mercoledì 20 novembre 2024

Janine Wedel: “Vi spiego come ragiona e come funziona l’élite che ci governa nell’ombra”

di Marcello Foa

 

Tante volte ci siamo chiesti come operi davvero l’élite globalista ma raramente otteniamo risposte pertinenti e soddisfacenti. Una studiosa americana di grande livello, Janine R. Wedel, ci è riuscita in un saggio, Shadow Elite, uscito una decina di anni fa negli Stati Uniti ma ancora straordinariamente attuale. Janine Wedel è un’antropologa americana e professoressa universitaria presso la Schar School of Policy and Government della George Mason University, e collabora con diverse istituzioni europee. È un’intellettuale libera, controcorrente e molto autorevole, animata da una passione viscerale per l’autenticità della nostra democrazia. Nei giorni scorsi l’ho intervistata per il programma Giù la maschera che conduco su Rai
Radio 1 e sono lieto di poterla proporre anche ai lettori di InsideOver. Sono poche righe ma illuminanti sulle regole invisibili del potere ai tempi della globalizzazione.
– Il professor Philips, nel suo libro Titans of capital lascia intendere che il mondo sia guidato dalla grande finanza. Davvero è questa l’èlite che detiene il vero potere?
“No, penso che il sistema finanziario sia cruciale e che abbia determinato
molte politiche e decisioni che caratterizzano il sistema in cui viviamo ma non
è l’unico ambito che bisogna considerare”.
– E allora quali settori dobbiamo considerare? Lei, nel suo famoso libro Shadow elite ovvero l’élite ombra, spiega come questa élite governi la globalizzazione e come sia fedele solo a se stessa. Cosa intende?
“Sì, quel che abbiamo visto negli ultimi 40 anni è la trasformazione dell’élite. Quella di prima era mossa dal desiderio di governare ma anche di restituire qualcosa alla società. La globalizzazione e la finanziarizzazione hanno fatto emergere una nuova élite che non si sente più molto legata al proprio Paese, infatti va dove paga meno tasse, ha più passaporti e cose di questo genere. E questa evoluzione è stata dettata da alcuni cambiamenti strutturali intrecciati gli uni con gli altri. Ne vedo in particolare quattro”.
– Ovvero quali sono questi cambiamenti?
“Innanzitutto, negli anni Ottanta con l’avvio del processo di outsourcing e privatizzazione di molte attività dei Governi, cominciato sotto la presidenza
Reagan negli Stati Uniti e con la premier Thatcher in Gran Bretagna. Poi la fine della Guerra Fredda ha spalancato le porte a una massiccia privatizzazione, segnata tra l’altro dall’avvento di oligarchi in Russia, che sono diventati ricchi dal mattino alla sera, derubando lo Stato e generando molto denaro sporco. Da lì c’è stato lo sviluppo delle centri finanziari offshore ovvero dei paradisi fiscali. Infine la digitalizzazione ha cambiato tutto, favorendo la globalizzazione e la prevalenza di interessi privati a scapito di quelli statali e nazionali, che si è manifestata anche con la nascita delle ONG e di entità sempre private, talvolta legali e talvolta no. Dunque è diminuita la fedeltà al proprio Paese, sono sorti nuovi modelli di attività e di business, è aumentata la fedeltà alla propria élite che io chiamo ombra”.
– E come funziona l’élite ombra?
“Si tratta di élite che ricoprano molteplici ruoli, che si rinforzano vicendevolmente sia dentro sia fuori dal Governo. Ad esempio una persona è consigliere dell’esecutivo, dunque esterno, non assunto, e al contempo lavora per un think tank, il quale è finanziato da un’industria che ha interessi proprio in quel ministero”.
– Ci faccia capire, Janine: lei sta descrivendo un sistema che funziona per
ogni settore, non solo quello finanziario, ad esempio quello militare,
farmaceutico, automobilistico. È così?

“Assolutamente sì, gli esempi sono molteplici in ogni settore. Ne prendo uno: quello militare. Negli Usa un generale in pensione presta consulenza gratuita al Governo nell’ambito di un advisory board, ma in quella posizione ottiene informazioni confidenziali, da insider sulle intenzioni del Governo e naturalmente può orientare anche certe decisioni. Al contempo è titolare di una società di consulenza, che però ha clienti solo in ambito militare. Così si intersecano interessi privati e pubblici. Come mi ha detto uno dei membri di questa élite: non c’è conflitto di interesse perché noi definiamo l’interesse. Questo generale potrebbe lavorare in alternativa al think tank per un’istituzione accademica e questo è importante perché deve apparire pubblicamente come un esperto neutrale. Così quando va alla Cnn o davanti a una commissione parlamentare appare solo come il generale in pensione e ora docente di una prestigiosa università, ad esempio Harvard”.
– Ma a livello globale chi prende le decisioni, chi determina le grandi
tendenze della nostra epoca, come digitalizzazione, l’agenda green,
l’industria 4.0, che poi vengono implementate nei singoli Paese? C’è chi
dice il World Economic Forum…

“È troppo facile dire che c’è un solo posto dove vengono prese ma quel che vediamo è che a causa di questa trasformazione le decisioni sulle politiche economiche o di altri tipi sono state rimosse dalle istituzioni democratiche che dovrebbero elaborarle e che invece si limitano ad adottarle. E questo perché ci sono molte altre entità che sono diventate importanti nell’elaborazione delle grandi riforme, entità private e non elette, come il World Economic Forum o il Gruppo dei Trenta che riunisce finanzieri e accademici. Il direttore di questo Gruppo da me intervistato quando i Trenta volevano dimostrare che il mercato dei derivati non richiedesse troppa regolamentazione, mi disse: Noi non scriviamo le linee politiche ma le nostre decisioni poi finiscono per diventare riforme politiche. Questo è un punto cruciale, l’elaborazione delle linee politiche è diventata molto più indiretta e dunque è sempre più difficile capire dove risiede, il vero potere, la vera influenza. E questo spiega il proliferare delle teorie cospirazioniste: se i cittadini non possono identificare chi esercita davvero e in modo trasparente cercheranno risposte, trovandole anche nelle teorie complottiste”
– E quindi siamo impotenti? Cosa devono fare i cittadini, i giornalisti, gli
intellettuali?

“In realtà le dinamiche e gli interessi dell’èlite ombra possono essere analizzati e investigati, io lo faccio da tempo come antropologa sociologica ma possono farlo anche i giornalisti. Bisogna seguire questa élite che ha anche ruoli pubblici. individuare le loro affiliazioni, ricostruire i legami, i ruoli e gli interessi che si rafforzano vicendevolmente e si sovrappongono. Non è scontato, non è facile ma si può fare”.

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Che differenza c'è tra la bambina palestinese Hind massacrata e Anna Frank? - Mustafa Barghuthi

 

martedì 19 novembre 2024

Con le guerre in corso stanno “saltando” i valori dell’Occidente - Giampaolo Cadalanu

 

Trovo davvero sconfortante il dibattito su guerra e pace di questi mesi. Vedo solo dichiarazioni di principio, che hanno un significato di scelta di campo, e pochissime proposte che possano, se non far avanzare la situazione politica, almeno far maturare una coscienza collettiva.

Guerra a Gaza

Mi sembra soprattutto che sfugga a gran parte dei commentatori un punto: dopo questa catastrofe niente sarà più come prima. Gli equilibri mondiali, così come li abbiamo conosciuti, sono compromessi per sempre, in modo irrimediabile.

Valori dell’Occidente

C’è un punto di partenza nella nostra cultura, finora ben poco discusso, ed è la certezza che i valori dell’Occidente, radicati nell’Illuminismo, siano la nostra stella polare.

Da questi sosteniamo di voler partire, e verso la loro massima realizzazione vogliamo tendere, meglio se senza proporli come basi per uno scontro di civiltà o illuderci che siano il punto di arrivo dell’umanità nel suo complesso.

Crisi insormontabile

Ma lo scontro fra Russia e Ucraina e quello rinnovato fra Israele e i palestinesi (con gli alleati) hanno messo non più in dubbio ma in crisi insormontabile ogni possibile coerenza di questo orientamento.

Guerra Russia – Ucraina

Il confronto che vedo parte da presupposti incompatibili, non propone nessuno spazio per il compromesso, e dunque è totalmente inutile, anche per la formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.

Considerazioni storiche

C’è chi parte da considerazioni storiche, magari risale alla notte dei tempi per leggere un diritto, dell’uno o dell’altro. Questa terra appartiene a questo popolo perché… Ma i libri sacri di uno, le ricostruzioni storiche dell’altro, evidentemente non hanno valore universale, e tanto meno trovano spazi di condivisione.

Le letture sono in conflitto radicale, e pensare di far aderire una fazione alla visione dell’altra è illusorio, tanto più quando di mezzo ci sono convinzioni religiose e sfumature nazionaliste.

Obiettivi comuni

Non voglio dire che esaminare le radici di un conflitto sia inutile. Credo invece che sia indispensabile (e ovviamente anche io ho la mia lettura personale, che vale solo per me), ma sono anche fortemente convinto che i passi avanti possano essere fatti solo se si concorda su quali obiettivi comuni possano e dunque debbano essere raggiunti.

A questo punto, com’è ovvio, propongo quelli che ritengo alla portata della buona volontà: la fine delle stragi, l’apertura di tavoli di trattativa, il via libera senza condizioni agli aiuti umanitari, l’impegno a ricercare soluzioni politiche durature.

Punto irrinunciabile

Vorrei che fosse chiaro che per me il punto d’arrivo irrinunciabile è la salvezza delle vite umane. Su tutto il resto si può negoziare, ma se non c’è un’intesa su questo, allora mi viene da sospettare che dietro ogni decisione ci siano interessi non confessabili.

Esco dal generico: la sopravvivenza politica di leader come Vladimir Putin, Volodimir Zelenskij, Benjamin Netanyahu.

Anche qui, come su altri temi, la bussola che propongo è quella del realismo: per chiunque abbia una visione “fredda”, non emotiva, è ben palese che solo molto di rado i governi (e i leader, soprattutto) agiscono nell’interesse esclusivo del popolo, mettendo da parte il proprio.

Contenitori rigidi

Propongo anche di ragionare senza pretendere di imporre contenitori rigidi alla realtà: dibattere su termini come “terrorismo” o “genocidio”, che se applicati o respinti imporrebbero conseguenze concrete, è solo un modo per non affrontare la realtà con un approccio di soluzione politica.

