domenica 28 aprile 2024

I conti che l’Italia non ha mai fatto col fascismo - L’intervista a Tomaso Montanari

 

Sterilizzazione forzata: l’ultima arma contro i Nativi Americani - Raffaella Milandri*

 

Tra il 1970 e il 1980, il 42% delle donne native americane fu sterilizzato contro il proprio consenso. Al piano governativo statunitense diede il via, il 16 marzo 1970, la firma dell’allora Presidente Richard Nixon.

Eugenetica e selezione della razza dominante

Tra i diversi strumenti usati dal Governo statunitense per risolvere il cosiddetto “problema indiano” abbiamo visto, nei miei precedenti articoli, l’istituzione delle riserve e le scuole residenziali indiane. Ma ce ne sono altri, recenti e malefici. Il più subdolo, la sterilizzazione forzata, ci fa tornare subito in mente l’eugenetica e i laboratori nazisti.

 

L’arrivo del darwinismo esaltò le correnti razziste e sessiste che avevano preso piede all’inizio del XIX secolo. Lo studioso statunitense E. D. Cope identificò quattro gruppi inferiori nella scala evolutiva dell’uomo: i non-bianchi, le donne, i bianchi del sud Europa, inclusi Italiani ed Ebrei, e le classi sociali inferiori. Queste correnti di pensiero crearono il movimento eugenetico. Sir Francis Galton, un cugino di Darwin, decretò che la riproduzione umana doveva essere regolamentata per assicurare ai “migliori”, specialmente delle classi alte, la possibilità di dominare. Nel 1912 a Londra si tenne il primo Congresso Internazionale sulla eugenetica, cui parteciparono anche Winston Churchill e scienziati italiani ispirati dalle teorie degenerazioniste di Lombroso.

Sebbene le tendenze di Churchill siano state rimosse dalla sua biografia, oggi molte fonti citano i suoi discorsi: “Non sono d’accordo che il cane nella mangiatoia abbia il diritto finale alla mangiatoia, anche se vi è stato per un tempo molto lungo. Non ammetto quel diritto. Non ammetto, ad esempio, che un grande male sia stato fatto ai Rossi Indiani d’America o al popolo nero d’Australia. Non ammetto che un male sia stato fatto a questa gente perché una razza più forte, una razza di più alto livello, una razza più saggia nel mondo è arrivata e ha preso il loro posto” (Discorso alla Peel Commission 1937). In gran parte dell'Europa occidentale e negli Stati Uniti furono applicati provvedimenti di carattere eugenetico, a partire dalla fine dell'Ottocento: sia con una legislazione volta a indirizzare le scelte riproduttive, sia attraverso la sterilizzazione forzata e la rimozione degli “elementi negativi” per la razza. In Italia la sterilizzazione forzata non fu mai approvata, grazie all’opposizione della Chiesa Cattolica.

Nel movimento eugenetico americano, in quegli anni, Carl Brigham faceva notare come l’immigrazione nel paese “scendesse” di qualità: meno sangue superiore nordico, “ariano”, e più sangue inferiore mediterraneo. Le razze inferiori furono additate come parassiti umani e “schifosi, non-Americani e pericolosi”. Il movimento eugenetico promosse a quel punto la sterilizzazione degli “inadatti” e Harry Laughlin disegnò una proposta di legge per la sterilizzazione, che fu adottata in diversi stati americani. Grazie a queste leggi, che erano espressamente rivolte a “epilettici, disabili mentali, alcolizzati, drogati e criminali”, almeno 50.000 sterilizzazioni furono eseguite negli Stati Uniti entro il 1940. Ma il peggio doveva ancora venire.

Anche se le azioni di Hitler avrebbero dovuto far impallidire e vergognare qualunque simpatizzante dell’eugenetica. In merito alla tempesta di sterilizzazioni che travolse migliaia di donne americane e migliaia di donne native americane, così dichiarava nel 1978 il Dipartimento della Salute americano: “La sterilizzazione volontaria è legale in tutti gli stati. Pur se la maggior parte degli stati non ha uno statuto che regola questa pratica, più della metà autorizza la procedura attraverso l’opinione degli avvocati, o le decisioni dei giudici, o regole del Dipartimento della Salute, o implicitamente attraverso il consenso degli interessati”. Proprio l’IHS, Indian Health Service, che avrebbe dovuto prendersi cura della salute dei Nativi Americani, ebbe una parte fondamentale nella sterilizzazione delle donne native americane; solo le ripetute grida di denuncia di genocidio poterono fermare questo abominio.

