ne rendiamo conto, è questa zona opaca dentro e fuori di noi che determina il nostro modo di pensare e di agire.
La filosofia e i saperi dell’Occidente, confrontati con questo problema, hanno creduto di risolverlo supponendo che ciò che facciamo quando parliamo è mettere in atto una lingua, che il modo in cui il linguaggio esiste è, cioè, una grammatica, un lessico e un insieme di regole per comporre i nomi e le parole in un discorso. Va da sé che ciascuno sa che, se dovessimo ogni volta scegliere consapevolmente le parole da un vocabolario e metterle altrettanto coscienziosamente insieme in una frase, noi non potremmo in alcun modo parlare. Eppure, nel corso di un processo secolare di elaborazione e di insegnamento, la lingua-grammatica è penetrata dentro di noi ed è diventata il potente dispositivo attraverso il quale l’Occidente ha imposto il suo sapere e la sua scienza su tutto il pianeta. Un grande linguista ha scritto una volta che ogni secolo ha la grammatica della sua filosofia: sarebbe altrettanto e forse più vero il contrario, e cioè che ogni secolo ha la filosofia della sua grammatica, che il modo in cui abbiamo articolato la nostra esperienza del linguaggio in una lingua e in una grammatica determina fatalmente anche la compagine del nostro pensiero. Non è un caso che l’insegnamento della grammatica si faccia nella scuola elementare: la prima cosa che un bambino deve apprendere è che quello che fa quando parla ha una certa struttura e che a quell’ordine deve conformare la sua ragione.
È dunque solo nella misura in cui riusciremo a mettere in questione questo assunto fondamentale, che una vera trasformazione della nostra cultura diventerà possibile. Dobbiamo provare a ripensare da capo che cosa facciamo quando parliamo, calarci in quella zona opaca e interrogarci non sulla grammatica e il lessico, ma sull’uso che facciamo del nostro corpo e della nostra voce mentre le parole sembrano uscire quasi da sole dalle nostre labbra. Vedremmo allora che in quest’esperienza ne va dell’apertura di un mondo e delle nostre relazioni con i nostri simili e che, pertanto, l’esperienza del linguaggio è, in questo senso, la più radicale esperienza politica.
 

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giovedì 24 ottobre 2024

Poveri, immigrati e donne: i capri espiatori delle destre nazionaliste - Alessandro Scassellati Sforzolini

 

L'intreccio fra neoliberismo e autoritarismo di destra a cui stiamo assistendo genera povertà devastante, abbandono del welfare, e crisi del ceto medio. Questa analisi approfondita offre strumenti per reagire allo status quo

 “Politiche di austerity e stigmatizzazione dei poveri: analisi e riflessioni critiche”, il testo di Alessandro Scassellati Sforzolini che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore, è contenuto nel volume Poverty watch 2024 del Cilap

Le dimensioni quantitative di una stagnazione che sembra irreversibile
Il rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del Paese (maggio 2024) ha offerto una fotografia impietosa, sebbene il Pil sia tornato ai livelli precedenti la crisi economica globale del 2007 (ma nel 2024 crescerà solo dello 0,7%): un Paese precario, in cui è cresciuta la povertà a livelli record, è crollato il potere di acquisto, è cresciuto il lavoro povero, i salari sono fermi, è funestato dalle disuguaglianze ed è quasi punitivo per i giovani che studiano e/o lavorano (per cui ogni anno oltre 450mila giovani tra i 18 e i 24 anni abbandonano la scuola prematuramente e circa 55mila se ne vanno via dall’Italia). A questo possiamo aggiungere che il debito pubblico è dato in crescita da qui ai prossimi due anni, fino al 140% del Pil, con un deficit che difficilmente scenderà sotto il 4%. Ciò, mentre il nuovo Patto di stabilità impone regole stringenti per il rientro entro i parametri stabiliti: un punto di Pil all’anno per il debito, mezzo punto per il deficit, che può scendere allo 0,25% nel caso di piani di aggiustamento settennali. Per l’Italia, tutto questo comporterà una cura dimagrante stimata tra i 13 e i 25 miliardi di euro annui.
Per quanto riguarda il tasso di occupazione (numero di persone occupate sulla popolazione tra i 15 e i 64 anni), l’Istat ha certificato un aumento del 2,4% rispetto al 2019, raggiungendo il 61,6% (salito al 62,3% nel luglio 2024), un valore comunque di gran lunga dietro Spagna (65,1%), Francia (68,5%) e Germania (77,1%), lontano quasi dieci punti dalla media europea e fanalino di coda della Ue. Per quanto riguarda i disoccupati, il tasso di inattività per coloro tra i 15 e i 64 anni è il più alto della Ue (33,4%). Come vari analisti ricordano da anni, in Italia il problema è che in pochi lavorano, e in tanti hanno persino rinunciato a cercare il lavoro.
Se tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni medie annue sono aumentate del 16% in termini monetari, il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%. Tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 17,3%, e le retribuzioni contrattuali orarie solo del 4,7%. Un abisso, per cui il lavoro si è impoverito ulteriormente perché il potere di acquisto dei salari non è stato sostenuto dai dovuti aumenti contrattuali cospicui e tempestivi (il 50% dei contratti nazionali di lavoro è scaduto da almeno tre anni). Da ottobre 2023 le retribuzioni sono aumentate, ma solo perché l’inflazione è diminuita. Una tendenza confermata nel primo trimestre del 2024, ma ancora lontana da un recupero completo di quello che i lavoratori hanno perso. Tra il 2014 e il 2023 la spesa equivalente delle famiglie, in termini reali, è diminuita del 5,8%, con picchi oltre l’8% per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi sulla cui spesa hanno un peso maggiore i beni energetici e alimentari. Intanto, anche la propensione al risparmio è diminuita fino al 6,3% lo scorso anno: si è guadagnato meno e si è dato fondo ai risparmi, senza tuttavia essere in grado di spendere come un tempo.

Nonostante il buon andamento del «mercato del lavoro» che ha registrato tra il 2022 e il 2023 un aumento dell’1,8% in entrambi gli anni, sono cresciuti contemporaneamente i lavoratori poveri («working poor»), quelli che sono in «povertà relativa», anche nei settori «di punta» (quelli del «made in Italy» e della metalmeccanica che lavorano per i mercati esteri) di un’economia ormai basata soprattutto su ristorazione, turismo, grande distribuzione, logistica e servizi poveri ormai fortemente dipendenti dalla manodopera migrante a basso salario. Difatti, sempre tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai dal 9% al 14,6%. Circa 5,7 milioni di dipendenti guadagnano in media meno di 11 mila euro lordi annui, ma la fascia del lavoro a bassa retribuzione è ancora più ampia: vanno infatti aggiunti oltre 2 milioni di dipendenti con salari medi inferiori ai 17 mila euro lordi annui.

Eurostat ha certificato – con i dati pubblicati nel «Quadro di valutazione sociale» che monitora il progresso sociale in tutta Europa – che il reddito disponibile reale lordo delle famiglie è in calo e l’Italia è fanalino di coda in Europa (Grecia a parte): dal 2008 persi 6 punti mentre la media Ue è aumentata di 10. Se nei 27 Paesi dell’Unione – prendendo come riferimento il 2008, l’anno della grande crisi – la media dei redditi disponibili nell’ultimo anno sale da 110,12 a 110,82, in Italia cala da 94,15 a 93,74. Rispetto alla media europea, dunque, in Italia il reddito disponibile reale risulta inferiore di oltre 17 punti, a dimostrazione di come le condizioni economiche delle famiglie siano gravi e continuino a peggiorare. Per quanto riguarda il reddito l’Italia rispetto al 2008 ha fatto meglio solo della Grecia – qui nel 2022 il reddito lordo disponibile era al 72,1 rispetto a quello del 2008 – mentre resta lontana dalla Germania con il 112,59 nel 2023. La Francia supera il 2008 – 108,75 nel 2022 – mentre la Spagna è ancora indietro (95,85) ma è in fortissima ripresa.
Significa che il miglioramento degli indici del mercato del lavoro non rappresenta di per sé una condizione sufficiente se non è affiancato da qualità e stabilità dei rapporti di lavoro: l’occupazione è uno strumento di protezione dal rischio di povertà solo quando il lavoro è stabile, tutelato, sicuro e dignitoso. Il reddito da lavoro non è più in grado di proteggere le persone e il loro nucleo familiare da un grave disagio economico e sociale. Bisogna aggiungere che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe voluto lavorare di più (era in un part-time involontario, in sostanza), un fenomeno che colpisce di più le donne, in particolare quelle più giovani, che non arrivano a 10mila euro lordi all’anno, mentre il 34% degli occupati laureati (circa 2 milioni di persone) hanno un inquadramento professionale più basso rispetto al titolo conseguito (sono «sovra-istruiti»). Ci sono poi 3 milioni di contratti a termine, persone che lavorano per 6-8 mesi in media all’anno, un milione di persone che lavorano a chiamata (con una media di 50-60-70 giorni all’anno), e un milione di persone che fa lavoro somministrato, mentre sono aumentate le collaborazioni, gli apprendisti e le partite Iva (spesso finte, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei «privilegi» dei colleghi regolarmente assunti).