Basta guardare al passato per capire che il terrorista di uno è il combattente della libertà per l’altro. E non c’è nulla di più grottesco dei litigi sul concetto di genocidio, come i massacri fossero “accettabili” purché fuori da uno schema preordinato e proclamato.

Tecnologia digitale

Ma anche se si raggiungesse un primo accordo sugli obiettivi di cui parlo, mettendo per un momento da parte le convinzioni personali, anche se gli scontri diminuissero e le prospettive di pace si concretizzassero, il mondo non potrà mai più essere quello che era.

La tecnologia digitale ha permesso una velocità di trasferimento delle informazioni persino incomprensibile rispetto al passato. Proprio il confronto fra queste due guerre, che le notizie trasmesse in rete rende facile alla gran parte dell’umanità, ha già cambiato gli scenari e le prospettive globali.

Meccanismo attivato

I sondaggi lo rendono più che evidente: al di là dell’Occidente c’è un pianeta sdegnato, pronto ad agire collettivamente. In modo pacato, lento ma inarrestabile, questo meccanismo si è già attivato, con i BRICS ma non solo.

Le leadership dei cosiddetti Paesi sviluppati – che forse andrebbero chiamati solo Paesi ricchi – sono smarrite, si accorgono che il resto del mondo non ha più fiducia nei valori proclamati ma applicati solo in modo partigiano.

Il re è nudo

Il re si è ritrovato nudo. Il doppio standard adoperato fra Russia e Ucraina e fra Israele e palestinesi è ormai fin troppo chiaro. E così, insomma, le vittime non sono solo umane.

A rischiare la scomparsa sono le istituzioni internazionali basate sul consenso. L’ONU, le sue agenzie, la Corte penale internazionale, la Corte di giustizia: tutte hanno subito offensive sfrenate, tutte vengono considerate strumenti di parte, a volte in modo pretestuoso, a volte con critiche giustificate.

In pericolo è lo stesso concetto del multilateralismo. E se, come sembra, le possibilità di un allargamento di questi conflitti sono reali, i meccanismi di ricerca della pace potrebbero mancare quando ce n’è più bisogno.

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Media malati: 5 feriti è pogrom, 120 mila morti è legittima difesa - Fulvio Scaglione

 

Di Amsterdam e della partita tra Ajax e Maccabi, abbiamo già dato conto su InsideOver e su Remocontro. «Abbiamo parlato di ‘pogrom’ perché era chiaro che si trattava di violenze organizzate che avevano un preciso sfondo politico e razziale. Quindi non abbiamo debiti con nessuno». Ma Fulvio Scaglione, dalle tifoserie violente strumentabili vuole passare a parlare del giornalismo che le racconta. Ciò che vede e ciò che fa vinta di non vedere.

 

La narrazione che sovrasta i fatti

Come sempre, la narrazione corrotta dei fatti rischia di diventare persino più importante dei fatti stessi. Per condannare lo spregevole assalto ai tifosi del Maccabi (che a loro volta non si sono risparmiati, in quel di Amsterdam, con le provocazioni) sono stati scomodati i reduci dei campi di concentramento, sono stati chiamati a raccolta tutti gli intellettuali di pronta leva, trombe, trombette, pifferi e primi violini hanno provveduto al rumore di fondo. Netanyahu, che è una vecchia e cinica volpe, ha approfittato della situazione per una splendida operazione di propaganda: due aerei speciali sono decollati da Israele con squadre mediche a bordo, come nel pieno di un’emergenza bellica. Alla fine il bilancio di questa tragedia è stato: 5 feriti. Cinque. Feriti.

Stampa ‘alta’ vetrina bordello

Per circa 36 ore la cosiddetta “stampa di qualità” ci ha parlato dei fattacci di Amsterdam come di una seconda “notte dei cristalli”, come il segno evidente di una persecuzione antiebraica in pieno svolgimento. Il tutto sugli stessi media che delle stragi di Gaza parlano controvoglia, proprio perché non se ne può fare a meno. Con il risultato di produrre (e non veniteci a dire che è un caso) questa tesi: cinque fan del Maccabi feriti in una caccia al tifoso israeliano in quel di Amsterdam sono un pogrom, una notte dei cristalli, una congiura antisemita. Mentre 120 mila morti palestinesi a Gaza sono vittime collaterali di una legittima azione di autodifesa. E si badi bene: guai a parlare di genocidio o tentativo di genocidio per Gaza, come fanno molti. Mentre di “notte dei cristalli” per 5 feriti (cinque feriti) si può serenamente parlare.

Oltre l’episodio, il sistema

Come si diceva, il problema ormai non sta più in questo o quell’episodio, per quanto spiacevole o drammatico possa essere. Il problema, invece, sta ormai in questa nuvola mediatica che, in simbiosi con i poteri oggi prevalenti, cerca di “vendere” ai cittadini una pittura della situazione che è ormai quasi del tutto di fantasia. Che con la realtà dei fatti, con la proporzione delle questioni aperte, con la praticabilità delle soluzioni proposte ha un rapporto labilissimo, in molti casi inesistente. È un racconto di comodo, di interesse, che sempre più spesso va a spaccarsi le corna contro l’implacabile muro delle cose.

Stampa inutile se non dannosa

La conseguenza è questa: ogni volta che ci si trova ad affrontare una questione controversa e importante, ogni volta che servirebbe un’analisi seria e profonda per aiutarci a capire, molti dei media più diffusi sono largamente inutili, quando non dannosi. Prendiamo la guerra in Russia seguita all’invasione russa. Ci sono due livelli. Le pure e semplici balle: i russi combattono con le pale perché non hanno più armi; i russi usano i microchip delle lavatrici per i missili perché la loro industria bellica è a pezzi (indimenticabile copyright di Ursula von Der Leyen); i russi scavano trincee nel terreno contaminato di Cernobyl; i russi prendono pastiglie che consentono loro di combattere anche quando sono feriti…

Ma questa è la fuffa, la schiuma. La sostanza sta nel fatto che tutte le previsioni importanti si sono rivelate sballate: l’effetto delle sanzioni, il sostegno dei russi a Putin, la capacità dei russi di riarmare, persino la possibilità di isolare la Russia nel contesto internazionale.

Propaganda, vera tragedia ucraina. Poi Trump, e Germania, eccetera

Abbiamo fatto questo esempio perché è il più tragico, in primo luogo per gli ucraini, e clamoroso. Ma vogliamo parlare delle elezioni presidenziali Usa? Prima un tifo sfegatato per Kamala Harris, senza mai spiegare che cosa diavolo volesse fare degli Stati Uniti la candidata improvvisata dopo la rinuncia di Joe Biden. Poi, di fronte alla vittoria a valanga di Donald Trump che nessuno aveva nemmeno lontanamente ipotizzato, un solo grottesco lamento sulla fine della democrazia, degli Usa, della civiltà. La crisi di governo in Germania, con le prossime elezioni anticipate? Il ruggito del vecchio leone Scholz, come se non fosse il certificato di morte della “maggioranza semaforo” (liberali, socialdemocratici e verdi) che ha governato finora il Paese e che, incidentalmente, è la stessa maggioranza che governa la Ue. Per non dire del fatto che se va in crisi la Germania andiamo in crisi un po’ tutti, a partire dall’Italia.

E la Francia di Marine Le Pen?

L’avanzata della destra di Marine Le Pen in Francia? Ricordo perfettamente che, all’epoca delle prime proteste dei gilet gialli, eravamo pochissimi a dire: guardate che dietro tutto questo, vi piaccia o no, c’è un problema vero, concreto. Riassumibile in una sola domanda: chi paga il costo della transizione energetica? Però non si poteva, anzi non si doveva dire, guai a criticare le politiche di Emmanuel Macron. E che pacchia quando le manifestazioni dei gilet gialli diventarono occasione di scontro e di speculazione dei soliti black Block e compagnia bella. E adesso? Che cosa ci diciamo adesso della transizione energetica e della posizione di Macron all’interno del suo stesso Paese? Tutto bene? Oppure vale la solita spiegazione, cioè che milioni di francesi (e tedeschi e italiani) si sono rincoglioniti?

Non senza tv e giornali, ma informazione seria

Qualcuno, anzi, molti, credono che si possa vivere benissimo anche senza Tv e giornali. Non è vero. Primo perché nessuna società, come già Omero dimostrava, riesce a stare senza qualcuno che racconti il mondo. Secondo, perché l’informazione, ormai, non sta più nei media comunemente detti. L’informazione, cioè il racconto del mondo, è nell’aria, arriva dai telefoni, dagli schermi nelle metropolitane, dai social, dai passaparola sui tram, dalle classifiche dei libri di Amazon, dalle chat.

E noi tutti cittadini abbiamo il diritto/dovere ad avere un racconto del mondo non vero o falso, non onesto o disonesto (categorie aleatorie se applicate all’informazione) ma ancorato alla realtà dei fatti e non alle fantasie più o meno interessate. Nessuno di noi vuole tornare ai tempi della peggior Unione Sovietica, quando il motto era: se teoria e realtà non combaciano, la colpa è della realtà.

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lunedì 18 novembre 2024

Il punto di non ritorno su medici e infermieri - Nicoletta Dentico


La carenza di personale è il segno più grave del collasso della sanità pubblica. I mancati investimenti tradiscono il diritto alla salute. La rubrica di Nicoletta Dentico

Tratto da Altreconomia 275 — Novembre 2024

Nonostante derivi dall’ambiente manageriale, il termine “risorse umane” evidenzia il valore intrinseco del personale, per le sue competenze e professionalità. Questa accezione risulta di particolare rilevanza quando parliamo di servizio sanitario, un settore in cui i livelli professionali elevati sono necessariamente diffusi e le capacità relazionali fondamentali. L’attività svolta da medici e infermieri, e da altre tipologie di personale della salute pubblica, è la chiave di volta di un servizio dedicato alla persona, una voce non comprimibile di spesa a fronte del mantenimento di qualità e accessibilità.