La cosiddetta “pianificazione familiare” degli Stati Uniti, il Family Planning

Il programma di sterilizzazione forzata, presumibilmente, fu scoperto da membri dell'American Indian Movement durante l’occupazione del Quartier Generale del Bureau of Indian Affairs nel 1972. Nel 1974 uno studio condotto dal WARN (Women of All Red Nations) concluse che fino allora il 42% delle donne native americane in età fertile fosse stato sterilizzato senza consenso.

 

Il 16 marzo 1970 Nixon firmò il Family Planning Services and Population Research Act. Si intende con Family Planning (pianificazione familiare) la progettazione del controllo delle nascite, nel presupposto di aiutare una coppia ad avere bambini nel modo migliore, o a non averli se così decidono. La legge fu richiesta dalla amministrazione del governo nel luglio 1969, per siglare un impegno nazionale che provvedesse un adeguato servizio di pianificazione familiare a tutti coloro che lo richiedessero, ma non potessero permetterselo. Il Presidente Nixon dichiarò pubblicamente che però era contrario all’aborto e in questo programma non ci sarebbero stati fondi o servizi per l’aborto come soluzione al controllo delle nascite.

Dal 1970, la sterilizzazione è divenuta il più comune sistema di controllo delle nascite per donne oltre i 25 anni negli Stati Uniti. Tra il 1970 e il 1980, le sterilizzazioni triplicarono. Nel 1982, il 15% delle donne bianche, il 24% delle afro-americane, il 35% delle donne portoricane e, in vetta alla triste classifica, il 42% delle donne native americane era stato sterilizzato. Nei primi anni '70, una stima di 100.000/ 150.000 individui, inclusi uomini a basso reddito, venivano ogni anno sterilizzati sotto i programmi finanziati dal governo statunitense. Come in passato, i pregiudizi sociali e l’ideologia di una classe prevalentemente razzista consentirono che ciò avvenisse. 

Il National Women’s Law Center (NWLC) denuncia in un report del 2022 che in oltre 30 stati americani è tuttora legale la sterilizzazione forzata. Si autorizza la procedura sulla base dell’opinione del giudice, o del Procuratore Generale, o leggi dell’Health and Welfare Department, o attraverso il consenso dell’interessato. Negli anni '70 la sterilizzazione fu praticata attraverso scappatoie: “consensi” strappati o giocati su poca chiarezza, ricatti, bugie. Quindi sterilizzazione non consensuale. Molte donne erano classificate come “cattive ragazze”, o diagnosticate come “focose”, “maniache assatanate” o “sessualmente difficili”. La sentenza del caso Buck vs. Bell deliberò che, se lo statuto di uno stato permetteva la sterilizzazione obbligatoria sugli inabili, inclusi i “ritardati mentali”, per la protezione e la salute dello Stato, non violava il Quattordicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti in difesa dei diritti civili. La “Eugenetica Negativa” intendeva migliorare la razza umana eliminando “difetti” dal patrimonio genetico. E spalancò le voragini per migliaia di persone che furono sterilizzate contro la propria volontà o perseguitate come sub-umani.

Il “trapianto di utero”

Una giovane donna indiana di ventisei anni entrò nello studio della dott.ssa Connie Pinkerton-Uri, a Los Angeles, in un giorno di novembre del 1972. E chiese un “trapianto di utero”, per poter avere dei bambini con suo marito. Un medico del Servizio Sanitario Indiano le aveva praticato un’isterectomia completa sei anni prima, quando lei aveva avuto problemi di alcolismo. E le aveva assicurato che l’isterectomia era reversibile. La dottoressa Pinkerton dovette dire alla donna piangente la verità: non esisteva nessun “trapianto di utero”.

