La società delle merci
è fatta di relazioni aggressive ma anche di rabbia contro l’aggressività
permanente. Da diversi anni, come dimostra ovunque l’ascesa della nuova destra,
gran parte di quella rabbia assume una forma spaventosa che nega il flusso
sociale dell’umanità. L’elemento chiave che porta a trasformare quella rabbia
in neofascismo è prima di tutto la paura, scrive John Holloway, una paura che
viene fomentata da agitatori ma che ha una base reale nell’insicurezza generata
dalle crisi capitalistica. In questo saggio straordinario e fuori dalla cultura
politica dominante, anche a sinistra, Holloway ragiona sul bisogno di non
ingabbiare la risposta all’ascesa della destra identificandosi in una
controparte, loro sono fascisti-combattere i fascisti (“la lotta è contro il
razzismo, il fascismo, il sessismo: non contro i razzisti, i fascisti, i
sessisti…”), sul bisogno di sviluppare in basso una politica del noi
comunitaria ma antidentitaria, sul bisogno di scavare in profondità oltre le risposte
elettorali, perfino sul bisogno di intrecciare la rabbia popolare perversa,
quella identitaria, razzista, sessista e statalista con la rabbia dignitosa,
la rabia digna, per
dirla con le comunità zapatiste. “C’è un modo per spingere in questa direzione?
Forse. Non necessariamente. Ma forse. Preguntando caminamos…”
“La ribellione corre lungo la strada sbagliata
La tempesta si abbatte sull’albero sbagliato”
[Linton Kwesi Johnson]1
[John Holloway2]
1. Il tema è la rabbia: resistenza, ricchezza, ribellione, tempesta
La rabbia, un sentimento sociale che può fluire in direzioni diverse e
imprevedibili: questo è il punto di partenza per pensare all’ascesa della Nuova
Destra.
Dopo i disordini razziali del luglio 2021 in Sudafrica, Abahlali
baseMjondolo, un gruppo di abitanti delle baracche, dichiarò: “Abahlali
baseMjondolo ha sempre avvertito che la rabbia dei poveri può andare in molte
direzioni. Abbiamo avvertito più volte che siamo seduti su una bomba a
orologeria”. Come nella canzone di Linton Kwesi Johnson, la rabbia corre lungo
la strada sbagliata, con conseguenze disastrose.
2. Rabbia-resistenza-ricchezza sono insite nel valore. Esistono contro e al
di là della forma del valore
Perché sei così arrabbiata? – disse il ragno alla mosca – Rilassati e
lascia che ti mangi.
Non siamo fuori dal flusso sociale della rabbia, ne facciamo parte. Non è
qualcosa che scegliamo. Viviamo in una totalità di relazioni aggressive e
rabbiose.
Qualsiasi società è caratterizzata da modelli di coesione o confluenza
sociale, ovvero dai modi in cui le azioni delle persone si uniscono.3 Nella società capitalista 4, questa confluenza sociale è
plasmata dal fatto che le nostre creazioni sono messe in relazione
prevalentemente attraverso lo scambio dei nostri prodotti come merci. Ciò
impone alla società una certa regolarità o legalità, analizzata dagli
economisti politici e criticata da Marx. Merce, valore, lavoro astratto,
denaro, capitale, Stato sono categorie chiave per comprendere le regole o la
struttura o la dinamica del flusso della confluenza sociale capitalista.
Questa confluenza sociale, che per brevità possiamo chiamare valore, è
aggressiva. Il fulcro di questa aggressione è che spinge l’attività della
nostra vita verso un lavoro astratto. Se ci si rifiuta, si muore di fame.
L’aggressione si estende a ogni aspetto dell’esistenza umana. La confluenza
sociale (valore) incanala la nostra creatività in modi che non controlliamo:
siamo costretti ad andare in una certa direzione, proprio come un fiume che
viene murato in un canale o in un tubo. La direzione non è determinata da noi,
ma dalla ricerca del profitto. Questa canalizzazione o imbrigliamento
dell’attività umana si è dimostrata estremamente efficace nel produrre una
certa forma di ricchezza, ma anche estremamente distruttiva per le vite umane e
per quelle non umane, e ora ci minaccia di estinzione dell’umanità.
L’aggressione che è valore genera resistenza5. È un aspetto inevitabile e
inseparabile dell’aggressione. La resistenza è insita nell’aggressione. Non è
necessariamente evidente. Può darsi che le pareti di un canale siano
l’espressione più visibile della resistenza dell’acqua che viene incanalata, o
che l’esistenza stessa delle briglie sia la prova più evidente della resistenza
di un cavallo che viene costretto ad andare in una direzione. Può darsi che
l’esistenza di capisquadra e telecamere e dipartimenti di relazioni umane e la
polizia e il sistema educativo e gli ospedali psichiatrici siano tutte prove
più evidenti della costante resistenza umana alla regola del valore. Ma la
resistenza non è visibile solo in questi specchi istituzionali. È anche
visibile direttamente nella rabbia, nella contro-aggressione inconsulta, nelle
lamentele, nel rifiuto di obbedire, negli scioperi, nella miriade di tentativi
di evitare la disciplina del lavoro astratto e di creare altri modi di vivere,
nelle ribellioni. La società capitalista si basa su una rabbia strutturale.
Queste rabbie, resistenze e rifiuti non sono semplicemente negativi: spesso
mettono a confronto il valore-ricchezza misurato in denaro con una diversa
ricchezza a cui attribuiamo un altro tipo di valore: la ricchezza della
convivialità creativa, la ricchezza del riconoscimento reciproco, la memoria
del potenziale non realizzato. Spesso questa rabbia-resistenza-ricchezza spinge
contro e oltre il valore, verso un altro tipo di confluenza sociale, verso un
mondo in comune: è ciò che gli zapatisti chiamano digna rabia, una
rabbia dignitosa o giusta.
La confluenza sociale della società attuale è antagonistica: il lavoro
astratto contro il fare, il denaro contro la vita, il capitale contro
l’umanità, la merce contro la condivisione, il valore contro il valore d’uso.
In ciascun caso, la categoria dominante ha una sua chiarezza, quella
subordinata ha una problematica difficoltà inseparabile dal suo status di
subordinazione. Ciò che conta per il momento è comprendere il valore come
un’aggressione, un processo di lotta che genera rabbia-resistenza-ricchezza.