Quando la Fondazione Gimbe racconta il collasso della sanità pubblica italiana -come ha fatto di recente con la presentazione del settimo Rapporto sul Servizio sanitario nazionale (Ssn)-, proiettando “una tenuta prossima al punto di non ritorno” e contando “quasi 4,5 milioni di persone che nel 2023 hanno rinunciato alle cure”, racconta gli effetti sistemici e non congiunturali di una strategia di contenimento della spesa sanitaria che in Italia è stata largamente attuata con la riduzione del personale (i famosi tetti di spesa introdotti nel 2004 dal secondo Governo Berlusconi, e poi riconfermati).

A differenza della produzione di oggetti, quella di servizi -specialmente in ambito sanitario- ha come perno la scelta di puntare sugli investimenti nelle risorse umane, sia sotto il profilo qualitativo -con la formazione continua, la valorizzazione di competenze ed esperienze- sia quantitativo, con la programmazione degli accessi all’università e la capacità di attrarre e trattenere le professionalità all’interno del sistema sanitario pubblico. Non fare questa scelta significa tradire il diritto alla salute, i principi costituzionali di universalismo, equità e uguaglianza, fondamentali per uno Stato responsabile e per un compiuto sviluppo della società.

Dopo la pandemia da Covid-19, non fare questa scelta significa tradire la popolazione italiana tout court. Soprattutto perché si registra nel Paese un accanito incremento delle fasce socioeconomiche più deboli, un aumento dei bisogni assistenziali dovuto alle modifiche della struttura familiare e all’invecchiamento della popolazione (nel 2050 il 34,9% degli italiani avrà più di 65 anni, a fronte della drastica riduzione di quelli in età lavorativa al 53,4%), per non parlare di quanti vivono nel Mezzogiorno e nelle aree interne, sempre più disagiate.

È del 55% la percentuale di medici italiani con oltre 55 anni di età. La media dei Paesi Ocse è del 33%, mentre è del 9,2 quella del numero di infermieri per mille abitanti. L’Italia ne ha solo 6,2. Si stima che il personale infermieristico dovrebbe essere incrementato di circa 350mila unità (Crea 2023).

Queste tendenze pongono sfide sanitarie decisive: il consumo di farmaci, il ricorso a visite mediche, i ricoveri ospedalieri e le patologie per le quali non esistono ancora strumenti di prevenzione e di terapia risolutivi -la demenza, il Parkinson, l’Alzheimer- sono tutti fenomeni correlati all’età. E che dire poi della salute mentale che dopo la pandemia da Covid-19, lo abbiamo già raccontato, colpisce con effetti diretti anche le giovani generazioni? Un altro fattore, dopo il 2020, ci impone di incrementare le risorse umane in ambito sanitario: le emergenze epidemiche, ricorrenti prima e dopo Covid-19 (basti pensare al vaiolo delle scimmie, alla influenza aviaria, alla “pandemia silente” della resistenza antimicrobica), legate a doppio filo al rapporto malato dell’umanità con la natura che la circonda.

Ogni Paese deve essere enormemente grato al proprio personale sanitario e assistenziale: “Questo non è mai stato più evidente che al culmine della pandemia da Covid-19, quando i professionisti sanitari si sono schierati come principale difesa […] spesso a grande rischio personale, mettendo a repentaglio la propria vita” (Organizzazione mondiale della sanità, 2022). Sosteniamo le loro battaglie, invece di attaccarli in corsia.

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Una imbarazzata, vile e indecente passività - Pino Arlacchi

 

(da Fatto Quotidiano, 14 novembre 2024)

Una imbarazzata, vile, indecente indifferenza di fronte ad un genocidio che si svolge davanti i nostri occhi sembra paralizzare la comunità internazionale da un anno a questa parte.

Con il pretesto di vendicare una strage di innocenti a sua volta subita, uno stato assassino sta sterminando senza ritegno la popolazione inerme di un altro stato con lo scopo dichiarato di volerla annientare fisicamente e farla fuggire dalla propria terra.

Non è la prima volta che ciò accade, ma è la prima volta che lo spettacolo di morte può essere gustato gratuitamente, stando seduti sul divano di casa invece che sulle gradinate del Colosseo. I media dominanti alternano gli aggiornamenti sulle partite di calcio a quelli sugli eccidi di Gaza senza mostrare alcuna empatia per le vittime. I due genocidi più vicini nel tempo, quello del Rwanda del 1994 e quello della Bosnia del 1995, non hanno goduto del privilegio di una copertura mediatica quotidiana.

 

Ma è proprio questa insolente evidenza che mette in risalto l’insensibilità dei governi e delle istituzioni globali di fronte ad una catastrofe che poteva essere evitata fin dal suo inizio se non ci fossero stati di mezzo Israele e gli Stati Uniti. Non ci sono al riguardo valide giustificazioni. Il “crimine dei crimini” è ben codificato fin dal 1948 da una apposita Convenzione contro il genocidio che obbliga i firmatari ad intervenire anche in via preventiva, ed è anche ben studiato a livello accademico. Anche l’indifferenza dei più verso i primi atti di un genocidio è stata individuata come una condizione fondamentale per il completamento dello stesso.

Gli studi più recenti hanno abbandonato vecchie chiavi di lettura. I genocidi non sono più visti come il prodotto del lato bestiale e sadico della natura umana, pronto a scatenarsi contro la diversità razziale, politica, etnica o religiosa. Le “soluzioni finali” sono di regola progetti razionali, concepiti da consorterie di potere intente a preservare il loro dominio che ricorrono allo sterminio dei civili come un mezzo per restare in sella oppure come ultima ratio dopo aver esaurito le alternative.

 

Le pulizie etniche contro popolazioni disarmate sono lucidi programmi di sopraffazione messi in piedi da piccoli gruppi di politici o di militari capaci di attivare macchine di coercizione e propaganda micidiali. La cui efficacia prescinde in larga misura dal consenso o dalla partecipazione attiva di larghe masse.

Secondo questi studi, non c’è nulla di incomprensibile e di irrefrenabile nella dinamica delle “soluzioni finali”. Le discese nel regno dell’oscurità continuano ad accadere perché non sono difficili da organizzare. Sono opera di minoranze risolute e di governi tirannici o fintamente democratici che confidano nell’indifferenza, nello scoramento e nella passività della grande maggioranza della gente.

I nazisti, i khmer rossi, i militari indonesiani dei massacri anticomunisti del 1967, gli ufficiali bosniaci, i capi Hutu, sapevano di poter contare sul fatto che i loro connazionali non avrebbero alzato un dito di fronte ai loro crimini. Si sarebbero voltati dall’ altra parte per fingere di non vedere, e per non dare ascolto alla propria coscienza.

 

Ed è precisamente su questo che contano oggi Netanyahu ed i suoi ministri. La società israeliana, un tempo reattiva in tema di stragi di palestinesi, è stata avvelenata dai sentimenti di vendetta e dall’odio antipalestinese diffuso dal governo. Il senso di impunità dei perpetratori viene inoltre amplificato dalla protezione americana e dalle deboli condanne internazionali. Solo una decina di stati hanno censurato Israele e preso misure punitive nei suoi confronti.

Ma non tutto è perduto. Anzi. Il modo di concepire il genocidio che abbiamo citato ha conseguenze pratiche di rilievo. La più importante è che i macrocrimini sono prevedibili e contrastabili. Per evitare i bagni di sangue non occorre rimuovere le montagne. Non è necessario risalire alle sorgenti della cattiveria umana. Ci sono precisi segni premonitori che possono essere decifrati – sono stati individuati i 5-10 passi che precedono l’olocausto. Tecniche, dinamiche e protagonisti dei genocidi sono simili dovunque. Ed esiste una vasta gamma di possibilità di intervento che non richiedono, nelle prime fasi, grandi risorse.

 

Il più grave genocidio - quello del Rwanda – poteva essere spento nelle sue prime settimane (durò in tutto cento giorni), e quello di Srebrenica non sarebbe neppure iniziato se le Nazioni Unite, presenti sul posto con contingenti di caschi blu sufficienti alla bisogna, non avessero rinunciato ad usarli nei modi e nei tempi necessari.

Al pari delle guerre e delle malattie infettive, le atrocità possono essere prevenute senza sforzi sovrumani. Colpendo con precisione e durezza quel nucleo iniziale di politici falliti o in via di fallimento (vedi Netanyahu), avventurieri a profittatori senza scrupoli (vedi industrie militari), professionisti della violenza (vedi mafie) e della provocazione (media intossicanti) decisi a costruirsi posizioni di potere o ad arricchirsi sfruttando vecchi risentimenti o inventando pericoli mortali.

Se nelle prime settimane del macello di Gaza, il Segretario generale dell’ONU avesse attivato l’unità costituita proprio per lanciare gli allarmi preventivi sulle pulizie etniche ed i genocidi, la comunità internazionale non avrebbe dovuto attendere il gennaio dell’anno successivo per ricevere il monito della Corte di giustizia internazionale sull’esistenza di un tentativo di genocidio che era, in realtà, già in corso da mesi.

 

Questo ufficio esiste da quasi 20 anni, ed è stato creato dal mio diretto superiore, Kofi Annan. Non è molto, ma è tutto quello che lui è stato capace di fare per rispondere alle critiche sulla sua personale responsabilità, come capo del peacekeeping ONU, per non avere impedito sia il Rwanda che Srebrenica.

Cosa sarebbe accaduto se Guterres avesse chiesto subito - nelle prime settimane dei bombardamenti su Gaza - agli organi dell’ONU di intervenire usando lo strumento più pesante a loro disposizione, una missione di caschi blu in difesa dei civili palestinesi massacrati?

E cosa sarebbe accaduto se, di fronte al prevedibile veto USA in Consiglio di Sicurezza, Guterres avesse invitato gli stati membri o le associazioni regionali - in base al capitolo VII della carta delle Nazioni Unite, quello che disciplina l’uso della forza - a costituire comunque una coalizione di paesi in grado di formare un contingente di intervento a protezione dei civili di Gaza e del personale e delle strutture dell’UNRWA bombardate quotidianamente?

 

A fare cioè la stessa cosa che una associazione regionale come la NATO ha fatto nel 1999 in nome del capitolo VII intervenendo contro la Serbia per ostacolare un genocidio che per giunta era inesistente!

Probabilmente non sarebbe accaduto nulla di sconvolgente, salvo una richiesta americana di dimissioni immediate del Segretario generale. La furia necrofila di Israele sarebbe continuata implacabile.