 

Due giovani donne indiane entrarono nell’ospedale del Servizio Sanitario Indiano del Montana per appendicite, in un giorno di ottobre del 1970, e ricevettero un “servizio extra gratuito”: la legatura delle tube. Bertha Medicine Bull, membro della tribù dei Northern Cheyenne, riporta: “Le due ragazze sono state sterilizzate all’età di quindici anni, senza consenso e senza dir loro nulla. Né avvisare i loro genitori”.

In un caso di molestie sessuali in Oklahoma, nella struttura di Claremont, a una donna nativa fu detto da assistenti sociali e da altro personale dell’ospedale che era una cattiva madre, e che le avrebbero portato via i suoi bambini. Avrebbero dato in affidamento i suoi bambini se non avesse accettato di sottoporsi alla sterilizzazione. Ho avuto modo pochi anni fa di raccogliere dal vivo testimonianze di native vittime della sterilizzazione forzata, giovanissime negli anni Ottanta (per approfondire: “La mia Tribù. Storie autentiche di Indiani d’America”, Raffaella Milandri, Mauna Kea Edizioni).

Mentre, sull'onda dei movimenti pacifisti del '68 e post-vietnam degli anni '70, il cinema americano iniziava a "riscattare” gli indiani con pellicole come Soldato Blu e Un uomo chiamato cavallo, rendendo finalmente giustizia laddove i ”pellirosse” erano sempre stati “i cattivi”, veniva attuato il Family Planning Act del 1970. Un piano di efferata sterilizzazione forzata e contro la volontà delle donne native americane, e non solo, tra i 15 e i 44 anni. Dopo ripetute proteste e segnalazioni, nel 1976 il Government Accounting Office condusse un’inchiesta che sfociò nel GAO Report. Il GAO Report non verificò se fossero state praticate sterilizzazioni forzate, ma attestò che vi erano stati difetti procedurali, che i moduli di consenso non erano a norma, e che i medici non avevano “compreso” le disposizioni. Diversi moduli di consenso, inoltre, erano stati firmati il giorno dopo la sterilizzazione. Nessuna nativa americana fu chiamata a testimoniare.

Perché avvennero queste sterilizzazioni in tempi non sospetti, a cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80? Non solo su donne indiane, ma in gran misura anche su afro-americane e di razza ispanica. Le ragioni del Governo degli Stati Uniti furono sociali ed economiche. Limitare le nascite in famiglie povere e appartenenti alle minoranze razziali era un “bene” per la società e un aiuto per le famiglie povere, che potevano sopravvivere meglio senza troppi bambini. E si limitavano le spese del Medicaid, il programma di assistenza sanitaria statunitense per i meno abbienti. Vari studi, tra cui quello della dott.ssa Choctaw-Cherokee Connie Pinkerton-Uri rivelano che l’Indian Health Service tra il 1970 e il 1976 sterilizzò dal 25 al 50% di donne native americane, di età compresa fra i 15 e i 44 anni. Prediligendo le donne di puro sangue indiano. E usando spesso minacce e ricatti, o facendo firmare moduli durante il dolore del travaglio. Il giudice tribale Marie Sanchez interrogò 50 donne Cheyenne e scoprì che 26 di esse erano state sottoposte a sterilizzazione forzata dai medici dell’IHS. L’abuso di sterilizzazioni non consensuali afflisse l’intera comunità degli Indiani d’America: un’epidemia di divorzi, alcolismo, abuso di droghe, depressione mise i Nativi Americani per l’ennesima volta in ginocchio, oltre a metterne a rischio la sopravvivenza.

Emily Moore nei suoi studi mette in risalto come, tra i Nativi Americani, i figli siano vitali per la famiglia, ma anche per la sopravvivenza del gruppo e dell’identità tribale. La politica di “controllo delle nascite” dell’IHS produsse una serie di effetti che non sono certo secondari: le comunità tribali, diminuendo di popolazione, ebbero assistenza e servizi ridotti, numero di votanti per le elezioni limitato e un numero minore di rappresentanti che potessero tutelarli. Quindi potere politico minore sia ai consigli tribali e sia al governo. Torna sempre, di fronte a tutto ciò, lo spettro della prima ragione per gli stermini di Nativi Americani: la terra e il denaro. Farli fuori una volta per tutte, tagliare i costi assistenziali e prendere le risorse naturali delle riserve. Un crimine perpetrato con lucidità e determinazione, per “stemperare” il sangue indiano in una tonalità sempre più “bianca.”