Emerge, dunque, la fotografia di un Paese con un modello di sviluppo che non riesce a stare al passo con le aspettative dei suoi cittadini. Part-time involontari, sotto-inquadrati, contratti a termine, lavoro a chiamata e somministrato, apprendistato dimostrano che la retorica per cui c’è troppa gente che non ha voglia di lavorare è falsa. Sono gli imprenditori che non investono (contribuendo a tenere stagnante la produttività del lavoro), e non investono perché la domanda interna è stata compressa da decenni di austerità, precarizzazione e compressione salariale. La descrizione di un Paese che arretra sul piano del benessere e dove aumentano le disuguaglianze dopo 30 anni di politiche restrittive e austeritarie – giustificate in base al «vincolo esterno» del «ce lo chiede l’Europa», lucidamente e cinicamente teorizzato da Guido Carli (G. Carli e P. Peluffo, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1993) – che hanno imposto la più drastica compressione salariale nei paesi Ocse (per cui i salari reali sono rimasti fermi con una crescita simbolica dell’1% a fronte del 32,5% registrato in media nell’area Ocse, mentre tra il 2019 e il 2023 sono calati del 6,9%; solo nel primo trimestre 2024 sono aumentati del 3,4%), con 5 milioni 752mila persone che sono in «povertà assoluta» (il 9,8% della popolazione italiana che ha gravissime difficoltà economiche, sociali, personali; 1,3 milioni sono minorenni), un record dal 2014 quando in tale condizione erano poco più di 4 milioni.

Inoltre, la quota di popolazione in «povertà relativa» è al 22,8%, mentre era al 24,4% nel 2022. Un miglioramento frutto di due spinte differenti: da una parte l’aumento dell’occupazione, dall’altra l’introduzione dell’Assegno unico universale, la principale misura di sostegno per le famiglie che ha debuttato a marzo del 2022, percepito da 7,8 milioni di persone per un importo medio di 1.930 euro l’anno e un costo complessivo di 15,1miliardi, che in base alle elaborazioni fatte dall’Istat da solo ha ridotto dell’1% il rischio povertà. L’attuale governo vorrebbe rivedere l’Assegno unico universale, visto che l’investimento per il 2024 non è stato utilizzato del tutto. Stiamo parlando comunque di un assegno di circa 160 euro mensili per figlio per i nuclei familiari (ne beneficiano oltre 6 milioni di nuclei familiari per un totale di 9.54.9571 di figli). Non si tratta di una misura adeguata alle condizioni e ai bisogni reali delle famiglie, soprattutto quelle numerose, ma sempre di un intervento in base alle disponibilità delle finanze pubbliche e delle scelte dei governi in carica.

Tra l’altro, i dati sulla povertà non colgono ancora in pieno gli effetti della decisione, presa tra maggio e dicembre 2023, dal governo Meloni di restringere l’accesso all’«assegno di inclusione» per i poveri assoluti (una prestazione sociale da 6.000 a 7.560 euro annui presentata come una misura per chi «ne ha davvero bisogno e non per chi potrebbe lavorare e preferisce stare sul divano») e al «supporto lavoro e formazione» per i poveri ritenuti «abili al lavoro» (gli «occupabili») introdotti dalla legge 85/2023 che hanno sostituito il «reddito di cittadinanza», percepito da 1,65 milioni di famiglie e costato 7,8 miliardi. Centinaia di migliaia di famiglie (circa la metà) sono state escluse dai nuovi, più stringenti, criteri di ammissibilità (non bastano più i parametri reddituali e patrimoniali, serve avere anche un anziano o un minore a carico o avere nel proprio nucleo famigliare un adulto con disabilità o svantaggio sociale, per cui molte persone rimangono escluse) e per questo, l’anno prossimo, i dati sicuramente saranno peggiori, come sottolineato da un rapporto della Commissione Europea.

Austerità e stigmatizzazione dei poveri
Cinicamente, il governo Meloni ha deciso di risparmiare alcuni miliardi di euro su povertà, fragilità e disagio, tagliando aiuti, sussidi, esenzioni, sconti a chi non ce la fa, per abbassare l’aliquota Irpef ad un pezzo della classe media, fingendo di ignorare che in Italia una persona su dieci vive in condizioni di povertà assoluta. Povertà che colpisce maggiormente le famiglie numerose, le famiglie operaie, quelle del Mezzogiorno, quelle in affitto, i migranti, in linea con le pesanti diseguaglianze presenti nel Paese. Si è poveri pur lavorando quando le condizioni retributive e di lavoro sono inadeguate, ma il governo ha posto il veto ad una legge che fissa il salario minimo legale; si è più poveri se si vive in affitto, ma il governo ha azzerato i fondi per gli affitti e per la morosità incolpevole e non investe nell’edilizia pubblica. E si è più poveri nel Sud, ma con l’autonomia differenziata introdotta dalla legge n. 86/2024 le diseguaglianze sono destinate a crescere inesorabilmente.

Il neoliberismo è associato a politiche economiche pubbliche improntate all’austerità, con tagli alle tasse per ricchi e imprese che producono la contrazione delle entrate pubbliche, creando una pressione irresistibile per i tagli alla spesa pubblica (una tattica nota come «affamare la bestia», perché inesorabilmente produce la crisi fiscale dello Stato). D’altronde, Ronald Reagan e Margaret Thatcher avevano sostenuto che «lo Stato era il problema e che i mercati erano la soluzione». Pertanto, prevale l’idea che, volendo continuare a perseguire politiche economiche nazionali neoliberiste improntate al rigore e all’austerità, non ci siano sufficienti risorse per tutti e che quindi, nel lavoro come nell’attribuzione di sussidi sociali, alloggi popolari, accesso agli asili nido, debbano venire «prima gli italiani», ossia il «nostro» popolo, quello considerato «vero» sul piano razziale-etnico-linguistico e dal quale dovrebbe essere possibile esigere una lealtà pressoché assoluta, escludendo e deumanizzando coloro che non sono considerati «degni», «integrabili» ed «assimilabili»: migranti, poveri considerati abili al lavoro, «fannulloni», «parassiti sociali», rom, sinti e camminanti, agitatori sociali, «anti patrioti», musulmani, ebrei, femministe, LGBTQIA+, comunisti, anarchici, etc.. Mettere crudelmente alla berlina (e anche in galera), disprezzare, odiare e disumanizzare le minoranze etniche, i «furbetti» del welfare, i «fannulloni», i «divanisti», gli «scrocconi», gli immigrati «clandestini» e i «vagabondi» senza casa, i meridionali è diventata una forma di soddisfazione pubblica attraverso la quale si manifestano sentimenti diffusi di risentimento, ansia, angoscia, paura, rabbia e disgusto contro i deboli e i fragili che sono visti solo come un peso per i cittadini «laboriosi» e «rispettosi delle leggi» del ceto medio bianco.

L’atteggiamento basato su un giudizio «morale» (o meglio moralistico e ideologico) del governo Meloni verso i poveri e la povertà – fare la guerra ai poveri, piuttosto che alla povertà – è coerente con gli esiti del percorso politico-culturale bipartisan che è stato fatto dai governi (sia di centro-destra sia di centro-sinistra dominati da tecnocrati) dei Paesi occidentali per rilanciare il capitalismo negli ultimi 40 anni, con il passaggio dal paradigma di regolazione fordista-keynesiano (basato sul «compromesso tra capitale e lavoro» di stampo socialdemocratico) a quello neoliberista (basato sulla centralità degli «animal spirits» del libero mercato), un passaggio che ha comportato la trasformazione del welfare in workfare, «uno Stato sociale conservatore orientato al lavoro», come lo definisce Roberto Ciccarelli (L’odio dei poveri, Ponte alle Grazie, Milano 2023), e che si è concretizzato in un programma economico volto a ridurre tasse, salari, tutele, diritti, spesa sociale e servizi pubblici, privatizzando imprese, servizi e beni pubblici, deregolamentando i mercati, a cominciare da quello finanziario e da quello del lavoro, creando un sistema profondamente instabile che nei Paesi occidentali ha fatto emergere nuove povertà (i working poor).
I governi hanno inizialmente inquadrato i poveri come vittime di una «cultura della povertà» (interpretata negativamente in termini di dissolutezza morale, sociale ed economica) dalla quale avrebbero dovuto dimostrare di essere in grado di uscire o sarebbero stati considerati responsabili delle loro condizioni precarie e moralmente degradate, e quindi non meritevoli dell’aiuto dello Stato. Sull’onda di campagne mediatiche contro le «regine del welfare» che vivevano alle spalle dell’assistenza governativa (ridefinita «assistenzialismo») e si rifiutavano di lavorare, si è via via affermata l’idea che i poveri sono immeritevoli, che la povertà se la sono procurata da soli, che la povertà è in qualche modo auto-inflitta, colpa dell’individuo e dei vizi che lo rendono incapace di essere produttivo, e non il risultato del funzionamento della società capitalistica, un dato strutturale e una condizione necessaria del suo sviluppo. In questo modo, un problema sociale, la povertà, e le disuguaglianze vengono trasformate in delitti morali i cui colpevoli sono gli stessi soggetti che patiscono gli effetti nefasti del capitalismo.