L’importante è dire chiaramente che in questo antagonismo ci schieriamo dalla
parte della rabbia-resistenza-ricchezza. Il futuro del mondo dipende dalla
forza della nostra digna rabia.
3. Valore-rabbia-resistenza-ricchezza fluiscono attraverso la negazione del
loro scorrere
3.1 Le relazioni sociali sono fluide. Devono esserlo, semplicemente perché
sono relazioni tra persone che vivono, muoiono, fanno, si muovono, creano,
amano, odiano. Il fatto che questo flusso segua (e resista) a certi schemi di
confluenza, non cambia che le relazioni sociali siano in costante movimento. Il
movimento è il movimento del nostro fare, del nostro creare, sia che ciò che
creiamo sia uno spaghetto al ragù o un’automobile o uno smartphone o un
giardino o anche un articolo scritto per una conferenza a Vancouver. Si tratta
di un flusso sociale di ricchezza che non esiste mai al di fuori del modello
stabilito di confluenza sociale (valore), ma esiste sempre contro e oltre esso.
Marx ha dato a questo flusso sociale l’infelice nome di “forze di produzione”,
ma l’idea è chiara: la spinta della creatività umana o della ricchezza contro e
oltre la confluenza sociale esistente (“rapporti di produzione”).
3.2 Una caratteristica distintiva del capitalismo, tuttavia, è che le
attività o le relazioni sociali fluiscono attraverso forme che negano il
fluire. In una società produttrice di merci, le relazioni tra le persone si
stabiliscono attraverso lo scambio di cose e ciò porta alla cosificazione o
reificazione di queste relazioni. Questo è uno (il) tema centrale del Capitale di
Marx. Il modello di confluenza sociale attraverso cui si muovono le nostre
attività non è trasparente. La confluenza si muove attraverso la propria
negazione, la propria reificazione.
La reificazione ha un effetto enorme sul nostro modo di vivere e di pensare
le nostre vite. Impone una grammatica reale e concettuale alle nostre relazioni
con le persone. Si tratta di una grammatica caratterizzata dalla subordinazione
dei verbi ai nomi, della vita umana all’assenza di vita degli oggetti. Viviamo
circondati da cose, viviamo vite modellate da cose: il denaro, lo stato, il mio
computer, la mia scrivania. Le cose nascondono la cosificazione delle azioni
sociali che le hanno create e delle connessioni sociali che le hanno portate
nella mia vita. Il mio computer è stato progettato e realizzato da persone (non
ho idea di chi o dove) ed è passato attraverso una serie di attività umane
prima di approdare sulla mia scrivania, anch’essa prodotto di attività umane.
Allo stesso modo, il denaro è una creazione sociale in costante movimento, un
modo particolare di relazionarsi gli uni con gli altri che modella
profondamente il nostro modo di vivere.
La grammatica della reificazione nega il flusso del fare sociale. Rifrange
il flusso attraverso forme che lo negano. Elimina i momenti di interazione
sociale dal flusso globale e li congela in cristalli separati. Il denaro, visto
come una cosa, viene astratto dal flusso dell’interazione sociale che lo ha
costituito come relazione sociale e trattato come un oggetto: la reificazione
subordina il soggetto all’oggetto, lo priva della sua soggettività.
L’identificazione, individuale o collettiva che sia, è un aspetto della
reificazione. Io, in quanto persona, sono analogamente astratto da tutte le
attività sociali indefinite che mi hanno costituito e continuano a costituirmi,
e sono trattato come un individuo, un individuo che può essere nominato ed
etichettato, etichettato in modi che astraggono dalla miriade di interazioni
che mi costituiscono o che semplicemente si concentrano astrattamente su una o
poche di queste interazioni: sono un professore, bianco, maschio, irlandese,
messicano, migrante. L’astrazione dal flusso sociale del fare si manifesta come
identificazione, costituzione di identità, tutte suscettibili di ammirazione o
squalifica: odio/amo i professori, i maschi bianchi, gli immigrati, ecc. Dire
che una persona è una combinazione di identità diverse non cambia nulla: è solo
un accumulare un’astrazione sull’altra. L’identificazione è separazione.
Essendo astratto dal flusso sociale, sono separato da altri che sono similmente
separati. Gli altri non sono me: sono “alterizzati” o spersonalizzati,
diventano un “loro”. L’identificazione è parte della grammatica della
reificazione, della totalità dell’organizzazione materiale e concettuale che
scaturisce dalla predominanza del valore, dalla predominanza dello scambio di
merci nelle relazioni umane.
Reificazione, cosificazione, feticizzazione, alienazione, oggettivazione,
identificazione, etichettatura, istituzionalizzazione, frammentazione,
individualizzazione sono insite nel valore, la forma dominante di coesione o
confluenza sociale. Sono aspetti della coagulazione del flusso del vivere umano
in forme particolari: forme che negano la loro specificità storica e si
astraggono dal flusso sociale di cui sono inevitabilmente parte. La
reificazione è un processo di formazione e produzione di forme che proclamano
la loro indipendenza da ciò che le ha costituite e continua a costituirle, che
proclamano l’autonomia della loro esistenza dalla loro costituzione. Criticare
significa muoversi nella direzione opposta, svelare questa reale apparenza di
autonomia e rivelare (per superarla) la genesi storica e continua di queste
forme. Il capitalismo è una concatenazione di forme sociali. Migrante,
messicano, professore, sono forme sociali non meno del valore o dello Stato:
categorie che non vanno mai prese così come si presentano, ma sempre criticate.
Criticare non significa negare l’esistenza delle forme criticate. Criticare
fa parte della lotta per il superamento delle forme feticizzate, ma non lo
raggiunge da solo. C’è una vera e propria coagulazione o coagulo delle
relazioni sociali. La separazione dell’esistenza dalla sua costituzione non è
una mera apparenza, ma un’apparenza reale. L’astrazione delle forme (migrante,
messicano, ecc.) dal flusso sociale del fare è un’astrazione reale con quegli
effetti terribili di cui siamo attualmente testimoni. La sociologia e altre
“discipline” si basano sull’esistenza reale (ma superficiale) di queste
relazioni sociali coagulate e contribuiscono certamente alla loro solidità,
cioè alla loro dinamica di morte. Lo stesso vale per le interpretazioni
sociologiche del marxismo e per le standpoint theory, nella misura
in cui isolano un particolare punto di vista dal flusso generale
dell’antagonismo sociale che costituisce il punto di vista stesso. Criticare
significa ricollocare le forme feticizzate nel flusso sociale che esse negano:
per criticare il tavolo mostriamo come esso sia il prodotto di un’attività
storicamente e socialmente situata. Per criticare il denaro, mostriamo che ha
la sua genesi in una determinata organizzazione sociale dell’attività
storicamente collocata.