 

 

*Scrittrice e giornalista, attivista per i diritti umani dei Popoli Indigeni, è esperta studiosa dei Nativi Americani e laureata in Antropologia.

Membro onorario della Four Winds Cherokee Tribe in Louisiana e della tribù Crow in Montana. Ha pubblicato oltre dieci libri, tutti sui Nativi Americani e sui Popoli Indigeni, con particolare attenzione ai diritti umani, in un contesto sia storico che contemporaneo. Si occupa della divulgazione della cultura e letteratura nativa americana in Italia e attualmente si sta dedicando alla cura e traduzione di opere di autori nativi.

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sabato 27 aprile 2024

Il Tribunale di Crotone rottama il Decreto Piantedosi: disobbedire ai libici è legittimo - Fulvio Vassallo Paleologo

 

1. Nella stessa giornata in cui, dopo che il governo aveva chiesto di costituirsi parte civileil Giudice dell’Udienza preliminare di Trapani chiude il processo Iuventa, dichiarando che “il fatto non sussiste”, rendendo evidente la montatura imbastita contro i soccorsi umanitari, il Tribunale civile di Crotone, dopo avere ascoltato le parti, conferma la sospensione del fermo amministrativo della Sos Huamnity, riconoscendo allo stato degli atti, come riferisce l’ANSA, che “quella della guardia costiera libica era un’operazione di salvataggio “insussistente” e quindi “nessuna condotta ostativa è riscontrabile” nei riguardi della Humanity 1 “la quale, in tale, contesto, è risultata l’unica imbarcazione ad intervenire per adempiere, nel senso riconosciuto dalle fonti internazionali, al dovere di soccorso in mare dei migranti”. In attesa dell’udienza di merito che si terrà il 26 giugno, secondo l’ordinanza del Tribunale di Crotone, “non può ritenersi che l’attività perpetrata dalla guardia costiera libica sia qualificabile come attività di soccorso per le modalità stesse con cui tale attività è stata esplicata. Costituisce infatti circostanza incontestata e documentalmente provata che il personale libico fosse armato e che, in occasione di tali attività, avesse altresì esploso colpi di arma da fuoco; parimenti, costituisce circostanza evincibile dalla corrispondenza in atti che nessun luogo sicuro risulta essere stato reso noto dalle stesse autorità libiche intervenute per coordinare sul posto le operazioni di recupero dei migranti”.

Il giudice del Tribunale di Crotone, richiamando la Convenzione sui soccorsi in mare (SAR) di Amburgo, il Memorandum tra il governo italiano e il governo provvisorio di Tripoli del 2 febbraio 2017, ed i rapporti ONU del 2021, afferma che “allo stato attuale non è possibile considerare la Libia un posto sicuro ai sensi della Convenzione di Amburgo, essendo il contesto libico caratterizzato da violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani e non essendo stata mai ratificata la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati da parte della Libia”. Dunque, “stante l’insussistenza di una operazione di salvataggio concomitante perpetrata dalla guardia costiera libica, nessun ordine di allontanamento è giustificabile nei confronti dell’unica imbarcazione che ha posto in essere condotte in adempimento del dovere assoluto di soccorso in mare”.