Certo. Ma sarebbe proseguita in condizioni sicuramente più difficili, perché la scossa ONU si sarebbe trasmessa alla comunità internazionale. Ne avrebbe lacerato l’apparente passività di fronte alla catastrofe di Gaza ed alla degenerazione di Israele.

Questa passività è in fondo una maschera che cela la frustrazione e l’impotenza del mondo accumulate da decenni di sconfitte sul fronte del mantenimento della pace. E ancora più in profondo, in realtà, continuano a scorrere una immutata volontà di giustizia ed una sotterranea empatia verso le vittime delle atrocità che potrebbero affiorare in superficie.

 

Ma è il mondo stesso che deve prendere atto, finalmente, di essere diventato multipolare, e quindi più libero di dare sfogo alle forze della pace e dei diritti. Nell’ Assemblea generale delle Nazioni Unite si è ormai formata una ampia maggioranza coerente con questo nuovo ordine mondiale. Dobbiamo tracciare il cammino perchè l’indifferenza e lo scoramento di oggi si trasformino in impegno operativo in soccorso delle vittime di Gaza.

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domenica 17 novembre 2024

La rabbia può andare in molte direzioni - John Holloway

 

La società delle merci è fatta di relazioni aggressive ma anche di rabbia contro l’aggressività permanente. Da diversi anni, come dimostra ovunque l’ascesa della nuova destra, gran parte di quella rabbia assume una forma spaventosa che nega il flusso sociale dell’umanità. L’elemento chiave che porta a trasformare quella rabbia in neofascismo è prima di tutto la paura, scrive John Holloway, una paura che viene fomentata da agitatori ma che ha una base reale nell’insicurezza generata dalle crisi capitalistica. In questo saggio straordinario e fuori dalla cultura politica dominante, anche a sinistra, Holloway ragiona sul bisogno di non ingabbiare la risposta all’ascesa della destra identificandosi in una controparte, loro sono fascisti-combattere i fascisti (“la lotta è contro il razzismo, il fascismo, il sessismo: non contro i razzisti, i fascisti, i sessisti…”), sul bisogno di sviluppare in basso una politica del noi comunitaria ma antidentitaria, sul bisogno di scavare in profondità oltre le risposte elettorali, perfino sul bisogno di intrecciare la rabbia popolare perversa, quella identitaria, razzista, sessista e statalista con la rabbia dignitosa, la rabia digna, per dirla con le comunità zapatiste. “C’è un modo per spingere in questa direzione? Forse. Non necessariamente. Ma forse. Preguntando caminamos…”

 

La ribellione corre lungo la strada sbagliata
La tempesta si abbatte sull’albero sbagliato”

[Linton Kwesi Johnson]1

[John Holloway2]

1. Il tema è la rabbia: resistenza, ricchezza, ribellione, tempesta

La rabbia, un sentimento sociale che può fluire in direzioni diverse e imprevedibili: questo è il punto di partenza per pensare all’ascesa della Nuova Destra.

Dopo i disordini razziali del luglio 2021 in Sudafrica, Abahlali baseMjondolo, un gruppo di abitanti delle baracche, dichiarò: “Abahlali baseMjondolo ha sempre avvertito che la rabbia dei poveri può andare in molte direzioni. Abbiamo avvertito più volte che siamo seduti su una bomba a orologeria”. Come nella canzone di Linton Kwesi Johnson, la rabbia corre lungo la strada sbagliata, con conseguenze disastrose.

2. Rabbia-resistenza-ricchezza sono insite nel valore. Esistono contro e al di là della forma del valore

Perché sei così arrabbiata? – disse il ragno alla mosca – Rilassati e lascia che ti mangi.

Non siamo fuori dal flusso sociale della rabbia, ne facciamo parte. Non è qualcosa che scegliamo. Viviamo in una totalità di relazioni aggressive e rabbiose.

Qualsiasi società è caratterizzata da modelli di coesione o confluenza sociale, ovvero dai modi in cui le azioni delle persone si uniscono.3 Nella società capitalista 4, questa confluenza sociale è plasmata dal fatto che le nostre creazioni sono messe in relazione prevalentemente attraverso lo scambio dei nostri prodotti come merci. Ciò impone alla società una certa regolarità o legalità, analizzata dagli economisti politici e criticata da Marx. Merce, valore, lavoro astratto, denaro, capitale, Stato sono categorie chiave per comprendere le regole o la struttura o la dinamica del flusso della confluenza sociale capitalista.

Questa confluenza sociale, che per brevità possiamo chiamare valore, è aggressiva. Il fulcro di questa aggressione è che spinge l’attività della nostra vita verso un lavoro astratto. Se ci si rifiuta, si muore di fame. L’aggressione si estende a ogni aspetto dell’esistenza umana. La confluenza sociale (valore) incanala la nostra creatività in modi che non controlliamo: siamo costretti ad andare in una certa direzione, proprio come un fiume che viene murato in un canale o in un tubo. La direzione non è determinata da noi, ma dalla ricerca del profitto. Questa canalizzazione o imbrigliamento dell’attività umana si è dimostrata estremamente efficace nel produrre una certa forma di ricchezza, ma anche estremamente distruttiva per le vite umane e per quelle non umane, e ora ci minaccia di estinzione dell’umanità.

L’aggressione che è valore genera resistenza5. È un aspetto inevitabile e inseparabile dell’aggressione. La resistenza è insita nell’aggressione. Non è necessariamente evidente. Può darsi che le pareti di un canale siano l’espressione più visibile della resistenza dell’acqua che viene incanalata, o che l’esistenza stessa delle briglie sia la prova più evidente della resistenza di un cavallo che viene costretto ad andare in una direzione. Può darsi che l’esistenza di capisquadra e telecamere e dipartimenti di relazioni umane e la polizia e il sistema educativo e gli ospedali psichiatrici siano tutte prove più evidenti della costante resistenza umana alla regola del valore. Ma la resistenza non è visibile solo in questi specchi istituzionali. È anche visibile direttamente nella rabbia, nella contro-aggressione inconsulta, nelle lamentele, nel rifiuto di obbedire, negli scioperi, nella miriade di tentativi di evitare la disciplina del lavoro astratto e di creare altri modi di vivere, nelle ribellioni. La società capitalista si basa su una rabbia strutturale.

Queste rabbie, resistenze e rifiuti non sono semplicemente negativi: spesso mettono a confronto il valore-ricchezza misurato in denaro con una diversa ricchezza a cui attribuiamo un altro tipo di valore: la ricchezza della convivialità creativa, la ricchezza del riconoscimento reciproco, la memoria del potenziale non realizzato. Spesso questa rabbia-resistenza-ricchezza spinge contro e oltre il valore, verso un altro tipo di confluenza sociale, verso un mondo in comune: è ciò che gli zapatisti chiamano digna rabia, una rabbia dignitosa o giusta.

La confluenza sociale della società attuale è antagonistica: il lavoro astratto contro il fare, il denaro contro la vita, il capitale contro l’umanità, la merce contro la condivisione, il valore contro il valore d’uso. In ciascun caso, la categoria dominante ha una sua chiarezza, quella subordinata ha una problematica difficoltà inseparabile dal suo status di subordinazione. Ciò che conta per il momento è comprendere il valore come un’aggressione, un processo di lotta che genera rabbia-resistenza-ricchezza. L’importante è dire chiaramente che in questo antagonismo ci schieriamo dalla parte della rabbia-resistenza-ricchezza. Il futuro del mondo dipende dalla forza della nostra digna rabia.

3. Valore-rabbia-resistenza-ricchezza fluiscono attraverso la negazione del loro scorrere

3.1 Le relazioni sociali sono fluide. Devono esserlo, semplicemente perché sono relazioni tra persone che vivono, muoiono, fanno, si muovono, creano, amano, odiano. Il fatto che questo flusso segua (e resista) a certi schemi di confluenza, non cambia che le relazioni sociali siano in costante movimento. Il movimento è il movimento del nostro fare, del nostro creare, sia che ciò che creiamo sia uno spaghetto al ragù o un’automobile o uno smartphone o un giardino o anche un articolo scritto per una conferenza a Vancouver. Si tratta di un flusso sociale di ricchezza che non esiste mai al di fuori del modello stabilito di confluenza sociale (valore), ma esiste sempre contro e oltre esso. Marx ha dato a questo flusso sociale l’infelice nome di “forze di produzione”, ma l’idea è chiara: la spinta della creatività umana o della ricchezza contro e oltre la confluenza sociale esistente (“rapporti di produzione”).

3.2 Una caratteristica distintiva del capitalismo, tuttavia, è che le attività o le relazioni sociali fluiscono attraverso forme che negano il fluire. In una società produttrice di merci, le relazioni tra le persone si stabiliscono attraverso lo scambio di cose e ciò porta alla cosificazione o reificazione di queste relazioni. Questo è uno (il) tema centrale del Capitale di Marx. Il modello di confluenza sociale attraverso cui si muovono le nostre attività non è trasparente. La confluenza si muove attraverso la propria negazione, la propria reificazione.

La reificazione ha un effetto enorme sul nostro modo di vivere e di pensare le nostre vite. Impone una grammatica reale e concettuale alle nostre relazioni con le persone. Si tratta di una grammatica caratterizzata dalla subordinazione dei verbi ai nomi, della vita umana all’assenza di vita degli oggetti. Viviamo circondati da cose, viviamo vite modellate da cose: il denaro, lo stato, il mio computer, la mia scrivania. Le cose nascondono la cosificazione delle azioni sociali che le hanno create e delle connessioni sociali che le hanno portate nella mia vita. Il mio computer è stato progettato e realizzato da persone (non ho idea di chi o dove) ed è passato attraverso una serie di attività umane prima di approdare sulla mia scrivania, anch’essa prodotto di attività umane. Allo stesso modo, il denaro è una creazione sociale in costante movimento, un modo particolare di relazionarsi gli uni con gli altri che modella profondamente il nostro modo di vivere.

La grammatica della reificazione nega il flusso del fare sociale. Rifrange il flusso attraverso forme che lo negano. Elimina i momenti di interazione sociale dal flusso globale e li congela in cristalli separati. Il denaro, visto come una cosa, viene astratto dal flusso dell’interazione sociale che lo ha costituito come relazione sociale e trattato come un oggetto: la reificazione subordina il soggetto all’oggetto, lo priva della sua soggettività.