3.3 Lo Stato è una forma di reificazione o identificazione particolarmente
significativa. La sua stessa esistenza come forma di relazioni sociali
particolarizzate o astratte dalla totalità del flusso sociale, è espressione
della reificazione generale delle relazioni sociali nel capitalismo.6 Lo Stato non è quindi
l’origine dell’identificazione, ma la sua esistenza come forma di organizzazione
sociale è il costante rafforzamento dell’identificazione. Lo Stato ci definisce
come cittadini (o sudditi) o stranieri. Questo è un aspetto della sua esistenza
come forma di relazione sociale, non una questione di politica o di funzione.
Vivere all’interno di uno Stato significa sottoporsi a un processo di
indottrinamento costantemente ripetuto che ci identifica come cittadini di
quello Stato: il successo di questo indottrinamento è probabilmente una
precondizione per la riproduzione dello Stato. Attraverso la costante enfasi
sull’identità nazionale e la violenza dei confini, lo Stato è in effetti una
scuola di fascismo. Gli stati organizzano periodicamente l’assassinio su larga
scala di “stranieri” per il solo fatto che sono stranieri.7 La chiamano “guerra”. O, più
precisamente, immersi nella terzietà generata dallo scambio di merci e
costantemente rafforzata dallo Stato, milioni di persone uccidono milioni di
altre persone solo perché sono straniere.8 Questa semplice
identificazione ha portato nell’ultimo secolo all’uccisione di innumerevoli
milioni di persone. Questa identificazione e disumanizzazione di Stato è
inseparabile dall’attuale ascesa dell’estrema destra. Gli stati più ricchi e
civilizzati del Nord, in particolare, hanno una lunga storia di
imperial-fascismo brutale e razzista inscritta nella loro cultura. C’è poca
differenza tra le “democrazie liberali” e gli stati più autoritari in questa
identificazione.9 Il genocidio di Gaza,
attivamente o passivamente supportato da quasi tutti gli stati, ha svelato la
realtà della statualità.
3.4 Il flusso sociale si muove attraverso forme reificate che negano la
loro esistenza come forme del flusso sociale, ma continua comunque a scorrere.
La reificazione non è mera apparenza, è apparenza reale, ma, come il valore, è
un processo, un processo antagonistico di reificazione. È la stessa dinamica
costante di imporre o cercare di imporre una certa regolarità o legalità
(contenente gli obblighi di legge) all’interazione umana. È un’aggressione: la
reificazione è un’aggressione, l’identificazione è un’aggressione, è la
restrizione delle nostre attività e dei nostri pensieri entro certi parametri,
con conseguenze estremamente violente.
Come per il valore, c’è un processo costante di resistenza, una resistenza
che abbraccia rabbia-memoria-ricchezza. Dignità. Dignità: il concetto portato
alla ribalta in modo così bello dagli zapatisti. Sì, siamo indigeni, pieni
della rabbia dei nostri antenati, pieni della memoria di secoli di lotta, pieni
della ricchezza delle nostre tradizioni, siamo esseri umani oppressi che
rompono qualsiasi etichetta identitaria ci venga attribuita e lottano per il
futuro dell’umanità. Una resistenza che si muove nella rabbia-memoria-resistenza
contro e oltre l’identità. La speranza è un movimento contro e oltre.
L’identificazione si confronta costantemente con un movimento contrario.
Questo movimento viene spesso definito (da me e da altri) come movimento
anti-identitario, ma ciò è fuorviante. Non si tratta di negare l’esistenza
delle identità o di altri feticci: si tratta di apparenze reali, non di mere
apparenze. È la sottrazione del flusso sociale dallo scambio di merci e dalle
sue forme. Siamo realmente identificati, abbiamo un’identità che nega il flusso
sociale, ma spingiamo contro-e-oltre questa identificazione verso una sorta di
comunanza con gli altri, verso un riconoscimento della comunità condivisa.
L’identificazione si confronta allora con l’identità contro e oltre, con la
dignità, con la digna rabia, con la spinta verso il riconoscimento
reciproco, con il non-ancora che già esiste, con la
defeticizzazione-comunicazione che nasce da e contro l’esperienza
dell’oppressione.
3.5 Il fatto che l’identificazione/feticizzazione/alienazione rappresenti
un processo, significa che siamo tutti schizofrenici nel senso popolare di
esser divisi contro noi stessi: non perché abbiamo una molteplicità di
identità, ma perché siamo lacerati dal conflitto tra identificazione e
superamento dell’identità, tra feticizzazione e defeticizzazione. Non esiste un
soggetto non identitario puro, così come non esiste un soggetto non razzista o
non nazionalista puro, o un soggetto rivoluzionario puro. La contraddizione è
insita nella nostra esistenza.10 È importante riconoscerlo
perché il fascismo rappresenta proprio la negazione di questa contraddizione,
il perseguimento di una identità pura.
Come per gli individui, tutti i movimenti sociali sono attraversati da una
tensione tra identitarismo e anti-identitarismo (che è quello che io chiamo
identità contro e oltre). Gli zapatisti sono stati straordinariamente bravi nel
non limitare a presentarsi con movimento indigeno, ma forse non si può dire
altrettanto per tutti i movimenti di solidarietà agli zapatisti. Anche il
movimento curdo è stato consapevolmente anti-identitario, ma al suo interno vi
sono significativi filoni identitari. La stessa tensione esiste ed è di enorme
importanza nei movimenti femministi, neri, trans e in tutti i movimenti di
protesta. Il rifiuto della potente deriva identitaria che inevitabilmente
emerge da una società basata sullo scambio di merci, è cruciale per il futuro
dell’umanità. La grammatica dell’identità è la grammatica del valore, la
grammatica della distruzione. La grammatica dell’emancipazione si muove contro
e oltre l’identità.
4. L’antagonismo del flusso sociale si intensifica
La misurazione della grandezza del valore della merce in base al tempo
socialmente necessario per la sua produzione e i suoi sviluppi, la crescente
composizione organica del capitale e la tendenza alla diminuzione del tasso di
profitto indicano che l’antagonismo insito nella produzione di valore subisce
un costante processo di intensificazione. Per sopravvivere, il capitale deve
fregarci sempre di più: per mantenere il suo tasso di profitto, deve aumentare
costantemente il tasso di sfruttamento in modo da contrastare il suo crescente
investimento in macchinari e materie prime.