Come nel caso Iuventa a Trapani, dove si procedeva in sede penale, e sono emerse falsità evidenti nelle contestazioni dell’accusa, nel caso della SOS Humanity la sanzione pecuniaria e la misura accessoria del fermo aministrativo erano state stabilite sulla base di prove ritenute in questa fase di giudizio non attendibili. Secondo quanto dichiarato dalla presidente dell’Associazione Sos Humanity, gli operatori umanitari della nave erano stati i primi a rispondere alle segnalazioni di emergenza e ad arrivare sul punto nel quale si trovavano tre imbarcazioni in situazioni di evidente distress (pericolo). I soccorsi erano già avviati, dunque, quando sopraggiungeva all’imptovviso un gommone libico, A quel punto, per quanto riferito dalla stessa rappresentante, “sostanzialmente persone armate hanno preso il controllo di due imbarcazioni in difficoltà con manovre spericolate, costringendo le persone a cadere o a saltare in acqua. La cosa grave è che hanno sparato dei colpi in acqua vicino ai gommoni. E in ultimo l’equipaggio è stato minacciato con i fucili e costretto ad abbandonare la scena che fino a poco prima era sotto controllo”. Al contrario di quanto affermato dal governo, attraverso i suoi organi periferici, e dall’avvocatura dello Stato , il Tribunale di Crotone riconosce a tale riguardo che tra la situazione di pericolo nella quale versavano i naufraghi e la condotta degli operatori della SOS Humanity non c’è alcun “nesso di causalità”.

2. L’ordinanza del Tribunale di Crotone appare di particolare importanza perchè richiama tra le motivazioni la nota giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza n.6626/2020 sul caso Rackete) secondo cui “ non si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (cd. place of safety)”.

Per il Tribunale di Crotone, anche ammettendo che le attività di intercettazione in acque internazionali della sedicente Guardia costiera “libica” si possano qualificare come attività di ricerca e salvataggio (SAR), si deve riconoscere come “nessun ordine di allontanamento formulato possa ritenersi legittimo, sia a livelo nazionale che a livello sovranazionale”, in quanto la stessa Guardia costiera non è in grado di garantire lo sbarco in un porto sicuro.

L’ordinanza del giudice di Crotone colpisce il punto nodale del Decreto Piantedosi che si riverbera nelle motivazioni più ricorrenti nei provvedimenti di fermo amministrativo adottati nei confronti delle navi delle ONG. basati sull’accusa di avere creato una situazione di pericolo per non avere interrotto le loro attività di ricerca e salvataggio, a seguito dell’arrivo della motovedetta libica di turno, in assenza di un vero coordinamento unificato dei soccorsi. Che le autorità di Tripoli, con il loro centro congiunto di coordinamento (JRCC), non sono evidentemente in grado di garantire, senza il supporto continuo degli assetti aerei di Frontex, impegnati nel tracciamento delle imbarcazioni, e senza le comunicazioni comunque garantite dalla Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana (IMRCC) di Roma, su indicazione del Nucleo centrale di coordinamento interforze (NCC) del Ministero dell’interno. E’ infatti da Roma, dopo le richieste di intervento nelle attività di soccorso in acque internazionali, in quella che si assume come zona SAR “libica”, che partono le indicazioni di rivolgersi alla sedicente Guardia costiera “libica”. Ma la situazione rilevata dalla Corte di cassazione con riferimento al caso ASSO 28 nel 2018 oggi non è affatto migliorata. Lo confermano i più recenti rapporti della missione UNSMIL al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Appare ancora oggi evidente come la Libia, che non ha neppure ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, non possa garantire porti sicuri di sbarco.. Questo dato non può essere contraddetto dal preteso carattere illegittimo delle attività di ricerca e salvataggio operate in acque internazionali dalle ONG. Le sentenze della Corte di Cassazione sul caso Rackete (n.6626/2020) e le numerose archiviazioni dei procedimenti penali intentati contro le ONG impediscono di considerare quelli che sono doverosi eventi di ricerca e salvataggio (SAR) come meri “eventi connessi al fenomeno migratorio” se non come “eventi di immigrazione illegale”, come li qualifica ancora oggi il ministero dell’interno. Si tratta invece, come sta emergendo nei procedimenti cautelari in sede civile che si concludono con la sospensione dei provvedimenti di fermo amministrativo, di situazioni nelle quali le persone a bordo dei barconi partiti dalla Libia, o dalla Tunisia, si trovano già in distress (pericolo grave ed attuale) conclamato, di fronte alle quali non ci si può limitare alla mera comunicazione, al comandante della nave soccorritrice, della competenza delle autorità libiche per coordinare gli interventi di soccorso, magari per attendere l’arrivo della motovedetta tripolina che intima la sospensione delle attività di ricerca e salvataggio sparando colpi di arma da fuoco.