L’identificazione, individuale o collettiva che sia, è un aspetto della reificazione. Io, in quanto persona, sono analogamente astratto da tutte le attività sociali indefinite che mi hanno costituito e continuano a costituirmi, e sono trattato come un individuo, un individuo che può essere nominato ed etichettato, etichettato in modi che astraggono dalla miriade di interazioni che mi costituiscono o che semplicemente si concentrano astrattamente su una o poche di queste interazioni: sono un professore, bianco, maschio, irlandese, messicano, migrante. L’astrazione dal flusso sociale del fare si manifesta come identificazione, costituzione di identità, tutte suscettibili di ammirazione o squalifica: odio/amo i professori, i maschi bianchi, gli immigrati, ecc. Dire che una persona è una combinazione di identità diverse non cambia nulla: è solo un accumulare un’astrazione sull’altra. L’identificazione è separazione. Essendo astratto dal flusso sociale, sono separato da altri che sono similmente separati. Gli altri non sono me: sono “alterizzati” o spersonalizzati, diventano un “loro”. L’identificazione è parte della grammatica della reificazione, della totalità dell’organizzazione materiale e concettuale che scaturisce dalla predominanza del valore, dalla predominanza dello scambio di merci nelle relazioni umane.

Reificazione, cosificazione, feticizzazione, alienazione, oggettivazione, identificazione, etichettatura, istituzionalizzazione, frammentazione, individualizzazione sono insite nel valore, la forma dominante di coesione o confluenza sociale. Sono aspetti della coagulazione del flusso del vivere umano in forme particolari: forme che negano la loro specificità storica e si astraggono dal flusso sociale di cui sono inevitabilmente parte. La reificazione è un processo di formazione e produzione di forme che proclamano la loro indipendenza da ciò che le ha costituite e continua a costituirle, che proclamano l’autonomia della loro esistenza dalla loro costituzione. Criticare significa muoversi nella direzione opposta, svelare questa reale apparenza di autonomia e rivelare (per superarla) la genesi storica e continua di queste forme. Il capitalismo è una concatenazione di forme sociali. Migrante, messicano, professore, sono forme sociali non meno del valore o dello Stato: categorie che non vanno mai prese così come si presentano, ma sempre criticate.

Criticare non significa negare l’esistenza delle forme criticate. Criticare fa parte della lotta per il superamento delle forme feticizzate, ma non lo raggiunge da solo. C’è una vera e propria coagulazione o coagulo delle relazioni sociali. La separazione dell’esistenza dalla sua costituzione non è una mera apparenza, ma un’apparenza reale. L’astrazione delle forme (migrante, messicano, ecc.) dal flusso sociale del fare è un’astrazione reale con quegli effetti terribili di cui siamo attualmente testimoni. La sociologia e altre “discipline” si basano sull’esistenza reale (ma superficiale) di queste relazioni sociali coagulate e contribuiscono certamente alla loro solidità, cioè alla loro dinamica di morte. Lo stesso vale per le interpretazioni sociologiche del marxismo e per le standpoint theory, nella misura in cui isolano un particolare punto di vista dal flusso generale dell’antagonismo sociale che costituisce il punto di vista stesso. Criticare significa ricollocare le forme feticizzate nel flusso sociale che esse negano: per criticare il tavolo mostriamo come esso sia il prodotto di un’attività storicamente e socialmente situata. Per criticare il denaro, mostriamo che ha la sua genesi in una determinata organizzazione sociale dell’attività storicamente collocata.

3.3 Lo Stato è una forma di reificazione o identificazione particolarmente significativa. La sua stessa esistenza come forma di relazioni sociali particolarizzate o astratte dalla totalità del flusso sociale, è espressione della reificazione generale delle relazioni sociali nel capitalismo.6 Lo Stato non è quindi l’origine dell’identificazione, ma la sua esistenza come forma di organizzazione sociale è il costante rafforzamento dell’identificazione. Lo Stato ci definisce come cittadini (o sudditi) o stranieri. Questo è un aspetto della sua esistenza come forma di relazione sociale, non una questione di politica o di funzione. Vivere all’interno di uno Stato significa sottoporsi a un processo di indottrinamento costantemente ripetuto che ci identifica come cittadini di quello Stato: il successo di questo indottrinamento è probabilmente una precondizione per la riproduzione dello Stato. Attraverso la costante enfasi sull’identità nazionale e la violenza dei confini, lo Stato è in effetti una scuola di fascismo. Gli stati organizzano periodicamente l’assassinio su larga scala di “stranieri” per il solo fatto che sono stranieri.7 La chiamano “guerra”. O, più precisamente, immersi nella terzietà generata dallo scambio di merci e costantemente rafforzata dallo Stato, milioni di persone uccidono milioni di altre persone solo perché sono straniere.8 Questa semplice identificazione ha portato nell’ultimo secolo all’uccisione di innumerevoli milioni di persone. Questa identificazione e disumanizzazione di Stato è inseparabile dall’attuale ascesa dell’estrema destra. Gli stati più ricchi e civilizzati del Nord, in particolare, hanno una lunga storia di imperial-fascismo brutale e razzista inscritta nella loro cultura. C’è poca differenza tra le “democrazie liberali” e gli stati più autoritari in questa identificazione.9 Il genocidio di Gaza, attivamente o passivamente supportato da quasi tutti gli stati, ha svelato la realtà della statualità.

3.4 Il flusso sociale si muove attraverso forme reificate che negano la loro esistenza come forme del flusso sociale, ma continua comunque a scorrere. La reificazione non è mera apparenza, è apparenza reale, ma, come il valore, è un processo, un processo antagonistico di reificazione. È la stessa dinamica costante di imporre o cercare di imporre una certa regolarità o legalità (contenente gli obblighi di legge) all’interazione umana. È un’aggressione: la reificazione è un’aggressione, l’identificazione è un’aggressione, è la restrizione delle nostre attività e dei nostri pensieri entro certi parametri, con conseguenze estremamente violente.

Come per il valore, c’è un processo costante di resistenza, una resistenza che abbraccia rabbia-memoria-ricchezza. Dignità. Dignità: il concetto portato alla ribalta in modo così bello dagli zapatisti. Sì, siamo indigeni, pieni della rabbia dei nostri antenati, pieni della memoria di secoli di lotta, pieni della ricchezza delle nostre tradizioni, siamo esseri umani oppressi che rompono qualsiasi etichetta identitaria ci venga attribuita e lottano per il futuro dell’umanità. Una resistenza che si muove nella rabbia-memoria-resistenza contro e oltre l’identità. La speranza è un movimento contro e oltre.

L’identificazione si confronta costantemente con un movimento contrario. Questo movimento viene spesso definito (da me e da altri) come movimento anti-identitario, ma ciò è fuorviante. Non si tratta di negare l’esistenza delle identità o di altri feticci: si tratta di apparenze reali, non di mere apparenze. È la sottrazione del flusso sociale dallo scambio di merci e dalle sue forme. Siamo realmente identificati, abbiamo un’identità che nega il flusso sociale, ma spingiamo contro-e-oltre questa identificazione verso una sorta di comunanza con gli altri, verso un riconoscimento della comunità condivisa. L’identificazione si confronta allora con l’identità contro e oltre, con la dignità, con la digna rabia, con la spinta verso il riconoscimento reciproco, con il non-ancora che già esiste, con la defeticizzazione-comunicazione che nasce da e contro l’esperienza dell’oppressione.

3.5 Il fatto che l’identificazione/feticizzazione/alienazione rappresenti un processo, significa che siamo tutti schizofrenici nel senso popolare di esser divisi contro noi stessi: non perché abbiamo una molteplicità di identità, ma perché siamo lacerati dal conflitto tra identificazione e superamento dell’identità, tra feticizzazione e defeticizzazione. Non esiste un soggetto non identitario puro, così come non esiste un soggetto non razzista o non nazionalista puro, o un soggetto rivoluzionario puro. La contraddizione è insita nella nostra esistenza.10 È importante riconoscerlo perché il fascismo rappresenta proprio la negazione di questa contraddizione, il perseguimento di una identità pura.

Come per gli individui, tutti i movimenti sociali sono attraversati da una tensione tra identitarismo e anti-identitarismo (che è quello che io chiamo identità contro e oltre). Gli zapatisti sono stati straordinariamente bravi nel non limitare a presentarsi con movimento indigeno, ma forse non si può dire altrettanto per tutti i movimenti di solidarietà agli zapatisti. Anche il movimento curdo è stato consapevolmente anti-identitario, ma al suo interno vi sono significativi filoni identitari. La stessa tensione esiste ed è di enorme importanza nei movimenti femministi, neri, trans e in tutti i movimenti di protesta. Il rifiuto della potente deriva identitaria che inevitabilmente emerge da una società basata sullo scambio di merci, è cruciale per il futuro dell’umanità. La grammatica dell’identità è la grammatica del valore, la grammatica della distruzione. La grammatica dell’emancipazione si muove contro e oltre l’identità.

4. L’antagonismo del flusso sociale si intensifica

La misurazione della grandezza del valore della merce in base al tempo socialmente necessario per la sua produzione e i suoi sviluppi, la crescente composizione organica del capitale e la tendenza alla diminuzione del tasso di profitto indicano che l’antagonismo insito nella produzione di valore subisce un costante processo di intensificazione. Per sopravvivere, il capitale deve fregarci sempre di più: per mantenere il suo tasso di profitto, deve aumentare costantemente il tasso di sfruttamento in modo da contrastare il suo crescente investimento in macchinari e materie prime.

Non si tratta di un processo automatico. Il lavoro astratto, il lavoro che produce valore, è il risultato di un lungo processo storico di disciplinamento, che comporta violenza, omicidi, guerre, la costante ristrutturazione dell’istruzione per formare persone in grado di produrre valore o di accettare la propria condizione di eccedenza con tutta la povertà e la miseria che ciò comporta, la ridefinizione della genitorialità per concentrarsi sulla competitività dei bambini, la ridefinizione dell’infanzia e così via.