Non si tratta di un processo automatico. Il lavoro astratto, il lavoro che
produce valore, è il risultato di un lungo processo storico di disciplinamento,
che comporta violenza, omicidi, guerre, la costante ristrutturazione
dell’istruzione per formare persone in grado di produrre valore o di accettare
la propria condizione di eccedenza con tutta la povertà e la miseria che ciò
comporta, la ridefinizione della genitorialità per concentrarsi sulla
competitività dei bambini, la ridefinizione dell’infanzia e così via.
Tuttavia, anche con questo enorme sforzo per aumentare la produzione di
plusvalore, la velocità con cui aumenta l’esigenza del capitale è tale che si
arriva periodicamente a un punto in cui l’aumento del tasso di sfruttamento
(tasso di plusvalore) non è sufficiente a contrastare l’aumento degli
investimenti in macchinari (l’aumento della composizione organica del
capitale). Questo è il nocciolo della crisi capitalistica: la produzione di
plusvalore non è sufficiente a mantenere i profitti capitalistici. Se tutto va
bene per il capitale, come è accaduto finora, la crisi si risolve attraverso
una ristrutturazione del capitale: un aumento della produzione di plusvalore,
l’eliminazione dei capitali meno redditizi e la riorganizzazione del rapporto
tra capitale costante e variabile. Nell’ultima grande crisi del capitale, negli
anni Trenta, il capitale è riuscito a ristrutturarsi e ha creato le basi per la
prolungata “epoca d’oro” dell’accumulazione postbellica. Questa
ristrutturazione è stata ottenuta attraverso il fascismo, la guerra e
l’uccisione di circa settanta milioni di persone. Può darsi che anche l’attuale
crisi (manifestatasi brutalmente nel 2008) porterà a una risoluzione simile (su
scala molto più ampia), ma per il momento tale risoluzione viene rimandata
attraverso l’espansione a lungo termine del debito. Il capitalismo oggi
funziona sempre più (e nonostante l’inasprimento della politica monetaria dal
2022) sulla base di un capitale fittizio, cioè sulla base di un plusvalore non
ancora prodotto. L’espansione del debito converte la crisi dallo shock a breve
termine tipico dell’epoca di Marx in una crisi prolungata, gestita e
normalizzata. Sembra essere una “crisi permanente” come quella analizzata da
Mattick negli anni ’30, ma allora Mattick era troppo ottimista. La base
fittizia del capitalismo contemporaneo è la conversione di gran parte del
capitale dalla forma produttiva a quella monetaria, ovvero l’ascesa del
capitale finanziario, una forma di capitale apparentemente autonoma dal processo
di produzione del plusvalore, ma questa autonomia è pura finzione.
La crisi è un’intensificazione dell’antagonismo sociale. Il capitale, a
causa dell’inasprimento della competizione per ottenere una quota della massa
relativamente ridotta di plusvalore sociale, è costretto a diventare più
aggressivo. Coloro che sono costretti a lavorare o a cercare l’opportunità di
lavorare, soffrono di un aumento dello sfruttamento, dello stress e della
miseria sociale di ogni tipo. La rabbia cresce.
5. La nostra rabbia
La regola del valore si basa su una rabbia strutturale. La crisi è
l’intensificazione dell’antagonismo sociale, della rabbia sociale. Rabbia
contro la disuguaglianza, la discriminazione, la violenza, l’insicurezza, lo
sfruttamento, la distruzione del mondo che ci circonda. Rabbia contro le
conseguenze del dominio del valore, del denaro, del capitale.
Questa è la nostra rabbia. Nella crisi vediamo la
brutalità e la fragilità del capitalismo. La crisi è inseparabile dalla
speranza. La speranza di poter creare un mondo diverso è radicata nella
fragilità del mondo esistente. Ora è il momento della rabbia, ora è il momento
di sollevarsi, ora è il momento di abbattere il sistema, ora è il momento della
liberazione. ¡Ya basta! Basta! Negli ultimi anni ci sono state numerose
sollevazioni sociali che hanno aperto il mondo, almeno per un momento: per
esempio, l’intera ondata di occupazioni e lotte in tutto il mondo nel 2011, le
esplosioni sociali in Cile e in Colombia.
Eppure, gran parte della rabbia che nasce dalla crisi del capitale
(emblematicamente, dalla crisi finanziaria del 2007/2008) ha assunto una forma
molto diversa e spaventosa.
6. La nostra rabbia è identificata. E non
Enough is enough! è stato lo slogan scandito dalle folle di estrema destra che in agosto
(in Inghilterra, ndr) hanno attaccato moschee e centri in cui sono ospitati i
richiedenti asilo.
Enough is enough! È il nostro slogan. ¡Ya basta! Un messaggio di
speranza, il rifiuto dell’oppressione, l’apertura verso un mondo di reciproco
riconoscimento. Ma nello slogan dell’estrema destra, non c’era alcun reciproco
riconoscimento. È stato un attacco verso i diversi, gli altri, i
migranti, i musulmani, gli arabi. C’è la rabbia, ma il flusso sociale
dell’umanità viene negato. Le persone sono alterizzate,
identificate ed etichettate, cosificate. E quando le persone vengono
cosificate, possono essere attaccate e persino uccise: uccidere le donne, i
migranti, i gay, le trans, gli ebrei, gli arabi. Non perché le disprezziamo sul
piano personale, ma è l’esatto contrario: è per via dell’astratta
categorizzazione che imponiamo loro.
La nostra rabbia contro il capitalismo è stata deformata in qualcos’altro,
in una rabbia che rafforza l’oppressione in modi terribili. Il nucleo di questa
distorsione è l’identitarismo: l’etichettatura, l’alterizzazione e la
conseguente disumanizzazione dell’altro. Ogni forma di rabbia sociale è di per
sé contraddittoria, lacerata dalla tensione tra l’identificazione e la spinta
contro e oltre l’identificazione, ma negli ultimi anni è l’identitarismo che
sta crescendo in forza. Si è passati dal “odiamo il sistema capitalista”,
evidente nelle proteste del 2011, al “odiamo i migranti – e le donne, gli
arabi, gli ebrei, i gay, i trans, i neri”.