Dal welfare al workfare
Così è stato a partire dalla seconda metà degli anni 90 che è stato introdotto il cosiddetto «welfare to work» o «workfare», frutto di un complesso lavoro tecnico, giuridico e amministrativo e basato su politiche di «disciplinamento», spesso punitive e degradanti per le persone in povertà (definite di «inclusione attiva» e basate sulle «politiche attive del lavoro»: programmi obbligatori di formazione professionale e di inserimento lavorativo), invece di puntare su un welfare state (del «benessere») efficiente, ben finanziato (con contributi prelevati dai salari e dagli utili delle imprese) e universalistico che garantisse i diritti sociali e includesse anche un reddito di base universale e incondizionato, sganciato dalla produzione del lavoro-merce in modo da garantire a ciascuno il diritto di esistenza indipendentemente dal lavoro. Comunque, inizialmente, il processo di «inclusione attiva» prevedeva quattro misure: avviamento al lavoro con percorsi di inserimento e sostegno ad un «lavoro dignitoso»; integrazione sociale per chi era in grado di sostenerli; un reddito adeguato per coloro che in un dato momento della vita non erano in grado di lavorare; accesso ai servizi. Queste sono state le basi a partire dal 1992 che hanno portato all’anno europeo di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale.

A distanza di oltre 30 anni, ora la persona povera deve espiare il proprio peccato, riabilitarsi, trasformarsi in una persona «meritevole», adeguandosi alle norme comportamentali di chi la vuole diversa (attiva e imprenditoriale), la vive come un pericolo, un fastidio, una zavorra. Il workfare incarna un programma di pedagogia conservatrice e autoritaria e per questo l’enfasi è stata messa sulla responsabilità personale e sull’opportunità di trovare un (qualsiasi) lavoro anche in «progetti di utilità alla collettività». «Meritevole» è solo la persona che vuole lavorare, che mostra la volontà di impegnarsi a diventare operosa, che si presta alle condizioni dell’occupabilità. Oppure quella povera strutturale, inoperosa con giusta motivazione (coloro che sono nel bisogno «senza alcuna colpa da parte loro», vittime fragili di circostanze al di fuori del loro controllo), i «poveri buoni» per età, malattia, handicap. Ai poveri considerati abili al lavoro, che sono coloro che dal neoliberismo e dalle sue crisi hanno subito il senso della perdita di una posizione e identità sociale, si rivolge il potere che agisce con politiche che li rendono comunque ostaggi del bisogno e che mirano a trasformarli in «forza lavoro», in «capitale umano» da immettere nella moltitudine dei lavori e delle vite precarie (nel mercato del lavoro esattamente così com’è), sebbene nei testi delle risoluzioni del Parlamento europeo si parli sempre di «lavoro dignitoso». Da questo punto di vista, il workfare non serve ad eliminare la povertà, ma a governare la vita dei poveri attraverso la loro cooperazione forzata, ottenuta tramite un regime di ricatto nelle forme di contrattazione promosse dalle politiche attive del lavoro.

L’idea alla base del welfare-to-work è di far entrare nuovi lavoratori nel mercato del lavoro, in modo che il mercato stesso possa risolvere il problema della povertà di milioni di persone e famiglie. Un modello di intervento teso a risparmiare risorse finanziarie pubbliche perché non c’è più bisogno di assistenza in denaro, dato che le persone dovrebbero ottenere un reddito (pur anche molto basso) attraverso un lavoro o diventando imprenditori (di sé stessi), e questo dovrebbe anche far crescere l’economia, perché ci sono più lavoratori e (micro)imprese. Un modello in cui il lavoro ha il primato sulla cittadinanza, è lo strumento che consente l’accesso al benessere, se lo si rifiuta si perdono diritti. La persona che rifiuta le offerte di lavoro perde il diritto al sussidio, bollata come «fannullone», una persona che preferisce rimanere inoccupata. Una persona da biasimare e odiare, perché campa sulle spalle e a spese della comunità.

La diffusione dell’idea che con il welfare si stesse spendendo troppo denaro pubblico è avvenuta nel contesto di una continua stigmatizzazione del welfare come un programma per la «dipendenza» e la «cultura della povertà». Questo clima politico-culturale ha consentito ai governi di cancellare progressivamente i sussidi del welfare per le famiglie a basso reddito, condannando milioni di persone e famiglie alla povertà.
I nuovi programmi sono via via diventati più «leggeri» (sempre più ridotti all’osso), per cui a malapena raggiungono i più poveri e si sono finora dimostrati del tutto inadeguati ad operare per liberare le persone dalla povertà. Programmi che inizialmente avevano creato un debole obbligo per alcuni beneficiari di impegnarsi in un programma di formazione, istruzione e lavoro. Dalla seconda metà degli anni ’90 questo collegamento è stato trasformato in un requisito molto più stretto di lavoro (workfare), costringendo i poveri ad entrare nel mercato del lavoro in modo che possano guadagnare «una busta paga, non un assegno sociale».
Le argomentazioni adottate discendono direttamente dalla teoria economica neoclassica secondo cui dei sussidi ridurrebbero l’incentivo per i disoccupati a cercare lavoro, perché potrebbero godere di un reddito seppur modesto, rifiutando la fatica del lavoro a cui sono costretti dalla propria condizione sociale. Ma l’obbligo al lavoro, in cambio di un sussidio, li ha trasformati da disoccupati poveri in poveri al lavoro (working poor). I programmi hanno via via anche limitato il numero di adulti esenti, ridotto la gamma di attività riconosciute per poter beneficiare delle prestazioni, escludendo come qualificazione gran parte della formazione e dell’istruzione in aula a favore del «training on the job», e stabilito rigidi standard di ore lavorate. In linea con l’enfasi sulla «responsabilità personale», hanno anche stabilito limiti massimi di tempo per il ricevimento di sussidi e aiuti, ristretto l’ammissibilità e permesso allo Stato di sanzionare più duramente i beneficiari per non conformità.
La promessa di una punizione risponde al progetto di trasformare la vita del povero disoccupato in quella di un soggetto che sia al più presto possibile «occupabile», disponibile a rispondere alle esigenze dell’impresa in ogni momento, senza la preoccupazione di estendere il progetto a più sfere di vita in modo da valorizzare anche le altre risorse – affettive, identitarie, della soggettività, relazionali, valoriali – di cui le persone dispongono. D’altra parte, per essere veramente efficace l’intervento individualizzato andrebbe accompagnato da interventi collettivi che concentrino nei quartieri e nelle aree più povere una pluralità di azioni: politiche sociali, del lavoro, urbanistiche, ambientali, di tutela della salute, di istruzione, per l’infanzia e i giovani.
L’altro grande cambiamento nel passaggio dal welfare al workfare è stato la struttura di finanziamento. Quella open-ended del welfare è stata sostituita con una sovvenzione fissa per il programma destinata a non aumentare nel corso degli anni per l’adeguamento all’inflazione (e quindi destinata a ridursi col tempo). Alle Regioni è stata data la possibilità di spendere una certa somma del loro denaro da abbinare ai fondi europei e nazionali.
L’idea di «mettere al lavoro» e a valore i poveri in cambio del loro accesso al welfare è ormai vecchia, radicata nella convinzione che le persone diventano povere a causa di un qualche difetto o «tara» personale di tipo morale (deficienza mentale, pigrizia, mancanza di ambizione e capacità di adattarsi alla disciplina della vita lavorativa ed economica, irresponsabilità, mancanza di adeguati valori familiari, etc.), e quindi sono da biasimare e non meritano gli aiuti del governo («se un uomo non lavora, non mangerà»). Un approccio al tema della povertà che ha come precedente storico l’introduzione delle New Poor Laws o Poor Law Reform Act (1834) nel Regno Unito con l’abolizione di ogni opera caritativa (fortemente voluta dalla regina Elisabetta I nel 1603) e la creazione di «workhouses», istituzioni totalizzanti che combinavano disciplina e lavoro, destinate ai «poveri non meritevoli», ma abili al lavoro. Le «workhouses» erano lo strumento che doveva motivare i contadini poveri costretti ad abbandonare i loro campi agricoli a cui erano legati da secoli a seguito delle «enclosures», le recinzioni e privatizzazioni dei beni comuni, attraverso forme di sottomissione al lavoro sempre più estenuanti e massacranti, spingendoli a lavorare per bassi salari nei nuovi opifici industriali e a trasferirsi nelle città dove erano presenti maggiori opportunità economiche e lavorative. I poveri «oziosi», che si opponevano al lavoro, venivano invece reclusi in questi tetri opifici-prigioni dove, in cambio di cibo e alloggio, sarebbero stati ricondotti alla morale redentrice del lavoro.