Tuttavia, anche con questo enorme sforzo per aumentare la produzione di plusvalore, la velocità con cui aumenta l’esigenza del capitale è tale che si arriva periodicamente a un punto in cui l’aumento del tasso di sfruttamento (tasso di plusvalore) non è sufficiente a contrastare l’aumento degli investimenti in macchinari (l’aumento della composizione organica del capitale). Questo è il nocciolo della crisi capitalistica: la produzione di plusvalore non è sufficiente a mantenere i profitti capitalistici. Se tutto va bene per il capitale, come è accaduto finora, la crisi si risolve attraverso una ristrutturazione del capitale: un aumento della produzione di plusvalore, l’eliminazione dei capitali meno redditizi e la riorganizzazione del rapporto tra capitale costante e variabile. Nell’ultima grande crisi del capitale, negli anni Trenta, il capitale è riuscito a ristrutturarsi e ha creato le basi per la prolungata “epoca d’oro” dell’accumulazione postbellica. Questa ristrutturazione è stata ottenuta attraverso il fascismo, la guerra e l’uccisione di circa settanta milioni di persone. Può darsi che anche l’attuale crisi (manifestatasi brutalmente nel 2008) porterà a una risoluzione simile (su scala molto più ampia), ma per il momento tale risoluzione viene rimandata attraverso l’espansione a lungo termine del debito. Il capitalismo oggi funziona sempre più (e nonostante l’inasprimento della politica monetaria dal 2022) sulla base di un capitale fittizio, cioè sulla base di un plusvalore non ancora prodotto. L’espansione del debito converte la crisi dallo shock a breve termine tipico dell’epoca di Marx in una crisi prolungata, gestita e normalizzata. Sembra essere una “crisi permanente” come quella analizzata da Mattick negli anni ’30, ma allora Mattick era troppo ottimista. La base fittizia del capitalismo contemporaneo è la conversione di gran parte del capitale dalla forma produttiva a quella monetaria, ovvero l’ascesa del capitale finanziario, una forma di capitale apparentemente autonoma dal processo di produzione del plusvalore, ma questa autonomia è pura finzione.

La crisi è un’intensificazione dell’antagonismo sociale. Il capitale, a causa dell’inasprimento della competizione per ottenere una quota della massa relativamente ridotta di plusvalore sociale, è costretto a diventare più aggressivo. Coloro che sono costretti a lavorare o a cercare l’opportunità di lavorare, soffrono di un aumento dello sfruttamento, dello stress e della miseria sociale di ogni tipo. La rabbia cresce.

5. La nostra rabbia

La regola del valore si basa su una rabbia strutturale. La crisi è l’intensificazione dell’antagonismo sociale, della rabbia sociale. Rabbia contro la disuguaglianza, la discriminazione, la violenza, l’insicurezza, lo sfruttamento, la distruzione del mondo che ci circonda. Rabbia contro le conseguenze del dominio del valore, del denaro, del capitale.

Questa è la nostra rabbia. Nella crisi vediamo la brutalità e la fragilità del capitalismo. La crisi è inseparabile dalla speranza. La speranza di poter creare un mondo diverso è radicata nella fragilità del mondo esistente. Ora è il momento della rabbia, ora è il momento di sollevarsi, ora è il momento di abbattere il sistema, ora è il momento della liberazione. ¡Ya basta! Basta! Negli ultimi anni ci sono state numerose sollevazioni sociali che hanno aperto il mondo, almeno per un momento: per esempio, l’intera ondata di occupazioni e lotte in tutto il mondo nel 2011, le esplosioni sociali in Cile e in Colombia.

Eppure, gran parte della rabbia che nasce dalla crisi del capitale (emblematicamente, dalla crisi finanziaria del 2007/2008) ha assunto una forma molto diversa e spaventosa.

6. La nostra rabbia è identificata. E non

Enough is enough! è stato lo slogan scandito dalle folle di estrema destra che in agosto (in Inghilterra, ndr) hanno attaccato moschee e centri in cui sono ospitati i richiedenti asilo.

Enough is enough! È il nostro slogan. ¡Ya basta! Un messaggio di speranza, il rifiuto dell’oppressione, l’apertura verso un mondo di reciproco riconoscimento. Ma nello slogan dell’estrema destra, non c’era alcun reciproco riconoscimento. È stato un attacco verso i diversi, gli altri, i migranti, i musulmani, gli arabi. C’è la rabbia, ma il flusso sociale dell’umanità viene negato. Le persone sono alterizzate, identificate ed etichettate, cosificate. E quando le persone vengono cosificate, possono essere attaccate e persino uccise: uccidere le donne, i migranti, i gay, le trans, gli ebrei, gli arabi. Non perché le disprezziamo sul piano personale, ma è l’esatto contrario: è per via dell’astratta categorizzazione che imponiamo loro.

La nostra rabbia contro il capitalismo è stata deformata in qualcos’altro, in una rabbia che rafforza l’oppressione in modi terribili. Il nucleo di questa distorsione è l’identitarismo: l’etichettatura, l’alterizzazione e la conseguente disumanizzazione dell’altro. Ogni forma di rabbia sociale è di per sé contraddittoria, lacerata dalla tensione tra l’identificazione e la spinta contro e oltre l’identificazione, ma negli ultimi anni è l’identitarismo che sta crescendo in forza. Si è passati dal “odiamo il sistema capitalista”, evidente nelle proteste del 2011, al “odiamo i migranti – e le donne, gli arabi, gli ebrei, i gay, i trans, i neri”.

6.2 La risposta più semplice all’ascesa della destra è quella di identificarsi in una controparte. Loro sono fascisti. Combattere i fascisti. Persino uccidere i fascisti. Vediamo le immagini delle rivolte ed è difficile non identificare i partecipanti: queste persone non sono come noi, sono fascisti.

Ci sono elementi di identificazione nelle spiegazioni funzionaliste del neofascismo, come in quelle che vedono l’ascesa della destra come ciò di cui il capitale ha bisogno al momento, o quelle che si concentrano semplicemente sui leader, su persone come Trump o Milei o Bolsonaro. C’è il rischio di trattare le persone che seguono questi leader solo come masse, come oggetti di propaganda, piuttosto che come soggetti con idee proprie. L’ossessione della destra per i leader si riproduce spesso nelle stesse critiche.11

È difficile non farsi trascinare dalla grammatica dell’identificazione, la grammatica del valore, del fascismo. Il fascismo è un’espressione estrema di alterità, di identificazione. Noi alterizziamo le persone fino a disumanizzarle. E da lì all’attacco alle moschee, ai pogrom, ai campi di concentramento e alle camere a gas, è solo un passo. O, in altre parole, “Auschwitz ha confermato il sillogismo della pura identità come morte”. (Adorno 1966/1990, 362).

6.3 Per contrastare il neofascismo, abbiamo bisogno di una comprensione contro-e-oltre-identitaria dell’ascesa dell’identitarismo estremo, dell’identificazione estrema della (nostra) rabbia sociale.

Cos’è allora che porta l’identificazione a diventare tossica, patologica, omicida?

L’elemento chiave sembra essere la paura, una paura che viene fomentata da agitatori e politici ma che ha una base reale nell’insicurezza generata dalle crisi capitalistica. La crisi viene vissuta come un momento di crescente insicurezza o ansia: crescente disoccupazione, crollo delle imprese, diminuzione del tenore di vita, tagli a qualsiasi sistema di welfare o di sostegno sociale, aumento della popolazione mondiale in eccesso rispetto alle esigenze del capitale. A ciò si aggiunge la caratteristica specifica di questa crisi, la gestione e la normalizzazione della crisi attraverso l’espansione del debito. L’indebitamento di gran parte della popolazione, che non ha riscontro nelle precedenti crisi del capitalismo, impone un conformismo sociale (se scioperiamo, come facciamo a pagare il mutuo o la macchina alla fine del mese?) ma anche un senso di insicurezza fortemente individualizzato. Il debito contiene e distorce il malcontento sociale.


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È sorprendente che Bloch, scrivendo poco dopo la caduta del nazismo, apra il suo Il principio della speranza con un contrasto tra la grammatica della paura e la grammatica della speranza:

“Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Che cosa stiamo aspettando? Cosa ci aspetta? / Molti si sentono solo confusi. La terra trema, non sanno perché e per cosa. Il loro è uno stato di ansietà; se diventa più definito, allora è paura. / Una volta un uomo ha viaggiato in lungo e in largo per imparare la paura. Nel tempo appena trascorso, è divenuta più facile e più vicina, l’arte è stata padroneggiata in modo terribile. Ma ora che i creatori della paura sono stati affrontati, è arrivato un sentimento più adatto a noi. / Si tratta di imparare la speranza”.

Per Bloch, l’antifascismo è una critica alla paura, un’apertura alla speranza. È una questione di grammatica, di come vediamo e pensiamo il mondo. È un’apertura alla Speranza, “Pensare significa avventurarsi oltre”. La paura è un pensiero di recinzione, di definizione. La paura è una politica di muri alti, sia letteralmente che concettualmente.

Il feticismo o l’identitarismo forniscono una risposta all’insicurezza. Fornisce qualcosa che sembra essere fisso e stabile, qualcosa a cui aggrapparsi in un momento di inquietudine. Il flusso sociale del fare è complesso e in continua evoluzione. Il feticismo fornisce una falsa sicurezza, un’astrazione dal flusso sociale, una coagulazione a cui ci si può riferire troppo facilmente. Lui è un arabo, lei è un’ebrea, lui è un bianco. Il movimento del divenire viene negato, così come l’intero processo sociale di costituzione e ricostituzione di un arabo, di un ebreo, di un bianco o persino di un tavolo, del Messico, degli Stati Uniti, del Canada. Il Canada, ad esempio, è un feticcio, una coagulazione instabile del flusso di interazioni sociali, tanto quanto l’ebreo, l’arabo, la donna: tutte astrazioni che si proclamano assolute e indiscutibili, separate dal flusso dell’attività sociale. Sono tutte semplificazioni ingannevoli che ci forniscono un quadro apparentemente sicuro per vivere giorno per giorno. Identificazioni o coagulazioni semplificanti che, di fronte alla paura, possono facilmente trasformarsi da un’affermazione come “mangia cibo piccante perché è messicano” a “odiamo i messicani perché ci tolgono il lavoro”. La forma valore genera insicurezza e identificazione, e l’identificazione genera discriminazione e anche peggio.

L’insicurezza può facilmente trasformarsi in un rimbalzo infinito, definito da Haiven “revanscismo preventivo”: odiamo e temiamo i neri perché sappiamo che ci odiano perché li abbiamo schiavizzati in passato; quindi, dobbiamo colpire per primi prima che ci attacchino. In un recente articolo (The Guardian, 13 agosto 2024) Omer Bartov commenta gli attuali atteggiamenti riscontrati in Israele: “Dopo quello che abbiamo fatto a loro, possiamo solo immaginare cosa ci farebbero se non li distruggessimo. Semplicemente non abbiamo scelta”.