6.2 La risposta più semplice all’ascesa della destra è quella di
identificarsi in una controparte. Loro sono fascisti. Combattere i fascisti.
Persino uccidere i fascisti. Vediamo le immagini delle rivolte ed è difficile
non identificare i partecipanti: queste persone non sono come noi, sono
fascisti.
Ci sono elementi di identificazione nelle spiegazioni funzionaliste del
neofascismo, come in quelle che vedono l’ascesa della destra come ciò di cui il
capitale ha bisogno al momento, o quelle che si concentrano semplicemente sui
leader, su persone come Trump o Milei o Bolsonaro. C’è il rischio di trattare
le persone che seguono questi leader solo come masse, come oggetti di propaganda,
piuttosto che come soggetti con idee proprie. L’ossessione della destra per i
leader si riproduce spesso nelle stesse critiche.11
È difficile non farsi trascinare dalla grammatica dell’identificazione, la
grammatica del valore, del fascismo. Il fascismo è un’espressione estrema di
alterità, di identificazione. Noi alterizziamo le persone fino a
disumanizzarle. E da lì all’attacco alle moschee, ai pogrom, ai campi di
concentramento e alle camere a gas, è solo un passo. O, in altre parole,
“Auschwitz ha confermato il sillogismo della pura identità come morte”. (Adorno
1966/1990, 362).
6.3 Per contrastare il neofascismo, abbiamo bisogno di una comprensione
contro-e-oltre-identitaria dell’ascesa dell’identitarismo estremo,
dell’identificazione estrema della (nostra) rabbia sociale.
Cos’è allora che porta l’identificazione a diventare tossica, patologica,
omicida?
L’elemento chiave sembra essere la paura, una paura che viene fomentata da
agitatori e politici ma che ha una base reale nell’insicurezza generata dalle
crisi capitalistica. La crisi viene vissuta come un momento di crescente insicurezza
o ansia: crescente disoccupazione, crollo delle imprese, diminuzione del tenore
di vita, tagli a qualsiasi sistema di welfare o di sostegno sociale, aumento
della popolazione mondiale in eccesso rispetto alle esigenze del capitale. A
ciò si aggiunge la caratteristica specifica di questa crisi, la gestione e la
normalizzazione della crisi attraverso l’espansione del debito. L’indebitamento
di gran parte della popolazione, che non ha riscontro nelle precedenti crisi
del capitalismo, impone un conformismo sociale (se scioperiamo, come facciamo a
pagare il mutuo o la macchina alla fine del mese?) ma anche un senso di
insicurezza fortemente individualizzato. Il debito contiene e distorce il
malcontento sociale.
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È sorprendente che Bloch, scrivendo poco dopo la caduta del nazismo, apra
il suo Il principio della speranza con un contrasto tra la
grammatica della paura e la grammatica della speranza:
“Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Che cosa stiamo
aspettando? Cosa ci aspetta? / Molti si sentono solo confusi. La terra trema,
non sanno perché e per cosa. Il loro è uno stato di ansietà; se diventa più
definito, allora è paura. / Una volta un uomo ha viaggiato in lungo e in largo
per imparare la paura. Nel tempo appena trascorso, è divenuta più facile e più
vicina, l’arte è stata padroneggiata in modo terribile. Ma ora che i creatori
della paura sono stati affrontati, è arrivato un sentimento più adatto a noi. /
Si tratta di imparare la speranza”.
Per Bloch, l’antifascismo è una critica alla paura, un’apertura alla
speranza. È una questione di grammatica, di come vediamo e pensiamo il mondo. È
un’apertura alla Speranza, “Pensare significa avventurarsi oltre”. La paura è
un pensiero di recinzione, di definizione. La paura è una politica di muri
alti, sia letteralmente che concettualmente.
Il feticismo o l’identitarismo forniscono una risposta all’insicurezza.
Fornisce qualcosa che sembra essere fisso e stabile, qualcosa a cui aggrapparsi
in un momento di inquietudine. Il flusso sociale del fare è complesso e in
continua evoluzione. Il feticismo fornisce una falsa sicurezza, un’astrazione
dal flusso sociale, una coagulazione a cui ci si può riferire troppo
facilmente. Lui è un arabo, lei è un’ebrea, lui è un bianco. Il movimento del
divenire viene negato, così come l’intero processo sociale di costituzione e
ricostituzione di un arabo, di un ebreo, di un bianco o persino di un tavolo,
del Messico, degli Stati Uniti, del Canada. Il Canada, ad esempio, è un
feticcio, una coagulazione instabile del flusso di interazioni sociali, tanto
quanto l’ebreo, l’arabo, la donna: tutte astrazioni che si proclamano assolute
e indiscutibili, separate dal flusso dell’attività sociale. Sono tutte
semplificazioni ingannevoli che ci forniscono un quadro apparentemente sicuro
per vivere giorno per giorno. Identificazioni o coagulazioni semplificanti che,
di fronte alla paura, possono facilmente trasformarsi da un’affermazione come
“mangia cibo piccante perché è messicano” a “odiamo i messicani perché ci
tolgono il lavoro”. La forma valore genera insicurezza e identificazione, e
l’identificazione genera discriminazione e anche peggio.
L’insicurezza può facilmente trasformarsi in un rimbalzo infinito, definito
da Haiven “revanscismo preventivo”: odiamo e temiamo i neri perché sappiamo che
ci odiano perché li abbiamo schiavizzati in passato; quindi, dobbiamo colpire
per primi prima che ci attacchino. In un recente articolo (The Guardian, 13
agosto 2024) Omer Bartov commenta gli attuali atteggiamenti riscontrati in
Israele: “Dopo quello che abbiamo fatto a loro, possiamo solo immaginare cosa ci
farebbero se non li distruggessimo. Semplicemente non abbiamo scelta”.
7. La nostra rabbia: verso una politica del Noi
7.1 La sfida è sviluppare un approccio contro-e-oltre-identitario
all’ascesa dell’identitarismo estremo.
Una risposta incentrata sullo Stato è problematica, semplicemente perché lo
Stato è, nel migliore dei casi, un’espressione solo meno estrema dello stesso
processo di identificazione. Le lotte simmetriche sono autolesioniste: partito
contro partito, Stato contro Stato, identità contro identità. Anche se
“vittoriose”, finiscono per riprodurre ciò a cui si opponevano inizialmente. Il
sionismo israeliano ne è l’esempio più ovvio.