Stato, mercato e povertà
Dagli anni 90 le forze politiche di centro-sinistra – come i New Democrats di Clinton, il New Labour di Tony Blair e Gordon Brown, con la loro Third Way in Gran Bretagna, e la Spd di Gerhard Schröder, con il suo Neues Modell Deutschland in Germania – credevano ancora in un ruolo dello Stato, ma quello Stato doveva essere reinventato per agire da catalizzatore nel creare collegamenti tra il settore pubblico e privato (creare «market-oriented solutions») e raccogliere le opportunità e i benefici derivanti dalla globalizzazione economica, considerata un fenomeno ineluttabile e irreversibile, e dalle nuove tecnologie digitali. Più precisamente, l’obiettivo era trasferire al settore privato (a quella che allora veniva chiamata «nuova economia») il lavoro che un tempo era di competenza del settore pubblico: il mercato avrebbe potuto svolgere le funzioni che un tempo venivano svolte dal welfare sociale, dando alle persone ciò che meritano. Il messaggio divulgato era che se tutti hanno le stesse possibilità di competere (pari opportunità, ma non uguaglianza di condizioni e, meno che mai, uguaglianza nei risultati), i mercati premiano il «merito» e il «duro lavoro» e ognuno può realizzare «i propri talenti» e sogni (lo slogan preferito di Barack Obama era «you can make it if you try», riecheggiando una famosa canzone del musicista giamaicano Jimmy Cliff).
L’idea era che ci si potesse rivolgere al mercato, al settore privato – ad esempio, attraverso la microfinanza, il terzo settore, la filantropia e lo sviluppo bancario di comunità – per realizzare i tradizionali obiettivi liberali che erano stati lasciati allo Stato sociale nelle precedenti iniziative, come il New Deal o la Great Society o la socialdemocrazia europea. Per cui, a seguito di questa spinta politica «riformatrice» (o meglio contro-riformatrice) di «populismo di mercato», in tutti i paesi occidentali lo Stato ha abbandonato ogni pretesa di difendere la società dal mercato e ha facilitato il consolidamento di un mercato privatizzato dei servizi – con forme di welfare community, aziendale, territoriale, di prossimità e filantropico che si muovono lungo le direttrici pubblico-privato e nazionale-locale – dentro il quale il ruolo dello Stato si limita in gran parte (se va bene) ad essere l’ente pagatore. Un «welfare mercantile» fatto di sussidi ad personam, esenzioni, voucher, bonus, card per le spese alimentari, buoni acquisto (pasto, carburante, etc.), polizze sanitarie integrative, previdenza complementare, interessi agevolati su mutui e prestiti, asili nido, campi scuola, borse di studio e rimborsi di spese scolastiche che spesso si sovrappongono e sono temporanei. Nonostante le grandi promesse e aspettative, questo «welfare mercantile» appare decisamente inadatto a rispondere ai bisogni e a garantire l’esigibilità dei diritti in una società sempre più disuguale e frammentata. Si dice di voler metter «le persone al centro», ma non si pensa a come definire i diritti collettivi, sociali ed individuali da rendere esigibili per superare diseguaglianze ed esclusioni. Le si mette invece al centro del «mercato dei servizi» costringendole a scegliere o destinando loro voucher o sussidi per l’acquisto di beni e/o servizi.
Allo stesso tempo, c’era l’idea di rendere lo Stato stesso più efficiente: snellire la burocrazia a favore del «cittadino-consumatore» e portare gli strumenti di mercato – sono gli anni della rivoluzione informatica e del tecno-utopismo che la circondava – nelle pratiche effettive di governo al fine di utilizzare ciò che è plausibile all’interno del settore privato e rendere lo Stato più efficace. Non a caso, l’amministrazione Clinton promosse il Telecommunications Act del 1996 che ha sostanzialmente autorizzato la rivoluzione di Internet ad essere libera da qualsiasi seria regolamentazione pubblica, instaurando l’egemonia delle aziende della Silicon Valley.
Si è quindi proceduto ad effettuare sempre maggiori tagli pubblici e privati al welfare nello stesso periodo nel quale milioni di donne cercavano di entrare nel mercato del lavoro con l’obiettivo di emanciparsi, sostenere il reddito delle loro famiglie (il cosiddetto «doppio reddito familiare») e acquisire o mantenere gli standard di vita della classe media. E questo vale anche per il numero crescente di madri singole (principali vittime del forte «gender gap» lavorativo e salariale). Con il passaggio al paradigma di regolazione neoliberista, la progressiva precarizzazione del lavoro, l’erosione dei diritti e dei salari reali dei lavoratori, la necessità di dover svolgere più lavori contemporaneamente per cercare di sfuggire alla condizione infernale di working-poor, sono fattori che hanno ridotto il tempo che le donne sono in grado di dedicare al lavoro di cura e alla famiglia, mentre sappiamo che il lavoro domestico, compresa l’assistenza all’infanzia, rappresenta un’enorme quantità di produzione socialmente insostituibile e necessaria. Ma questo, in una società basata sulla produzione di merci e sulla mercificazione dei servizi (molti dei quali a bassa qualificazione e molto frammentati), di solito non è considerato «vero lavoro» in quanto al di fuori del commercio, del mercato e del lavoro salariatoIl lavoro di cura, svolto soprattutto dalle donne, viene sottovalutato economicamente e svilito socialmente. L’Italia continua ad essere tra i paesi europei con le maggiori disparità di genere nel mercato del lavoro. Se una donna vuole essere alla pari con gli uomini, è meglio trovarsi a vivere e lavorare in Finlandia, Belgio, Danimarca, Francia, Lettonia, Lussemburgo o Svezia, gli unici Paesi al mondo a sancire l’uguaglianza di genere nelle loro leggi.
L’effetto dei tagli alle spese e ai servizi sociali da parte dei governi, dunque, è stato di fatto uno scaricamento del peso del lavoro di cura su donne, famiglie, comunità e municipalità locali, allorquando è progressivamente diminuita la loro capacità di svolgerlo in modo adeguato, per mancanza di tempo e/o risorse umane e finanziarie. Questo ha portato ad una generalizzata crisi della riproduzione sociale, testimoniata dal crollo degli indici di natalità in tutti i Paesi ricchi, e ad una nuova organizzazione dualistica della stessa riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permetterselo e privatizzata per quanti non possono farlo. Alcune componenti femminili della seconda categoria (oltre a donne immigrate dai Paesi poveri) forniscono lavoro riproduttivo e di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di bassi salari, molto spesso senza benefits, ferie pagate o congedi per malattia e senza il sostegno di un sindacato, o sono impiegate nell’assistenza sanitaria, il settore del lavoro in più rapida crescita in quasi tutti i Paesi occidentali. In Italia, sette lavoratori su dieci che si dedicano all’assistenza degli anziani sono stranieri. La metà – circa 380 mila – proviene da Romania, Ucraina e Filippine.