7. La nostra rabbia: verso una politica del Noi

7.1 La sfida è sviluppare un approccio contro-e-oltre-identitario all’ascesa dell’identitarismo estremo.

Una risposta incentrata sullo Stato è problematica, semplicemente perché lo Stato è, nel migliore dei casi, un’espressione solo meno estrema dello stesso processo di identificazione. Le lotte simmetriche sono autolesioniste: partito contro partito, Stato contro Stato, identità contro identità. Anche se “vittoriose”, finiscono per riprodurre ciò a cui si opponevano inizialmente. Il sionismo israeliano ne è l’esempio più ovvio.

7.2 La nostra rabbia: partiamo dalla prima persona plurale, non dalla terza. Proviamo rabbia contro un sistema che ci sta distruggendo. Questa è la nostra rabbia che è stata identificata, spersonalizzata e ci è stata portata via. La nostra rabbia è una rabbia resistenza-ricchezza-memoria.

Una politica identitaria è una politica spersonalizzante, alterizzante, incarnata soprattutto dallo Stato come forma organizzativa e portata alle estreme conseguenze dal fascismo. Una politica contro-e-oltre-identitaria è il tentativo di costruire una politica in prima persona plurale, una politica del Noi basata sul riconoscimento reciproco della comunanza. Questa politica contro-e-oltre-identitaria, in prima persona plurale, ha una lunga tradizione nella storia della lotta anticapitalista. È la tradizione dell’assemblea, il consiglio, la comune, il soviet, la forma organizzativa di base del movimento zapatista, del movimento curdo e di molti altri movimenti in tutto il mondo. Si tratta di un processo necessario ma difficile, che implica una capacità di dialogo non solo con i nostri amici, ma anche con persone che non ci piacciono, che ci danno sui nervi, le cui opinioni sono difficili da tollerare. Queste sono le persone con cui dobbiamo convivere su questa terra.

Vediamo le immagini delle persone che protestano con violenza in Inghilterra o che esultano ai comizi di Trump o che ridono con Milei, e proviamo un senso di ripugnanza: non potremmo nemmeno sederci nella stessa stanza con loro, tanto meno parlare con loro. Ma forse dobbiamo farlo. L’esclusione crea un loro escluso. Che ci escludano è chiaro, ma se partiamo dall’escluderli anche noi, non stiamo forse scadendo nella grammatica del valore declinata in terza persona?

La questione nasce concretamente in relazione all’idea di dittatura del proletariato. Pannekoek criticò la repressione dei “nemici della rivoluzione” da parte di Lenin, sostenendo che la dittatura del proletariato era una questione di organizzazione: organizzazione sulla base di consigli operai. I consigli operai avrebbero escluso automaticamente la borghesia. Non si trattava quindi di un’esclusione identitaria, ma di un cambiamento nella forma dell’organizzazione sociale. La soluzione di Lenin, a prescindere dal fatto se le persone represse fossero state veramente controrivoluzionarie o meno, non rompeva con la grammatica dello Stato, mentre quella di Pannekoek sì.

Esistono molte forme di organizzazione comunitaria. I consigli dei lavoratori non hanno più lo stesso rilievo pratico o teorico come nel secolo scorso. Eppure, l’esperienza del Rojava suggerisce che un’organizzazione comunitaria che prescinda dalla continua produzione di valore sul posto di lavoro rischia di incontrare dei problemi. Comunitarismo e valore sono grammatiche in conflitto. (Aslan 2023)

Parlare di una politica del Noi non significa in alcun modo rivendicare la purezza o la superiorità di un Noi. Si tratta piuttosto dell’organizzazione politica di un soggetto schizofrenico per superare una politica identitaria e in terza persona che genera ed è generata sia dallo Stato che dal fascismo.

Parlare di un Noi contro-e-oltre-identitario come di un soggetto, può sembrare l’abbandono dell’idea di lotta di classe o di analisi di classe, ma non è così. Il flusso del fare sociale passa attraverso combinazioni, coagulazioni, classificazioni, materialmente e concettualmente. Una coagulazione o classificazione fondamentale è la separazione molto reale tra coloro che, attraverso il capitale, comandano le attività degli altri e coloro che, per mancanza di accesso ai mezzi di produzione e di sopravvivenza, sono costretti a obbedire agli ordini di coloro che comandano.

La classe-ificazione è un involucro, una terza persona, un’identificazione. La lotta di classe è la lotta tra l’essere classe contro l’essere classificati. La lotta della classe operaia è la lotta di coloro che sono costretti a lavorare contro il lavoro e contro la classe. In quanto classe operaia siamo antilavoristi e anti-classisti. La lotta di classe è la lotta del Noi contro la nostra spersonificazione: in altre parole, la lotta per il riconoscimento reciproco, per la dignità. La lotta di classe non è una questione di chi-che (Lenin), ma un antagonismo tra i come, i come dell’organizzazione sociale. Il problema non è chi ha il potere (la classe capitalista), ma come è organizzata la società.

Questo approccio è anti-sociologico. La sociologia si basa sulle categorie di coagulazione delle relazioni sociali, ma c’è sempre un margine che non rientra nelle categorie di coagulazione, c’è sempre un flusso sociale che si spinge contro e oltre quelle coagulazioni. La sociologia vede il mondo che esiste, ma è cieca di fronte al flusso attuale del mondo che non esiste ancora. È necessariamente una visione identitaria del mondo in terza persona. Quando si sostiene che l’estrema destra è un movimento del sottoproletariato, ad esempio, non si vede che il movimento del capitale ci sta proletarizzando tutti, sottoponendoci a un nuovo livello di insicurezza sociale. Ecco perché ogni esplosione di rabbia sociale è in un certo senso nostra, anche se sta percorrendo la strada sbagliata. Il movimento del capitale, cioè il flusso delle relazioni sociali, è teoricamente precedente allo studio delle aggregazioni o dei coaguli attraverso cui passa.

Da parte nostra, la lotta di classe è una spinta contro e oltre. Spingiamo contro e oltre l’identitarismo, che si tratti dell’ordinario identitarismo Stato-denaro-valore o dell’identitarismo patologico fascista. Spingiamo verso un riconoscimento reciproco, l’Io-che-siamo-noi e il Noi-che-siamo-io che Hegel ha intravisto nella Rivoluzione francese.12 Spingiamo verso un dialogo basato sul riconoscimento attraverso l’organizzazione comunitaria. Il valore è la rottura del riconoscimento reciproco, l’istituzione di un riconoscimento basato sul lavoro astratto. Il valore impedisce un dialogo umano, necessario per la sopravvivenza della nostra specie.

7.3 La questione rimane: cosa significa sviluppare un approccio contro-e-oltre-identitario all’identitarismo estremo dell’estrema destra? La politica del Noi suggerita sopra non può basarsi sull’idea di un “noi-siamo-una-famiglia-felice” esistente. Deve essere una spinta verso un Noi che non è ancora compiuto.

Non ho una risposta chiara. Chiedendo camminiamo, Preguntando caminamos. Ma ci sono alcuni punti che mi sembrano importanti e che sono indicati nei paragrafi che seguono.

Il fascismo, il razzismo, la misoginia sono tutte forme estreme di identitarismo. L’identitarismo fa parte della grammatica del valore, della confluenza sociale a cui partecipiamo. Senza negare che facciamo parte di questa stessa grammatica e che siamo tutti razzisti e misogini, in misura diversa, a prescindere dal colore o dal genere, ci spingiamo contro e oltre, per romperla. Di questo ci sono molti esempi eccellenti e abbastanza comuni.

La lotta è contro il razzismo, il fascismo, il sessismo: non contro i razzisti, i fascisti, i sessisti. È importante riconoscere la nostra inevitabile schizofrenia. In questa società è impossibile essere non-razzisti, ma possiamo certamente (e dobbiamo) essere antirazzisti nel senso di lottare contro il nostro razzismo e quello degli altri. Semplificare l’inevitabile e onnipresente tensione tra identità e identità contro e oltre, in una relazione dualistica amico-nemico, è inutile e ipocrita.

Il riconoscimento del nostro carattere scisso suggerisce una modalità per rompere l’interpretazione spersonificante dell’estrema destra. L’argomentazione di Ernst Bloch, negli anni Trenta, secondo cui al centro del fascismo c’è una perversa promessa utopica13 è molto importante a tale riguardo. Tutti condividiamo una sorta di promessa utopica: è la perversione che è ripugnante. Così come il titolo di questo pezzo – Rebellion rushin’ down the wrong road (La ribellione corre lungo la strada sbagliata): la ribellione è nostra, è la strada sbagliata che rifiutiamo.

L’apertura di un approccio politico comunitario del Noi ci porta inevitabilmente a riconoscere ciò che abbiamo in comune, che ci piaccia o meno. Al livello più elementare, riconosciamo la nostra umanità. Così, ad esempio, se vediamo una dichiarazione come quella del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che ha dichiarato, “Stiamo combattendo degli animali umani e dobbiamo agire di conseguenza” (Bertov 2024) e reagiamo rispondendo che “no, qui l’animale umano sei tu” (e questa è certamente una tentazione), allora scadiamo esattamente nel fascismo a cui ci opponiamo. Se ci rifiutiamo di dare questa risposta, come dobbiamo fare, allora stiamo già accettando che c’è una certa comunanza tra di noi. Stiamo in effetti dicendo “per quanto ci addolori ammetterlo, anche tu, Gallant, sei umano”.

Dobbiamo andare oltre. Almeno per il momento, quando parliamo dell’ascesa dell’estrema destra, non parliamo di Hitler o di Gallant o delle guardie di Auschwitz o dei sostenitori disciplinati e militarizzati del nazismo degli anni Trenta, ma piuttosto dei sostenitori indisciplinati di Trump o di Milei o di Bolsonaro o di Orban o di Le Pen. Potremmo anche conoscere alcune di queste persone e probabilmente non avremmo difficoltà ad ammettere la loro umanità, il livello di base dell’essere Noi. E se ascoltiamo quello che dicono, siamo costretti a riconoscere altri punti che abbiamo in comune, o che perlomeno troviamo facili da capire.