https://www.pressenza.com/it/2024/04/il-tribunale-di-crotone-rottama-il-decreto-piantedosi-disobbedire-ai-libici-e-legittimo/

Dopo il “caso” Soumahoro, ecco il “caso” Bachcu

di Algamica*

Sui giornali online dell’11 aprile e su tutti i quotidiani del giorno successivo abbiamo dovuto leggere che un nuovo pericoloso criminale immigrato è stato arrestato dopo un lunga indagine della polizia e della sezione dell’antimafia durata, stando alla cronaca dei fatti imputati, ben due anni.

L’immigrato in questione, ora agli arresti presso il carcere di Regina Coeli e in attesa del pronunciamento da parte del GIP, non è un immigrato qualsiasi, ma è Nure Alam Siddique detto “Bachcu” famoso per essere un leader storico della comunità Bengalese in Italia la cui associazione, Dhuumcatu, nel corso di trent’anni (dagli anni ‘90 ai giorni nostri) è stata punto di riferimento per l’organizzazione delle lotte non solo degli immigrati connazionali, ma anche per indiani, pakistani, filippini, nord africani, rom, albanesi e latino americani. In sostanza dopo il “l’affare Abou Soumahoro”, un altro pesce ancora più grosso della lotta trentennale degli immigrati in Italia cade sotto la sferza del potere poliziesco e della magistratura, in nome della difesa della legge vigente nel nostro paese. I quotidiani del perbenismo democratico Occidentale si sfregano le mani proponendo tutti lo stesso titolo: “arrestato portavoce e paladino storico e della comunità bengalese di Roma”.

 

Quali i fatti imputati per cui è agli arresti fin dalla notte tra il 10 e 11 aprile?

Chiariamo sin da subito, che per uscire dalla cosiddetta clandestinità l’immigrato che già lavora in nero è costretto a pagare troppo spesso la documentazione necessaria al datore di lavoro, al proprietario di casa, ecc.

Tantissime associazioni di immigrati, inclusa la Dhuumcatu, hanno denunciato e combattuto pubblicamente questa giungla razzista. Ma quando le forze e la disponibilità a lottare non ci sono, può accadere che queste associazioni, essendo di fatto “casse di mutuo soccorso” simili a quelle del vecchio movimento operaio europeo e occidentale, si trovino costrette ad assistere il singolo immigrato e a rimediare la necessaria documentazione nella giungla del mercato razzista dei documenti. In sostanza gli immigrati se non lottano si rivolgono alle proprie “casse di mutuo soccorso” come loro rappresentanze di consumatori di un mercato dominato dall’uomo bianco e dalle forze impersonali dell’economia che ha necessità di forza lavoro immigrata a basso costo e ricattata.

Posta in questi termini la questione, la genesi del nuovo “caso” Bachcu viene fatta risalire anni addietro e proprio all’interno del contesto sociale in cui le e gli immigrati sottoposti dal ricatto del permesso di soggiorno si trovano costretti a ricorrere al mercato dei documenti necessari per la regolarizzazione.

Diciamo sin da subito che le leggi del mercato le fanno i rapporti capitalistici di produzione elaborati nel corso di secoli, dove ai popoli colonizzati e poi immigrati è concesso partecipare come consumatori o forza lavoro necessari alla accumulazione e alle condizioni imposte dalle forze impersonali dell’economia, che poi stabiliscono a chi non ha mezzi come accedervi da parte di chi invece ne ha la proprietà. E se i mezzi non li ha, quelle stesse forze economiche offrono a fianco del mercato “leale”, ovvero regolare, anche le trame del mercato “non leale” (o irregolare). Sicché l’immigrato è messo nella condizione di usare l’illegalità e se colto in fragranza di “reato” è colpevole e se un altro immigrato lo aiuta, usando gli stessi artifizi consigliati dal mercato illegale viene colpevolizzato come corrotto.