Nuova composizione sociale e incremento delle disuguaglianze
A distanza di circa 40 anni dalla svolta neoliberista, l’enfatizzazione del pericolo per l’ordine pubblico e, quindi, la criminalizzazione dei poveri, delle minoranze e dei migranti (un «capro espiatorio» particolarmente conveniente, dato che in quanto non votanti i loro interessi possono essere ignorati in sicurezza) attraverso l’azione repressiva dello Stato contribuisce a celare le contraddizioni sulle quali si sostiene il sistema economico, quali la precarietà lavorativa, la disuguaglianza economica, l’individualizzazione del rischio e la mancanza di solidarietà sociale. In questo modo, non solo viene disinnescato il potenziale di protesta politica presente in questi gruppi, ma viene costruita una rappresentazione politico-culturale che trasforma i bisogni che nascono da questioni sociali in problemi securitari, ossia da affrontare attraverso metodi e strumenti repressivi di ordine pubblico («law and order»), alimentando le «passioni tristi» contro le «classi pericolose».
In concreto, i cambiamenti imposti dal «riformismo dall’alto» guidato dai governi non sempre hanno prodotto l’incanto e la libertà propagandati. Oggi, possiamo dire che solo l’1% (l’oligarchia) è diventato sempre più ricco, mentre per tutti è aumentato lo stress legato ad una condizione di lavoro e di vita più precaria. Soprattutto, il nuovo modello di capitalismo flessibile neoliberista ha voluto dire meno welfare (meno universalismo, più selettività nei diritti di accesso e workfare), maggiore precarietà e salari (reali) più bassi per le fasce dei lavoratori più deboli e vulnerabili (giovani, donne, anziani, persone meno qualificate e di etnie minoritarie, disabili, immigrati), dequalificazione di ampi segmenti dei lavoratori, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, imposizione di nuove flessibilità in termini di dove lavorare, con quali compiti, a quali condizioni lavorative, quanto e quando lavorare, e così via.
Il sogno di un capitalismo flessibile è diventato un incubo per molti lavoratori. Come esemplificato dal film «Sorry we missed you» (2019) di Ken Loach, c’è una nuova sottoclasse di lavoratori, come quelli della «gig economy», che sono gestiti non da esseri umani, ma da un’app e dai suoi algoritmi, un «taylorismo digitale» che caratterizza il capitalismo delle piattaforme. Per loro i tempi di lavoro sono diventati imprevedibili, senza orari definiti, per cui sono costretti a fare i salti mortali per organizzare le loro vite e quelle delle loro famiglie. Nella «gig economy», i lavoratori sono liberi di fornire il proprio lavoro a più app, ma in queste disposizioni mancano i fattori di sicurezza – il congedo per malattia, le pause, la pensione – che esistevano nel vecchio mondo del lavoro permanente a tempo pieno.
Ne è risultata una struttura fortemente segmentata e differenziata dei mercati del lavoro, assai diversa da quella della fase Fordista/Keynesiana, e che ha ridotto ai minimi termini i lavoratori dei vecchi settori centrali con contratti di lavoro permanenti a tempo pieno (falcidiati dai processi di crisi aziendali, delocalizzazioni, automazione e digitalizzazione della produzione) e il potere contrattuale dei lavoratori specializzati, accentuando allo stesso tempo la vulnerabilità dei diritti dei gruppi meno qualificati e più svantaggiati – persone con bassi livelli di istruzione, donne, giovani, anziani, minoranze etniche, migranti, portatori di handicap – i cui salari tendono ad essere schiacciati verso il basso anche come conseguenza dell’esistenza di varie forme di sistematico razzismo e pregiudizio normativo ed istituzionale. Spesso neoliberismo e razzismo strutturale operano in sinergia per frammentare la classe lavoratrice e negare alle minoranze razziali l’accesso ai segmenti più elevati del mercato del lavoro (escluderli dai lavori meglio pagati e dall’informazione/formazione necessaria per eseguirli).
Nei paesi ricchi, salari stagnanti e peggiori condizioni di lavoro sono stati accompagnati da una enorme crescita dell’indebitamento privato e dei consumi a buon mercato («lo sconto cinese») ottenuti grazie alla «globalizzazione» economica e la finanziarizzazione della vita delle persone comuni (il sistema di «accumulazione tramite spoliazione» di cui parla David Harvey in «Cronache anticapitaliste. Guida alla lotta di classe per il XXI secolo», Feltrinelli, Milano 2021) e la gestione da parte delle global corporations di imponenti flussi di merci prodotte da «supply and value chains» in larga parte articolate nei Paesi emergenti e poveri dove la forza lavoro viene sovra-sfruttata in cambio di bassi salari.
Sono stati così riconfigurati gli assetti socio-economici esistenti alla fine degli anni 70 in modi che non hanno rappresentato solo delle risposte alla crisi dell’accumulazione capitalistica o alla rinascita del potere di classe dei detentori di capitale dopo gli avanzamenti dei movimenti sociali, operai e sindacali degli anni 60 e primi 70, ma sono state anche parte di un progetto di cambiamento antropologico, intellettuale, politico e ideologico teso a riprogrammare la governabilità liberale, ridefinendo i rapporti tra Stato, democrazia, società ed economia.

Mutazione antropologica, darwinismo sociale e individualismo metodologico
È divenuta egemone una narrazione incentrata su un «darwinismo sociale» basato sulla lotta incessante per l’esistenza e sul trionfo del mercato e dell’individuo sulla società – «la società non esiste, ci sono gli individui, uomini e donne, e ci sono le famiglie», sosteneva Margaret Thatcher nel 1987 – e sulla statualità che sul piano politico-culturale ha trasformato ogni cittadino in un io-legislatore che, quando esercita la sua potestà, non è tenuto a interrogarsi sul «bene comune», sulle ricadute delle sue decisioni sull’insieme della comunità nazionale o globale che sia, poiché gli si richiede di essere laborioso e di calcolare costi e benefici delle sue scelte soltanto per sé e quando va bene per la sua famiglia, ristretta «tribù» e fazione politica o piccola comunità locale (il quartiere, la scuola, il posto di lavoro vicino a casa). Le persone sono state incoraggiate a concepirsi più come consumatori (alla continua ricerca di beni e servizi a prezzi sempre più bassi, mossi da apprensione per la propria esistenza e trascinati da un’offerta sempre nuova e più ampia di beni di consumo, imposti come obbligo sociale) che come produttori e cittadini che contribuiscono al bene comune e ottengono un riconoscimento per questo. Vengono così privilegiate soluzioni privatistiche anche a problemi che hanno una dimensione indiscutibilmente pubblica, come la sanità, l’istruzione, la sicurezza. Ha prevalso anche l’idea che la politica sia una questione e uno spazio di espressione personale, che i cittadini siano solo attori individuali che fluttuano nello spazio senza un vero tessuto connettivo e il capitalismo riempie il vuoto e tutto, compresa la politica, diventa un’arena per affermare il proprio status e la propria identità individuale. Per cui, l’individuo tende a non concepirsi come parte di una comunità più vasta e i suoi diritti non possono essere sacrificati neanche in nome della sicurezza collettiva. Una libertà individuale assoluta, senza fraternità (cooperazione e solidarietà) né uguaglianza, che finisce per mettere in discussione i principi del 1789.
Una mutazione antropologica che ha travolto empatia, sensibilità sociale, cooperazione, solidarietà e qualsiasi dimensione collettiva, favorendo il prevalere di una mentalità individualista, egoista, cinica e psicotica. Si è così aperta la strada sia per movimenti politici – dai suprematisti bianchi ai movimenti radicali antistatalisti e anti tasse, ai «negazionisti» della pandemia da CoVid-19 – che promuovono apertamente narrazioni complottiste – ad esempio, quella della «grande sostituzione» della popolazione bianca o quella del «the great reset» del capitalismo che immagina che un’élite globalista abbia cercato di utilizzare il CoVid-19 come opportunità per implementare politiche economiche e sociali radicali come le vaccinazioni forzate, carte d’identità digitali e rinuncia alla privacy e alla proprietà privata – e il rifiuto delle regole (che, a torto o a ragione, sono accusate di attaccare le libertà individuali e frenare lo sviluppo economico) e delle istituzioni che le emanano, sia per la degenerazione delle democrazie liberali in democrazie plebiscitarie, «illiberali» e autoritarie.
La storia dell’economia politica degli ultimi quattro decenni è stata caratterizzata da una guerra di classe tra capitale e lavoro che, come ha sostenuto il finanziere Warren E. Buffett nel 2006, il capitale ha vinto a mani basse (la «contro-offensiva neoliberale»), per cui aveva notato che lui, un investitore miliardario pagava un’aliquota fiscale più bassa della sua segretaria. Questo anche se dopo la crisi del «socialismo reale» le forze politico-culturali della vecchia e nuova sinistra hanno continuato ad alimentare forze e movimenti politici dichiaratamente anticapitalisti, e hanno cercato di immaginare modalità, strategie e pratiche nuove per costruire una società comunitaria e collettiva votata ai «beni comuni», alla giustizia sociale e al benessere generale. Una società che sia capace di contrastare le derive distruttive di una società improntata ad un «individualismo metodologico» sfrenato, alla mercificazione del lavoro e della natura, all’alienazione, all’insicurezza, alla precarietà e alla nevrosi, dovuta agli effetti dell’uber-capitalismo della «gig economy» e del turbo-capitalismo cognitivo sulla vita delle persone.
L’incertezza, la precarietà socio-lavorativa, l’esaltazione dell’ideologia meritocratica e le disuguaglianze economiche creano una maggiore competizione sociale e divisioni, che a loro volta favoriscono la frammentazione delle relazioni sociali (divorzi, aumento delle «famiglie» unipersonali, etc.), l’aumento dell’ansia (sensazione di impotenza, paranoia, angoscia e depressione) individuale e collettiva, della solitudine – il «bowling alone», ossia il «giocare a bowling da soli» evidenziato da Robert Putnam («Comunità contro individualismo. Una parabola americana», Il Mulino, Bologna 2023 [2020]) – della sensazione di catastrofe imminente e di un maggiore stress individuale, e quindi una maggiore incidenza di malattie mentali, disordini alimentari, insoddisfazione e risentimento che portano le persone ad utilizzare strategie di compensazione – uso e abuso di antidepressivi, psicofarmaci, droghe, alcol e comportamenti di dipendenza come shopping compulsivo, gioco d’azzardo, pornografia, dipendenza da smartphone e social media – che a loro volta generano ulteriore stress e angoscia individuale e collettiva. Aumentano le «morti per disperazione», un termine coniato da Anne Case e Angus Deaton («Morti per disperazione e il futuro del capitalismo», Il Mulino, Bologna 2023), che contribuiscono a ridurre l’aspettativa di vita.
D’altra parte, la pandemia da CoVid-19 e la conseguente crisi sociale ed economica hanno dimostrato che il modello individualista è stato il migliore alleato del virus e che la libertà individuale è illusoria, significa poco o nulla senza giustizia sociale, ossia se poi non si ha abbastanza da mangiare, se viene negato un accesso adeguato ad un’assistenza sanitaria, ad un lavoro decente, ai trasporti, all’istruzione, ad un alloggio. La libertà individuale senza limiti significa non doversi prendere la responsabilità per le altre persone – le «vittime», gli «scartati», i poveri, i senza fissa dimora, gli anziani, i bambini, i rom, i disabili, etc. – o per l’ambiente. Molti dei sostenitori di questa «libertà» non cercano di costruire una comunità politica nazionale, ma di essere lasciati soli, di non essere disturbati, anche se ciò significa morire in una solitudine disperata di CoVid-19 o di overdose da oppioidi.