La reazione più ovvia è la disillusione, la perdita di fiducia nei partiti politici esistenti. È impossibile comprendere l’ascesa di Milei in Argentina o di Bolsonaro in Brasile se non come risposta al fallimento dei governi di “sinistra” dei Kirchner o di Lula e Dilma nel realizzare il cambiamento sociale radicale che avevano promesso. È facile da capire, persino da condividere. Lo stesso vale per le loro proteste contro il crescente impoverimento, una caratteristica importante del sostegno sociale, soprattutto per i partiti di destra europei. Anche la critica al progresso capitalistico e al potere delle élite politiche e sociali e la nostalgia per le comunità, anche se immaginate, sono facili da comprendere. L’aspetto principale con cui è assolutamente impossibile empatizzare, ma facile da capire, è il razzismo, la misoginia e altri fenomeni di identitarismo estremo. Sono facili da capire perché non sono solo promossi dai politici mainstream, ma sono già insiti nell’esistenza stessa dello stato, come forma di confluenza sociale basata sul valore. Torniamo così alla necessaria rottura della grammatica della politica identitaria, alla necessaria creazione di una politica discorsiva e comunitaria basata su assemblee-consigli-comuni.

L’enorme risposta collettiva in Inghilterra alle rivolte anti-migranti va nella stessa direzione. Al di là di questo, ci deve essere un’apertura a una sorta di dialogo comunitario. Non si tratta di un dialogo facile, e probabilmente si tratta di un confronto con chi non vuole parteciparvi. Ma sono persone con cui dobbiamo vivere e dobbiamo stabilire una convivialità o una confluenza sociale che non passi solo attraverso lo scambio di merci o lo Stato.

È una follia? Forse, e forse è una follia necessaria. Dov’è questa anti-grammatica comunitaria? Dov’è questa digna rabia che è la nostra unica speranza? La digna rabia è intorno a noi, condizione latente ma necessaria della nostra convivialità.

8. I forconi si rivoltano?

È interessante notare come un editoriale del Financial Times scritto alla fine del 2020 mettesse in guardia: “Dopo la crisi finanziaria globale, questo senso di tradimento ha alimentato una reazione politica contro la globalizzazione e le istituzioni della democrazia liberale. Il populismo di destra può prosperare sfruttando questo fenomeno pur lasciando i mercati capitalistici al loro posto. Ma poiché non è in grado di mantenere le promesse fatte alle persone economicamente frustrate, è solo questione di tempo prima che i forconi si scaglino contro il capitalismo stesso e contro la ricchezza di coloro che ne beneficiano” (Financial Times, 30 dicembre 2020).

Il sostegno all’estrema destra ha una base materiale: la mancata realizzazione di promesse e aspettative economiche. Negli ultimi trent’anni, ovunque, la ricchezza dei ricchi è aumentata in modo impressionante, mentre quella dei poveri è rimasta più o meno costante. I governi di sinistra, dove ci sono stati, hanno cambiato poco o nulla in questo senso. I partiti di destra promettono di realizzare un cambiamento economico che andrà a vantaggio dei loro sostenitori. Come sottolinea Schmidt, “I nazisti promettevano tutto a tutti. Gli operai si aspettavano posti di lavoro e assegni generosi, i contadini speravano di ottenere buoni prezzi per i loro raccolti, i negozianti si preparavano a un aumento delle vendite e i capitalisti non vedevano l’ora di ripristinare i profitti distrutti dalla crisi” (Schmidt, 2020, 37). Oggi i partiti di estrema destra (e in realtà tutti i partiti politici) non sono molto diversi. È improbabile che, salendo al potere, riescano a realizzare il cambiamento radicale che promettono. Il tipo di espulsione dei migranti di cui parla Trump sarebbe un disastro economico per gli Stati Uniti. E probabilmente non esiste un grado di disciplina partitica o sociale che possa portare a un aumento significativo del tasso di sfruttamento, come nel caso dei nazisti. A meno di una guerra, è possibile che i governi di estrema destra, laddove vengano eletti, si limitino a ripetere il ciclo di speranze-promesse seguite da una rabbiosa disillusione.

E allora: è “solo una questione di tempo prima che vengano fuori i forconi per il capitalismo stesso e per la ricchezza di coloro che ne beneficiano”? Vuol dire che la ribellione si spingerà lungo la strada giusta, che la tempesta si abbatterà sull’albero giusto? Probabilmente il tasso di instabilità sociale della destra e della sinistra è molto più alto di quello degli anni Trenta. C’è un modo in cui le nostre rabbie possano unirsi? C’è un modo in cui la rabbia perversa, identitaria, razzista e statalista possa rompere le identità e avvicinarsi a quella rabbia dignitosa, la rabia digna, che è l’unica base della speranza rivoluzionaria? C’è un modo per spingere in questa direzione?

Forse. Non necessariamente. Ma forse. Preguntando caminamos.


Bibliografia
Abahlali baseMjondolo, “KwaZulu-Natal and Gauteng are burning, we need to build a just peace”, 13 luglio 2021. http://abahlali.org/node/17320/
Adorno, T.W. 1966/1990. Negative Dialectics, London: Routledge.
Aslan Azize 2023, Anticapitalist Economy in Rojava: The Contradictions of Revolution in the Kurdish Struggles, Wakefield: Daraja Press.
Bartov, Omer 2024. “As a former IDF soldier and historian of genocide, I was deeply disturbed by my recent visit to Israel”, The Guardian, 13 agosto
Bloch Ernst, 1959/ 1985. The Principle of Hope. 3 vol.Cambridge, Massachussetts: MIT Press Bloch, Ernst 1936/1991. Heritage of our Times. Cambridge: Polity Press.
Gandesha, Samir (ed.) (2020) Spectres of Fascism: Historical, Theoretical and International Perspectives, London, Pluto Press.
Gunn, Richard e Adrian Wilding. 2020. Revolutionary Recognition. London: Bloomsbury Press.
Marx, Karl. 1867/1990.Capital, vol. 1, tradotto da Ben Fowkes. London: Penguin.
Regalado Mujica, Rogelio (2024),Elementos hacía una Teoría Crítica del Fascismo en el Siglo XXI, tesi di dottorato, Benemérita Universidad Autónoma de Puebla.
Reitter, Karl (2025) “Elements of Marx’s Critique of the State”. Di prossima pubblicazione.
Schmidt, Ingo 2020. “The “Hope of the Hopeless”: Contemporary Lessons
from Marxist Struggles Against Hitler and Mussolini”, in Gandesha (2020), 27-43.
Sohn-Rethel, Alfred. 1978. Intellectual and Manual Labour. A Critique of Epistemology. London: Macmillan.
Toscano, Alberto (2017) “Notes on Late Fascism” Historical Materialism (blog), 2 aprile 2017, www.historicalmaterialism.org/blog/notes-late-fascism


Note
1 Il titolo viene da Five Nights of Bleeding di Linton Kwesi Johnson, che recita:
Notte numero quattro alla danza blues, ballo degli abusi
Due sale gremite e la pressione che sale
Caldo, teste calde
Rituale di sangue alla danza blues
Vetri rotti che si scheggiano, fuoco
Asce, lame, esplosioni di cervelli
Ribellione che corre lungo la strada sbagliata
Tempesta che si abbatte sull’albero sbagliato
E Leroy sanguina quasi a morte la quarta notte
della danza blues, una notte nera di ribellione, è
Guerra tra i ribelli
Follia, follia, Guerra
Si può ascoltare la canzone al seguente link https://www.youtube.com/watch?v=JF-nh2aL6rQ
2 Un enorme ringraziamento a tutti coloro che hanno commentato una versione precedente di questo articolo: Panagiotis Doulos, Edith González, Lars Stubbe, Milena Rodríguez, Marcel Stoetzler, Josep Rafanelli, Alejandro Merani, Ana Cecilia Dinerstein, Sergio Tischler, Inés Durán Matute, Adrian Wilding and Karla Sánchez.
3 Sohn-Rethel (1978, 5) parla di sintesi sociale, ma questo implica una chiusura eccessiva. Preferisco la coesione sociale o la confluenza sociale, perché presuppone un movimento costante.
4 Partiamo dal capitalismo, non dal neoliberismo. In Messico, dove il governo proclama costantemente la lotta contro il neoliberismo, parlare di neoliberismo è spesso un modo per dire “non c’è niente di male nel capitalismo, ma non deve essere portato all’estremo”. Max Horkeimer dice che “Se non si vuole parlare di capitalismo, allora è meglio tacere sul fascismo”. Lo stesso si può dire del neoliberismo.
5 La nozione stessa di critica ne è testimonianza. La critica implica necessariamente un’alterità. Il fatto che noi critichiamo significa che non siamo completamente sussunti nella relazione del valore: che non siamo solo nella relazione, ma anche contro e al di là di essa.
6 Sul dibattito sulla derivazione dello Stato, vedi Holloway e Picciotto (1978).
7 Ciò non significa negare che lo Stato stabilisca anche altre forme di classificazione e gerarchizzazione essenziali alla riproduzione del capitale, ma la dimensione più immediata della sua stessa esistenza è l’identificazione dei cittadini e degli stranieri.
8 La guerra può anche essere incentrata sulla competizione per la distribuzione del plusvalore sociale totale, ma l’uccisione di persone da parte di altre persone può essere spiegata solo attraverso un’alterazione disumanizzante di queste persone.
9 Scrivendo nell’agosto del 2024, spero vivamente che Trump non vinca le prossime elezioni negli Stati Uniti. Tuttavia, non è chiaro se causerebbe più morti nel mondo un governo Trump o uno guidato da Harris.
10 Dire “loro sono identitari, noi no” è autocontraddittorio, come il bugiardo cretese.
11 Non seguo qui i dettagli della sua argomentazione, ma la distinzione di Rogelio Regalado tra interpretazioni “exoteriche” ed “esoteriche” del fascismo è molto utile (2024). La linea seguita qui è chiaramente esoterica, ma, all’interno di questa, desidero distinguere tra approcci identitari e contro-e-oltre-identitari.
12 Sul tema, vedi Gunn e Wilding (2020).
13 Vedi Bloch (1936/1991); Toscano (2017).


Questo saggio è stato preparato per un seminario promosso a Vancouver in agosto. Traduzione di Virginia Benvenuti per Comune.

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