In questo modo vengono rimosse le responsabilità vere di chi favorisce la corruzione, cioè il corruttore, per mettere alla gogna il disgraziato corrotto. In sostanza il perbenismo liberista democratico rimuove in toto le responsabilità del corruttore, cioè le leggi di un modo di produzione e dei rapporti sociali, scaricando su chi è costretto a sottostare alle forche caudine delle stesse, una responsabilità di corruzione perché non farebbe uso del libero arbitrio e vivere da “onesto” cittadino. Una realtà tanto più vera e feroce quanto e quando il dominato è un immigrato.

Come a dire che la causa del mercato e del traffico degli stupefacenti sia da addebitare ai poveri tossicodipendenti e non ai rapporti sociali che determinano la tossicodipendenza. In sostanza il liberismo democratico accoglie a rigide condizioni gli immigrati nel recinto del consentito del razzismo e condanna quello “corrotto” proprio per escludere il sistema sociale della corruzione in mano alle forze dell’economia e dello Stato.

I giornali descrivono che il caso Bachcu è “intricato”, perché non è per la compravendita dei documenti per la regolarizzazione di immigrati “clandestini” che viene arrestato, anche perché tutto sommato l’economia e i padroni del vapore – banche, industrie e agrobusiness – hanno pur sempre bisogno di dimostrare che loro ingaggiano regolarmente gli immigrati al lavoro, poco importa se la residenza o il domicilio e il permesso di soggiorno erano stati ottenuti con una documentazione onesta e veritiera, mentre quando così non è, loro – il corruttore – si tirano fuori da ogni responsabilità addebitando le colpe a chi per necessità è costretto a districarsi nella palude di rapporti sociali diseguali.

Leggiamo sui giornali una ricostruzione dei fatti lunga due anni, dove nel quartiere di Roma Torpignattara – denominata “banglatown” – si sia formata una vera e propria mafia, che in virtù degli aiuti e intermediazioni pregresse per far ottenere a tizio o a caio i documenti necessari per la regolarizzazione, se poi nel corso della vita lavorativa tizio e caio faticosamente si sono stabilizzati e hanno aperto piccole botteghe di frutta e verdura, verso di questi verrebbe chiesto periodicamente di pagare il “pizzo” più gli interessi. Se poi non si paga, si viene minacciati fino al punto di attuare un rapimento. L’intrico descritto dai giornali non finisce qui, perché come gli italiani – genitori di tutte le mafie nel mondo – dal pizzo si passa al traffico degli stupefacenti e ora un certo gruppo di immigrati bengalesi dal permesso comprato, al pizzo e rapimento, ora gestirebbe anche lo spaccio della droga a Torpignattara. In sostanza una “mafia” a tutto tondo e a reggere le fila il “padrino” Bachcu.

Sia chiaro: non staremo mai dalla stessa parte di chi oggi spara ad alzo zero contro Bachcu e contro il Dhuumcatu; come non staremo mai dalla stessa parte di chi difende il diritto borghese basato sul liberismo del capitale contro gli oppressi, gli sfruttati e gli immigrati.

C’è però da notare che nell’intricata storia descritta, il caso che ha gettato luce sulla “mafia della banglatown”, ossia il caso di rapimento di un bengalese e della conseguente richiesta di riscatto in cambio della vita denunciato alla polizia, le forze di polizia riuscirono in meno di 24 a liberare la vittima in mano ai rapitori che vennero arrestati in fragranza di reato. La vittima avrebbe poi immediatamente dichiarato agli agenti (31 ottobre 2022), che a mandante del suo rapimento ci fosse proprio Bachcu, testimoniando che durante la sua cattura fosse presente durante una videochiamata tra i rapitori e il boss (ossia Bachcu). Non c’è che dire, più che una banda mafiosa, qui abbiamo a che fare con la “armata Brancaleone” allo sbaraglio. Ma si sa, sono immigrati, dunque poveri, inferiori, quindi poco intelligenti. Altro che le mafie nostrane che stanno lì indisturbate nei salotti buoni dell’establishment occidentale.