La fine dell’illusione neoliberista e la reazione populista
Oggi, però, in molti Paesi ricchi, sempre più cittadini esprimono sul piano politico il proprio forte malcontento verso il binomio neoliberismo-globalizzazione, diventato egemone a seguito delle scelte politiche ed economiche «liberali» adottate dalle classi dirigenti occidentali nel corso degli ultimi 40 anni. Vedono che questo binomio non è stato in grado di far materializzare la prosperità tanto promessa e vagheggiata, soprattutto dopo la grande crisi finanziaria del 2008, e che comunque i vantaggi da esso derivanti sono andati e stanno andando in modo sproporzionato ad un ristretto segmento, già ricco e potente, della popolazione – l’1% o il 10% – e delle grandi imprese monopolistiche globali, mandando in crisi la democrazia, delegittimando la politica mainstream e facendo tornare la guerra e l’annientamento della vita umana (per catastrofe nucleare e/o climatico-ambientale) una possibilità concreta. Il neoliberismo libertario permette di vivere la vita come la si desidera, senza intrusioni governative, purché si sia ricchi e potenti. Questo mentre le persone normali che lottano collettivamente (ad esempio, con le organizzazioni sindacali) contro l’austerità e per salari, pensioni, diritti sociali e civili e servizi pubblici migliori si sentono impotenti e si trovano di fronte al potere coercitivo del governo dispiegato in tutte le sue forme (dalle norme anti-sindacali e anti-sciopero alla repressione poliziesca e penale). E mentre il governo interviene altrettanto ferocemente nella vita dei poveri, dei migranti e di tutti coloro che chiedono di accedere al welfare pubblico (sempre meno universalistico e sempre più lavoristico, in un mercato del lavoro sempre più «flessibile» e precario a seguito delle «riforme» che vanno dal «Pacchetto Treu» al Jobs Act), trattandoli come persone immeritevoli della miseria (in denaro e servizi) che ricevono, perché largamente ritenuti privi di «virtù civiche» ispirate all’indipendenza e all’operosità. E mentre i costi e le ricadute negative della maggiore apertura (la globalizzazione economica, sociale, culturale, migratoria/demografica, etc.) tendono a colpire solo le classi medie e quelle operaie e più povere, oltre ad ampi segmenti delle piccole e medie imprese nazionali.
Nei Paesi occidentali, in passato i lavoratori potevano aspettarsi che le loro vite migliorassero e che le vite dei loro figli sarebbero state ancora migliori. Ma, dalla fine del secolo XX, la povertà e la disuguaglianza sono aumentate ed è diventato sempre più difficile riuscire a mantenere il «patto generazionale» per cui ogni generazione fa meglio della precedente. L’aumento dei livelli di povertà è caratterizzato meno da un marcato aumento della mobilità verso il basso che da un «declino della mobilità ascendente». La mobilità verso il basso assume la forma dell’incapacità delle persone che lavorano di migliorare la propria condizione. Per chi è in fondo è sempre più difficile rimettersi in piedi e poter «partecipare alla gara».
La minaccia della disoccupazione, sempre presente nelle famiglie povere, si è diffusa anche alle famiglie del ceto medio, dei professionisti. Una laurea universitaria non rappresenta più una garanzia contro la disoccupazione, e un sistema economico e politico che non è in grado di offrire un futuro ai giovani con un’istruzione superiore è in grossi guai. Se succede solo ai figli dei poveri, il problema è gestibile; ci sono forze di polizia, tribunali e prigioni. Se succede ai figli dei ceti medi, le cose possono sfuggire di mano. I poveri sono abituati ad essere spremuti, a non avere denaro e prospettive di miglioramento della loro condizione, ma negli ultimi decenni anche i ceti medi hanno cominciato a sentire la pressione di precarietà lavorativa, alti prezzi e tasse più elevate e, in molti Paesi occidentali, sono in grande sofferenza ed in rivolta contro l’establishment mainstream.
Oggi, le classi medie e popolari vivono nell’angoscia perché vedono peggiorare le loro condizioni di lavoro e vita. L’angoscia non solo condiziona fortemente la loro libertà di decisione, ma può rendere addirittura impossibile per loro operare una scelta; solo una persona senza paura è in grado di decidere liberamente. Quello che sembra contare per molti è una sorta di «darwinismo sociale», ossia che nella lotta continua per la sopravvivenza, le condizioni di lavoro e vita delle persone di colore, dei migranti, dei poveri e degli altri esclusi, peggiorino più delle loro. Una logica che Amitav Gosh («La maledizione della noce moscata. Parabole di un pianeta in crisi», Neri Pozza, Vicenza 2022: 186-187) estende anche al negazionismo e agli impatti sociali riferiti ai cambiamenti climatici e alla gestione delle pandemie. «È sempre più chiaro che quanti negano la realtà del cambiamento climatico, per esempio le decine di milioni di persone che hanno votato per il presidente Trump, o in Brasile per il presidente Jair Bolsonaro, credono nell’inazione, sia riguardo al cambiamento climatico sia riguardo all’emergenza sanitaria, proprio perché pensano che a pagarne le conseguenze saranno solo persone congenitamente deboli e vulnerabili. La loro soluzione per entrambi i problemi è estendere le ‘zone di sacrificio’ dove i poveri e i non bianchi sosterranno il fardello della crisi planetaria. Non è che un’inedita replica del ‘conflitto mediante inazione ‘che contraddistinse le guerre biopolitiche coloniali». L’importante è potersi sentire superiori almeno a qualcuno in una società dove quasi tutti sono trattati non come dei cittadini, ma come degli «scarti» o, come scriveva Hannah Arendt nel suo capolavoro «Le origini del totalitarismo» (Edizioni di Comunità, Milano, 1996 [1951]), degli «uomini superflui».
Allo stesso tempo, è riemersa con forza una società «patrimoniale» in cui la ricchezza, in particolare la ricchezza dinastica ereditata, è il determinante cruciale delle possibilità di vita delle persone. Troppo spesso ricchezza e disuguaglianze dei redditi sono in una relazione simbiotica con i vantaggi sociali intangibili del successo economico, come capitale socio-culturale e accesso alle reti parentali ed amicali, che insieme influenzano i risultati formativi e gli orizzonti lavorativi delle nuove generazioni, contribuendo a trasformare risultati disuguali di una generazione in opportunità diseguali per la generazione successiva, influenzando tutte le «life chances» degli individui, dall’istruzione all’occupazione, dalla salute alla speranza di vita. I servizi pubblici sono sistematicamente sotto-finanziati o vengono esternalizzati ad operatori privati, con la conseguenza che spesso i più poveri ne vengono esclusi. Ecco perché in molti Paesi ricchi un’istruzione e una sanità di qualità sono diventate un lusso che solo i più abbienti possono permettersi.
I bambini e gli adolescenti sono i soggetti più vulnerabili alle situazioni di povertà ed esclusione sociale, fenomeni che determinano nel presente e nella vita futura una catena di svantaggi a livello individuale in termini di più alto rischio di abbandono scolastico, più basso accesso agli studi superiori e al mondo lavorativo, e più in generale di una bassa qualità della vita. I figli di genitori meno abbienti hanno scarsissime opportunità di carriera nello studio e nel lavoro, soprattutto se da anni collezionano solo lavoretti precari e vivono nelle periferie urbane o in un borgo rurale lontano dai grandi centri metropolitani. Inoltre, il costo degli immobili nelle grandi città è in continua ascesa per l’aumento dei costi dei mutui e degli affitti, alimentando la crisi anche perché da anni in Italia, come in molti altri paesi, non vengono più realizzati alloggi di edilizia popolare, mentre siamo in presenza di una forte tensione speculativa nel settore immobiliare da parte del capitale finanziario, della rendita, dei ricchi e delle grandi organizzazioni criminali alla continua ricerca di opportunità di re-investimento legittimo del loro denaro. Pertanto, le famiglie più povere vengono spinte fuori dai quartieri centrali verso le sterminate periferie delle aree metropolitane sempre più abbandonate dalle istituzioni, allontanandole anche dalle scuole e dai servizi sanitari migliori.
Sono state soprattutto le risposte dell’establishment – o meglio, la loro mancanza – alle questioni economiche e sociali che hanno creato i maggiori problemi a livello sia nazionale sia euro-americano. Un numero crescente di cittadini è insoddisfatto, e sempre più spesso indignato, per le crescenti disuguaglianze e per il modo in cui la globalizzazione economica è stata fatta avanzare dalle classi dirigenti nazionali. Queste, negli ultimi 40 anni, si sono schierate dalla parte del capitale (sempre più oligopolistico o monopolistico), favorendone la mobilità incontrollata (con la deregolamentazione dei mercati finanziari, accordi free-trade, l’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, l’accordo NAFTA, l’Europa di Maastricht, etc.), e contro il lavoro, rendendo quest’ultimo sempre più mercificato, «flessibile», precario, insicuro, non sindacalizzato. Inoltre, il numero di cittadini di origine straniera e non di pelle bianca è cresciuto fino a livelli storicamente senza precedenti in Europa e negli Usa, ma istituzioni, politici e partiti tradizionali hanno prestato poca attenzione a garantire che venissero messe in campo le necessarie politiche e capacità istituzionali per l’accoglienza, l’inte(g)razione interculturale e l’emancipazione in modo da accompagnare e gestire i cambiamenti e le tensioni sociali e culturali che erano in atto (ad esempio, attraverso un’espansione nei servizi di istruzione e programmi di intercultura e di riqualificazione per adulti).
Poco si è riflettuto anche su come sarebbero stati protetti i sistemi di welfare o su come si potesse realizzare l’integrazione nel mercato del lavoro e negli altri ambiti sociali, dando mano libera alle forze di mercato, al perseguimento dell’interesse individuale e alla crescita delle disuguaglianze, e su come si potesse mantenere la coesione sociale, la «fraternità», ossia la solidarietà, la partecipazione e lo spirito comunitario che sono necessari per una sana democrazia e per qualsiasi serio sforzo collettivo. Un numero sempre più ampio di cittadini si sente estraneo al proprio governo e Paese, non va a votare alle elezioni e ritiene che il governo sia corrotto e il gioco economico e politico sia truccato contro la gente comune e favorisca ricchi e potenti.
Dato che le classi politiche mainstream non hanno saputo dare risposte adeguate e voluto cambiare lo status quo, non sono intervenuti sulle crescenti disuguaglianze, non hanno evitato la riduzione di reddito e lavoro (divenuto sempre più precario e malpagato), non hanno cercato di modificare un sistema economico/finanziario iniquo, non hanno smesso di tagliare le spese per scuole, ospedali, infrastrutture, servizi e welfare al cittadino, un crescente numero di cittadini in difficoltà si è sentito abbandonato dai governi, partiti politici tradizionali mainstream, e altre istituzioni (come i sindacati). È alienato, arrabbiato e protesta per la perdita sia della tradizionale sovranità del loro Stato nazionale sia del controllo sulle proprie vite personali, lavorative, professionali, come conseguenza di precarietà, bassi redditi, disoccupazione e indebitamento, nonché per tanti privilegi, scarsa trasparenza e innumerevoli conflitti di interessi che legano i responsabili politici alle grandi imprese, alle grandi lobbies economiche e finanziarie, ai ricchi. Ricorrenti grandi scandali per corruzione, evasione ed elusione fiscale hanno alimentato la percezione che élites politiche e grandi interessi economico-finanziari giocano con regole diverse rispetto al resto della cittadinanza, senza un sufficiente controllo pubblico e una vera legittimità democratica.