7.2 La nostra rabbia: partiamo dalla prima persona plurale, non dalla
terza. Proviamo rabbia contro un sistema che ci sta distruggendo. Questa è la
nostra rabbia che è stata identificata, spersonalizzata e ci è stata portata
via. La nostra rabbia è una rabbia resistenza-ricchezza-memoria.
Una politica identitaria è una politica spersonalizzante, alterizzante,
incarnata soprattutto dallo Stato come forma organizzativa e portata alle
estreme conseguenze dal fascismo. Una politica contro-e-oltre-identitaria è il
tentativo di costruire una politica in prima persona plurale, una politica del
Noi basata sul riconoscimento reciproco della comunanza. Questa politica
contro-e-oltre-identitaria, in prima persona plurale, ha una lunga tradizione
nella storia della lotta anticapitalista. È la tradizione dell’assemblea, il
consiglio, la comune, il soviet, la forma organizzativa di base del movimento
zapatista, del movimento curdo e di molti altri movimenti in tutto il mondo. Si
tratta di un processo necessario ma difficile, che implica una capacità di
dialogo non solo con i nostri amici, ma anche con persone che non ci piacciono,
che ci danno sui nervi, le cui opinioni sono difficili da tollerare. Queste
sono le persone con cui dobbiamo convivere su questa terra.
Vediamo le immagini delle persone che protestano con violenza in
Inghilterra o che esultano ai comizi di Trump o che ridono con Milei, e
proviamo un senso di ripugnanza: non potremmo nemmeno sederci nella stessa
stanza con loro, tanto meno parlare con loro. Ma forse dobbiamo
farlo. L’esclusione crea un loro escluso. Che ci escludano è
chiaro, ma se partiamo dall’escluderli anche noi, non stiamo forse scadendo
nella grammatica del valore declinata in terza persona?
La questione nasce concretamente in relazione all’idea di dittatura del
proletariato. Pannekoek criticò la repressione dei “nemici della rivoluzione”
da parte di Lenin, sostenendo che la dittatura del proletariato era una
questione di organizzazione: organizzazione sulla base di consigli operai. I
consigli operai avrebbero escluso automaticamente la borghesia. Non si trattava
quindi di un’esclusione identitaria, ma di un cambiamento nella forma
dell’organizzazione sociale. La soluzione di Lenin, a prescindere dal fatto se
le persone represse fossero state veramente controrivoluzionarie o meno, non
rompeva con la grammatica dello Stato, mentre quella di Pannekoek sì.
Esistono molte forme di organizzazione comunitaria. I consigli dei
lavoratori non hanno più lo stesso rilievo pratico o teorico come nel secolo
scorso. Eppure, l’esperienza del Rojava suggerisce che un’organizzazione
comunitaria che prescinda dalla continua produzione di valore sul posto di
lavoro rischia di incontrare dei problemi. Comunitarismo e valore sono
grammatiche in conflitto. (Aslan 2023)
Parlare di una politica del Noi non significa in alcun modo rivendicare la
purezza o la superiorità di un Noi. Si tratta piuttosto dell’organizzazione
politica di un soggetto schizofrenico per superare una politica identitaria e
in terza persona che genera ed è generata sia dallo Stato che dal fascismo.
Parlare di un Noi contro-e-oltre-identitario come di un soggetto, può
sembrare l’abbandono dell’idea di lotta di classe o di analisi di classe, ma
non è così. Il flusso del fare sociale passa attraverso combinazioni,
coagulazioni, classificazioni, materialmente e concettualmente. Una
coagulazione o classificazione fondamentale è la separazione molto reale tra
coloro che, attraverso il capitale, comandano le attività degli altri e coloro
che, per mancanza di accesso ai mezzi di produzione e di sopravvivenza, sono
costretti a obbedire agli ordini di coloro che comandano.
La classe-ificazione è un involucro, una terza persona, un’identificazione.
La lotta di classe è la lotta tra l’essere classe contro l’essere classificati.
La lotta della classe operaia è la lotta di coloro che sono costretti a
lavorare contro il lavoro e contro la classe. In quanto classe operaia siamo
antilavoristi e anti-classisti. La lotta di classe è la lotta del Noi contro la
nostra spersonificazione: in altre parole, la lotta per il riconoscimento
reciproco, per la dignità. La lotta di classe non è una questione di chi-che
(Lenin), ma un antagonismo tra i come, i come dell’organizzazione
sociale. Il problema non è chi ha il potere (la classe capitalista), ma come è
organizzata la società.
Questo approccio è anti-sociologico. La sociologia si basa sulle categorie
di coagulazione delle relazioni sociali, ma c’è sempre un margine che non
rientra nelle categorie di coagulazione, c’è sempre un flusso sociale che si
spinge contro e oltre quelle coagulazioni. La sociologia vede il mondo che
esiste, ma è cieca di fronte al flusso attuale del mondo che non esiste ancora.
È necessariamente una visione identitaria del mondo in terza persona. Quando si
sostiene che l’estrema destra è un movimento del sottoproletariato, ad esempio,
non si vede che il movimento del capitale ci sta proletarizzando tutti,
sottoponendoci a un nuovo livello di insicurezza sociale. Ecco perché ogni
esplosione di rabbia sociale è in un certo senso nostra, anche se sta
percorrendo la strada sbagliata. Il movimento del capitale, cioè il flusso
delle relazioni sociali, è teoricamente precedente allo studio delle
aggregazioni o dei coaguli attraverso cui passa.
Da parte nostra, la lotta di classe è una spinta contro e oltre. Spingiamo
contro e oltre l’identitarismo, che si tratti dell’ordinario identitarismo
Stato-denaro-valore o dell’identitarismo patologico fascista. Spingiamo verso
un riconoscimento reciproco, l’Io-che-siamo-noi e il Noi-che-siamo-io che Hegel
ha intravisto nella Rivoluzione francese.12 Spingiamo verso un dialogo
basato sul riconoscimento attraverso l’organizzazione comunitaria. Il valore è
la rottura del riconoscimento reciproco, l’istituzione di un riconoscimento
basato sul lavoro astratto. Il valore impedisce un dialogo umano, necessario
per la sopravvivenza della nostra specie.
7.3 La questione rimane: cosa significa sviluppare un approccio
contro-e-oltre-identitario all’identitarismo estremo dell’estrema destra? La
politica del Noi suggerita sopra non può basarsi sull’idea di un
“noi-siamo-una-famiglia-felice” esistente. Deve essere una spinta verso un Noi
che non è ancora compiuto.