L’avanzata della destra populista, nazionalista e reazionaria
Questo ha contribuito a creare un’apertura politica per la destra populista e reazionaria che non solo punta il dito contro il migrante, il perfetto «capro espiatorio» divenuto il simbolo del nemico da cui ci si dovrebbe difendere, trasformando la paura in odio, ma in alcuni casi ha assunto, seppure in modo distorto e spesso strumentale, posizioni che erano state della sinistra socialdemocratica e comunista, compresa la difesa dello Stato sociale, dell’interventismo governativo e dei valori laici, rivendicando più attenzione agli interessi dei settori medio-piccolo borghesi (PMI, imprese a basso tasso di innovazione tecnologica, artigiani, piccoli commercianti, agricoltori, tassisti e professionisti tradizionali) penalizzati dal processo di globalizzazione, e arrivando a raggiungere anche i lavoratori e altri elettori disillusi ed alienati che in un’epoca precedente avrebbero votato per politici e partiti socialdemocratici o comunisti.
L’ascesa globale di un nazionalismo conservatore (e in alcuni casi apertamente reazionario) – sempre più ossessionato dalla difesa dei confini («fermare l’arrivo dei barconi» e imprigionare i richiedenti asilo, deportandoli in Albania, Rwanda o altrove) visti come necessaria salvaguardia contro l’erosione delle tradizionali divisioni di genere ed etniche – sembra avere l’obiettivo di creare forme più statalizzate di capitalismo nazionale e «comunità nazionali» dirette da leaders carismatici indiscutibili che ambiscono a difendere valori nazionali tradizionali speciali, controllare i confini contro i virus dell’immigrazione non bianca, del multiculturalismo e dell’influenza «straniera» (dagli attivisti dei diritti umani ai migranti musulmani, dai terroristi alla grande finanza, dall’Unione Europea al miliardario finanziere e filantropo «globalista» ebreo ungherese naturalizzato americano George Soros). Una deriva che è rapidamente divenuta una minaccia per la democrazia, perché rappresenta la ricetta per la repressione domestica, il capitalismo clientelare, la corruzione massiccia, l’implosione dello Stato di diritto, l’erosione dei diritti individuali e sociali di cittadinanza, l’ascesa di razzismi e conflitti internazionali.
Tra l’altro, con i nazionalisti conservatori e reazionari, così come avveniva con i politici mainstream, le questioni che riguardano davvero la maggioranza della popolazione, i milioni di lavoratori – la riduzione del lavoro stabile, ben pagato e di qualità, le disuguaglianze sociali, la vecchiaia in povertà, l’insicurezza e lo sfruttamento del lavoro, i problemi abitativi, la negazione dei diritti sociali – sono onnipresenti, vengono agitate, ma non vengono realmente agite e affrontate, perché anche questi «uomini nuovi» non mettono in discussione il paradigma economico neoliberista, il modo disumanizzante in cui il capitalismo opera. Non considerano questo il problema, ma la soluzione (come lo era per Clinton e altri governanti progressisti degli anni 90), ancorché declinata in una logica territoriale «sovranista» (perché ritengono che solo nella nazione ci possa essere solidarietà).
Ciò risulta evidente dalle politiche economiche nazionali che finora hanno perseguito una volta saliti al potere: nuove detassazioni per i ricchi, ulteriori deregolamentazioni (anche in campo ambientale) e privatizzazioni, tagli generalizzati ai capitoli di spesa sociale per trasferire le disponibilità alla spesa militare e securitaria. Nessun vantaggio diretto per la classe lavoratrice se non la promessa di una reindustrializzazione da parte delle imprese private incentivate da protezionismo, sussidi e detassazione degli utili.
Questo modo di procedere sul piano economico, insieme alla rimozione della questione sociale dal dibattito politico, è particolarmente pericoloso perché favorisce chi ha già privilegi e punisce i ceti già deboli, allargando le disuguaglianze e contribuendo all’ulteriore ascesa dell’estrema destra. Un circolo vizioso, perché l’ascesa dei nazionalisti di destra non potrà essere interrotta finché non ci sarà una rottura con le politiche neoliberiste orientate al libero mercato che – come Karl Polanyi ha sostenuto nel suo capolavoro «La grande trasformazione» (Einaudi, Torino 2010 [1944]) – distruggono la società e inaspriscono gli squilibri nell’economia globale.
Si tratta di tentativi di sostituire l’ideologia della «globalizzazione felice» o del «globalismo» – che secondo i sostenitori di queste posizioni politico-culturali vorrebbe annullare i princìpi delle identità nazionali, l’esistenza stessa dei confini e sancire il diritto umano di migrare – per dare vita a forme autoritarie, «illiberali», regressive e ciniche («realistiche») di neoliberismo nazionale attenuate da politiche sociali assistenziali tese a lenire le sofferenze di segmenti molto limitati del corpo sociale nazionale.
Da questo punto di vista, il populismo nazionalistico conservatore, se non proprio reazionario ed autoritario, rappresenta il volto politico del neoliberismo in crisi. Risposte illusorie e pericolose ai guasti economici ed istituzionali che aggravano la crisi dei ceti medi e popolari, invece che arrestarla. La crisi e la stagnazione economica hanno spremuto il centro delle società, aumentando le fila dei poveri e quasi poveri, ma hanno anche svuotato il centro della politica, poiché gli elettori hanno smesso di credere che i principali partiti di centro e della sinistra progressista (liberal) abbiano risposte adeguate ai loro bisogni. L’affermarsi dei nazionalisti «populisti» della «destra sociale» rappresenta il tentativo di ri-politicizzare in termini populistici società che si sentono esauste ed impotenti, tentando di riaffermare il primato della politica e dell’economia pubblica su economia e gestione tecnocratica.
Gli «uomini nuovi» del campo della destra reazionaria, ciascuno sostenuto dal proprio «movimento» o «partito personale» privo sia di una vera dottrina sia di un compiuto progetto politico – quasi sempre definiti come «populisti» dai politici e dai media mainstream perché adottano uno stile politico basato su un contatto diretto con «il popolo» (anche se solo con il «loro» popolo, mentre per loro «gli altri» non contano nulla) – cercano di far credere che il ripristino di uno Stato nazionale governato con pugno di ferro (con «i pieni poteri»), dotato di tutti i suoi attributi di sovranità interna ed esterna, capace di chiudere i suoi confini ai migranti, di imporre alla popolazione leggi finanziarie e di mercato più dure e di respingere tutti gli accordi di cooperazione internazionale sul clima, sia l’unico modo per migliorare la situazione sociale della stragrande maggioranza della popolazione. Se le principali minacce diventano i migranti, i nemici «delle nostre origini giudaico-cristiane», George Soros o le importazioni cinesi, questi leader sostengono che sia possibile una nuova politica pro-capitalista su base nazionale (favorita dai processi di «reshoring» e «friend-shoring») che si pone l’obiettivo di tenere fuori il proprio Paese dalle istituzioni e dai flussi non graditi di capitale, merci e, soprattutto, persone – migranti economici, profughi, richiedenti asilo e rifugiati di pelle non bianca – in modo da implementare la propria versione nazionale di neoliberismo conservatore, etnico, razzista, reazionario e autoritario. Un conservatorismo essenzialmente neofascista che aspira ad unire un rinnovato dinamismo capitalista con i valori e le gerarchie reazionarie tradizionali.
In uno studio affascinante, Karen Stenner mostra in «The Authoritarian Dynamic» (Cambridge University Press, Cambridge 2005) che mentre alcuni individui hanno «predisposizioni» all’intolleranza, queste predisposizioni richiedono uno stimolo esterno per essere trasformate in azioni. Le forze politiche del populismo identitario, autoritario e reazionario «attivano» queste predisposizioni alla «reazione difensiva» (all’impulso politico proto-fascista) nella popolazione bianca, alimentando le paure collettive, agitando temi controversi come il razzismo, l’aborto, la possibilità di possedere armi, l’immigrazione e la politica economica austeritaria, e addossando a dei nemici deboli, come i migranti o i poveri o le persone di colore, tutte le cause della mancata realizzazione delle promesse neoliberiste. Così, la compressione dei salari viene essenzialmente spiegata con la concorrenza sleale della manodopera immigrata e non bianca, evitando di prendere in considerazione le tante riforme e controriforme che negli ultimi 40 anni quasi ovunque hanno selvaggiamente deregolamentato il mercato del lavoro ed eroso i diritti dei lavoratori.
Lo storico Eric J. Hobsbawm ha sostenuto nel suo capolavoro «Il secolo breve» (Rizzoli, Milano 1995: 146-147) che «il cemento comune» dei movimenti della destra radicale europea che tra le due guerre portarono al nazi-fascismo (il «regime reazionario di massa», come lo definì Antonio Gramsci), «era il risentimento dei ‘piccoli uomini’ in una società che li schiacciava fra la roccia del grande affarismo da un lato e le asperità dei movimenti in ascesa delle classi lavoratrici dall’altro. Una società che, come minimo, li privava della posizione rispettabile occupata nell’ordine sociale tradizionale, e che essi credevano fosse loro dovuta, e che d’altro canto impediva loro di acquisire all’interno del suo dinamismo uno status sociale al quale si sentivano in diritto di aspirare. Questi sentimenti trovarono la loro espressione caratteristica nell’antisemitismo […]». A conclusioni similari era arrivato anche Heinrich Mann («L’odio», L’orma Editore, Milano 2024 [1933]), il quale aveva analizzato in presa diretta la vittoria di Adolf Hitler che portò al crollo della repubblica di Weimar, concentrandosi sulla sua arma più potente: la rabbia che si tramuta in odio classista, razzista e nazionalista, sostenuto dal terrorismo di Stato, mirato soprattutto contro comunisti, ebrei ed omosessuali.
I radicali di destra di oggi sono animati dall’idea di una sorta di perverso gioco a somma zero che permette loro di sentirsi meglio con sé stessi colpendo gli altri, soprattutto i più deboli sul piano socio-economico, culturale e politico, mentre ritengono che riconoscere agli altri bisogni e diritti propri equivalga a togliere a loro stessi questi bisogni e diritti. È un tentativo di convertire la rabbia, il disprezzo culturale e l’odio sociale in autostima, ma la frustrazione spinge questi reazionari radicali sempre più agli estremi.
La connessione tra neoliberismo e autoritarismo di destra – un «neoliberismo autoritario», in cui la democrazia liberale è ridotta a mera apparenza – ha portato alla ribalta un antintellettualismo emotivo, ideologico, che impedisce qualsiasi discussione sulle idee socialdemocratiche, socialiste e di emancipazione sociale e che giustifica ideologicamente e cementa le forze politico-culturali conservatrici che partecipano al capitalismo neoliberista. Pertanto, un capitalista miliardario come Donald Trump può fingere con successo di essere un eroe della classe lavoratrice e presentarsi come un difensore di persone «reali» contro le élite corporative e dello «Stato profondo». Leader autoritari di destra come Trump, Orbàn, Salvini o Meloni spesso fanno appello alla classe lavoratrice mostrando modi rozzi, un habitus proletario e usando un linguaggio semplice e dicotomico. L’inciviltà è centrale nelle loro strategie di comunicazione: li aiuta a galvanizzare i loro sostenitori ricordandogli quanto sia «cattiva» e «minacciosa» l’altra parte. Ogni volta che gli avversari attaccano i loro leader, i sostenitori sono spinti a difenderli e sostenerli ancora di più. In questo modo, il dibattito pubblico viene deviato dalle politiche concrete, dalla corruzione e da altre questioni sostanziali come la riduzione delle disuguaglianze e della povertà. Un elemento cruciale perché, in realtà, quando sono al potere questi leader ideologici si oppongono agli interessi della classe lavoratrice e attuano leggi che prevedono agevolazioni e riduzioni fiscali (come la flat tax) che avvantaggiano le grandi società e i super-ricchi e danneggiano la classe lavoratrice perché smantellano gli effetti redistributivi dello Stato sociale e dei servizi pubblici.

L’autore: Alessandro Scassellati Sforzolini è ricercatore sociale e attivista, collabora con Transform! Italia. Fra i suoi libri Suprematismo bianco (Derive e Approdi).


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