Non ho una risposta chiara. Chiedendo camminiamo, Preguntando
caminamos. Ma ci sono alcuni punti che mi sembrano importanti e che sono
indicati nei paragrafi che seguono.
Il fascismo, il razzismo, la misoginia sono tutte forme estreme di
identitarismo. L’identitarismo fa parte della grammatica del valore, della
confluenza sociale a cui partecipiamo. Senza negare che facciamo parte di
questa stessa grammatica e che siamo tutti razzisti e misogini, in misura
diversa, a prescindere dal colore o dal genere, ci spingiamo contro e oltre,
per romperla. Di questo ci sono molti esempi eccellenti e abbastanza comuni.
La lotta è contro il razzismo, il fascismo, il sessismo: non contro i
razzisti, i fascisti, i sessisti. È importante riconoscere la nostra
inevitabile schizofrenia. In questa società è impossibile essere non-razzisti,
ma possiamo certamente (e dobbiamo) essere antirazzisti nel senso di lottare
contro il nostro razzismo e quello degli altri. Semplificare l’inevitabile e
onnipresente tensione tra identità e identità contro e oltre, in una relazione
dualistica amico-nemico, è inutile e ipocrita.
Il riconoscimento del nostro carattere scisso suggerisce una modalità per
rompere l’interpretazione spersonificante dell’estrema destra. L’argomentazione
di Ernst Bloch, negli anni Trenta, secondo cui al centro del fascismo c’è una
perversa promessa utopica13 è molto importante a tale
riguardo. Tutti condividiamo una sorta di promessa utopica: è la perversione
che è ripugnante. Così come il titolo di questo pezzo – Rebellion
rushin’ down the wrong road (La ribellione corre lungo la strada sbagliata):
la ribellione è nostra, è la strada sbagliata che rifiutiamo.
L’apertura di un approccio politico comunitario del Noi ci porta
inevitabilmente a riconoscere ciò che abbiamo in comune, che ci piaccia o meno.
Al livello più elementare, riconosciamo la nostra umanità. Così, ad esempio, se
vediamo una dichiarazione come quella del ministro della Difesa israeliano,
Yoav Gallant, che ha dichiarato, “Stiamo combattendo degli animali umani e
dobbiamo agire di conseguenza” (Bertov 2024) e reagiamo rispondendo che “no,
qui l’animale umano sei tu” (e questa è certamente una tentazione), allora
scadiamo esattamente nel fascismo a cui ci opponiamo. Se ci rifiutiamo di dare
questa risposta, come dobbiamo fare, allora stiamo già accettando che c’è una
certa comunanza tra di noi. Stiamo in effetti dicendo “per quanto ci addolori
ammetterlo, anche tu, Gallant, sei umano”.
Dobbiamo andare oltre. Almeno per il momento, quando parliamo dell’ascesa
dell’estrema destra, non parliamo di Hitler o di Gallant o delle guardie di
Auschwitz o dei sostenitori disciplinati e militarizzati del nazismo degli anni
Trenta, ma piuttosto dei sostenitori indisciplinati di Trump o di Milei o di
Bolsonaro o di Orban o di Le Pen. Potremmo anche conoscere alcune di queste
persone e probabilmente non avremmo difficoltà ad ammettere la loro umanità, il
livello di base dell’essere Noi. E se ascoltiamo quello che dicono, siamo
costretti a riconoscere altri punti che abbiamo in comune, o che perlomeno
troviamo facili da capire.
La reazione più ovvia è la disillusione, la perdita di fiducia nei partiti
politici esistenti. È impossibile comprendere l’ascesa di Milei in Argentina o
di Bolsonaro in Brasile se non come risposta al fallimento dei governi di
“sinistra” dei Kirchner o di Lula e Dilma nel realizzare il cambiamento sociale
radicale che avevano promesso. È facile da capire, persino da condividere. Lo
stesso vale per le loro proteste contro il crescente impoverimento, una
caratteristica importante del sostegno sociale, soprattutto per i partiti di
destra europei. Anche la critica al progresso capitalistico e al potere delle
élite politiche e sociali e la nostalgia per le comunità, anche se immaginate,
sono facili da comprendere. L’aspetto principale con cui è assolutamente
impossibile empatizzare, ma facile da capire, è il razzismo, la misoginia e
altri fenomeni di identitarismo estremo. Sono facili da capire perché non sono
solo promossi dai politici mainstream, ma sono già insiti nell’esistenza stessa
dello stato, come forma di confluenza sociale basata sul valore. Torniamo così
alla necessaria rottura della grammatica della politica identitaria, alla
necessaria creazione di una politica discorsiva e comunitaria basata su
assemblee-consigli-comuni.
L’enorme risposta collettiva in Inghilterra alle rivolte anti-migranti va
nella stessa direzione. Al di là di questo, ci deve essere un’apertura a una
sorta di dialogo comunitario. Non si tratta di un dialogo facile, e
probabilmente si tratta di un confronto con chi non vuole parteciparvi. Ma sono
persone con cui dobbiamo vivere e dobbiamo stabilire una convivialità o una
confluenza sociale che non passi solo attraverso lo scambio di merci o lo
Stato.
È una follia? Forse, e forse è una follia necessaria. Dov’è questa
anti-grammatica comunitaria? Dov’è questa digna rabia che è la
nostra unica speranza? La digna rabia è intorno a noi,
condizione latente ma necessaria della nostra convivialità.
8. I forconi si rivoltano?
È interessante notare come un editoriale del Financial Times scritto
alla fine del 2020 mettesse in guardia: “Dopo la crisi finanziaria globale,
questo senso di tradimento ha alimentato una reazione politica contro la
globalizzazione e le istituzioni della democrazia liberale. Il populismo di
destra può prosperare sfruttando questo fenomeno pur lasciando i mercati
capitalistici al loro posto. Ma poiché non è in grado di mantenere le promesse
fatte alle persone economicamente frustrate, è solo questione di tempo prima
che i forconi si scaglino contro il capitalismo stesso e contro la ricchezza di
coloro che ne beneficiano” (Financial Times, 30 dicembre 2020).
Il sostegno all’estrema destra ha una base materiale: la mancata
realizzazione di promesse e aspettative economiche. Negli ultimi trent’anni,
ovunque, la ricchezza dei ricchi è aumentata in modo impressionante, mentre
quella dei poveri è rimasta più o meno costante. I governi di sinistra, dove ci
sono stati, hanno cambiato poco o nulla in questo senso. I partiti di destra
promettono di realizzare un cambiamento economico che andrà a vantaggio dei
loro sostenitori. Come sottolinea Schmidt, “I nazisti promettevano tutto a
tutti. Gli operai si aspettavano posti di lavoro e assegni generosi, i
contadini speravano di ottenere buoni prezzi per i loro raccolti, i negozianti
si preparavano a un aumento delle vendite e i capitalisti non vedevano l’ora di
ripristinare i profitti distrutti dalla crisi” (Schmidt, 2020, 37). Oggi i
partiti di estrema destra (e in realtà tutti i partiti politici) non sono molto
diversi. È improbabile che, salendo al potere, riescano a realizzare il
cambiamento radicale che promettono. Il tipo di espulsione dei migranti di cui
parla Trump sarebbe un disastro economico per gli Stati Uniti. E probabilmente
non esiste un grado di disciplina partitica o sociale che possa portare a un
aumento significativo del tasso di sfruttamento, come nel caso dei nazisti. A
meno di una guerra, è possibile che i governi di estrema destra, laddove
vengano eletti, si limitino a ripetere il ciclo di speranze-promesse seguite da
una rabbiosa disillusione.
E allora: è “solo una questione di tempo prima che vengano fuori i forconi
per il capitalismo stesso e per la ricchezza di coloro che ne beneficiano”?
Vuol dire che la ribellione si spingerà lungo la strada giusta, che la tempesta
si abbatterà sull’albero giusto? Probabilmente il tasso di instabilità sociale
della destra e della sinistra è molto più alto di quello degli anni Trenta. C’è
un modo in cui le nostre rabbie possano unirsi? C’è un modo in cui la rabbia
perversa, identitaria, razzista e statalista possa rompere le identità e
avvicinarsi a quella rabbia dignitosa, la rabia digna, che è
l’unica base della speranza rivoluzionaria? C’è un modo per spingere in questa
direzione?
Forse. Non necessariamente. Ma forse. Preguntando caminamos.
Bibliografia
Abahlali baseMjondolo, “KwaZulu-Natal and Gauteng are burning, we need to
build a just peace”, 13 luglio 2021. http://abahlali.org/node/17320/
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Fascismo en el Siglo XXI, tesi di dottorato, Benemérita Universidad
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prossima pubblicazione.
Schmidt, Ingo 2020. “The “Hope of the Hopeless”: Contemporary Lessons
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Sohn-Rethel, Alfred. 1978. Intellectual and Manual Labour. A
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Toscano, Alberto (2017) “Notes on Late Fascism” Historical
Materialism (blog), 2 aprile 2017, www.historicalmaterialism.org/blog/notes-late-fascism
Note
1 Il titolo viene da Five
Nights of Bleeding di Linton Kwesi Johnson, che recita:
Notte numero quattro alla danza blues, ballo degli abusi
Due sale gremite e la pressione che sale
Caldo, teste calde
Rituale di sangue alla danza blues
Vetri rotti che si scheggiano, fuoco
Asce, lame, esplosioni di cervelli
Ribellione che corre lungo la strada sbagliata
Tempesta che si abbatte sull’albero sbagliato
E Leroy sanguina quasi a morte la quarta notte
della danza blues, una notte nera di ribellione, è
Guerra tra i ribelli
Follia, follia, Guerra
Si può ascoltare la canzone al seguente link https://www.youtube.com/watch?v=JF-nh2aL6rQ
2 Un enorme ringraziamento a tutti
coloro che hanno commentato una versione precedente di questo articolo:
Panagiotis Doulos, Edith González, Lars Stubbe, Milena Rodríguez, Marcel
Stoetzler, Josep Rafanelli, Alejandro Merani, Ana Cecilia Dinerstein, Sergio Tischler,
Inés Durán Matute, Adrian Wilding and Karla Sánchez.
3 Sohn-Rethel (1978, 5) parla di
sintesi sociale, ma questo implica una chiusura eccessiva. Preferisco la
coesione sociale o la confluenza sociale, perché presuppone un movimento
costante.
4 Partiamo dal capitalismo, non dal
neoliberismo. In Messico, dove il governo proclama costantemente la lotta
contro il neoliberismo, parlare di neoliberismo è spesso un modo per dire “non
c’è niente di male nel capitalismo, ma non deve essere portato all’estremo”.
Max Horkeimer dice che “Se non si vuole parlare di capitalismo, allora è meglio
tacere sul fascismo”. Lo stesso si può dire del neoliberismo.
5 La nozione stessa di critica ne è
testimonianza. La critica implica necessariamente un’alterità. Il fatto che noi
critichiamo significa che non siamo completamente sussunti nella relazione del
valore: che non siamo solo nella relazione, ma anche contro e al di là di essa.
6 Sul dibattito sulla derivazione
dello Stato, vedi Holloway e Picciotto (1978).
7 Ciò non significa negare che lo
Stato stabilisca anche altre forme di classificazione e gerarchizzazione
essenziali alla riproduzione del capitale, ma la dimensione più immediata della
sua stessa esistenza è l’identificazione dei cittadini e degli stranieri.
8 La guerra può anche essere
incentrata sulla competizione per la distribuzione del plusvalore sociale
totale, ma l’uccisione di persone da parte di altre persone può essere spiegata
solo attraverso un’alterazione disumanizzante di queste persone.
9 Scrivendo nell’agosto del 2024,
spero vivamente che Trump non vinca le prossime elezioni negli Stati Uniti.
Tuttavia, non è chiaro se causerebbe più morti nel mondo un governo Trump o uno
guidato da Harris.
10 Dire “loro sono identitari, noi
no” è autocontraddittorio, come il bugiardo cretese.
11 Non seguo qui i dettagli della sua
argomentazione, ma la distinzione di Rogelio Regalado tra interpretazioni
“exoteriche” ed “esoteriche” del fascismo è molto utile (2024). La linea
seguita qui è chiaramente esoterica, ma, all’interno di questa, desidero
distinguere tra approcci identitari e contro-e-oltre-identitari.
12 Sul tema, vedi Gunn e Wilding
(2020).
13 Vedi Bloch (1936/1991); Toscano
(2017).
Questo saggio è stato preparato per un seminario promosso a Vancouver in
agosto. Traduzione di Virginia Benvenuti per Comune.
da qui