Giuriamo sulla inconsistenza dei “reati” di Bachcu e di altri affiliati alla associazione Dhuumcatu? È una trappola meschina nella quale cadono gli ingenui. Per noi sul banco degli imputati siede un sistema economico politico e sociale razzista che mette nelle condizioni l’individuo immigrato di delinquere per poi condannarlo in quanto delinquente. Sicché il vero responsabile, cioè il corruttore esce illibato e il povero immigrato condannato.

 

Lo scopo politico dietro il “caso” Bachcu

Fanno pertanto ridere quanti a sinistra, anche “estrema” storcono la bocca pronunciando monosillabi «aspettiamo, si però, capiamo bene, ecc.». Mentre va denunciata da subito l’azione della magistratura e delle forze repressive dello Stato e della stampa tendenti a criminalizzare una realtà immigrata organizzata a Roma, il cui scopo è politico: svuotare la banglatown di Torpignattara, troppo ingombrante, troppo rumorosa, troppo musulmana e troppo negra, che non si confà agli interessi di quelle forze economiche che vogliono riqualificare la semiperiferia di Roma, trasformandola a uso, consumo e sfruttamento di lavoro precario a servizio dell’industria del turismo di massa, unica voce di entrata per l’economia della grande metropoli ma che deve competere sul mercato dell’offerta con altrettante città italiane ed europee, e ridurre quegli strati sociali di immigrati che hanno raggiunto una parziale integrazione a “negri da cortile” al servizio dell’industria del turismo legittimando la nuova schiavitù contro la massa di immigrati. Una presenza ingombrante quella degli immigrati di Torpignattara, tant’è che il 10 maggio 2022 la sede del Dhuumcatu di Via Capua 4 venne chiusa da una operazione di polizia condotta da 100 agenti per eseguire lo sfratto dell’immobile pignorato dalla Banca, nonostante da mesi l’associazione Dhuumcatu si stesse rivolgendo alla Banca stessa che pignorava l’immobile al proprietario, chiedendo di riscattarne la proprietà e richiedendo l’accensione di un mutuo.

Da lì in poi l’associazione Dhuumacatu è stata sottoposta a una serie di attacchi da parte delle forze politiche che governano la città, il V Municipio e che sostengono a spron battuto il programma di riconversione delle semiperiferie della Capitale, ossia una nuova ondata di speculazione edilizia, lievitazione del mercato degli affitti, eccetera.

E aggiungiamo che Bachcu andrebbe difeso da una mobilitazione proletaria e di immigrati, anche se i capi di imputazione dovessero risultare veritieri secondo il diritto liberale proprio per le ragioni espresse, perché chiameremmo in quel caso sul banco degli imputati il corruttore, ossia un modo di produzione che determina rapporti di sfruttamento e razzismo verso gli immigrati e i popoli colonizzato, e non il corrotto.

All’associazione Dhuumacutu è stato concesso negli ultimi anni di potersi barcamenare nella giungla del mercato razzista, tra una denuncia per occupazione di suolo pubblico e un’altra, mentre la stessa organizzazione bengalese e Bachcu da Roma alle campagne agricole di Latina non hanno mai smesso, quando ne avevano le forze, di sostenere mobilitazioni contro il sistema generale di ricatti agli immigrati, la ultima truffaldina sanatoria e da ultimo una piccola manifestazione di braccianti indiani della provincia di Latina lo scorso 25 marzo, quelli sì sottoposti dalla vera mafia legale dell’agrobusiness che mantiene i lavoratori immigrati nelle campagne nel moderno regime di schiavitù.

Il tempo per le concessioni sono finite, l’Italia seppure in disperato bisogno degli immigrati per tenere a galla l’economia e tentare di galleggiare nella crisi, non può più tollerare eccezioni quando l’intero Occidente è chiamato a serrare i ranghi nella sfida generale che si è aperta in Palestina sostenendo a tutti i costi Israele, evitare il collasso dello Stato sionista attraverso il genocidio del popolo palestinese: momento che condensa in questo tempo storico la battaglia di chi per 500 anni ha sofferto il colonialismo e il razzismo da parte dell’occidente.

Invitiamo pertanto gli immigrati e quanti sensibilizzati alla loro causa a schierarsi risolutamente:

Contro la campagna razzista in atto attraverso l’arresto di Bachcu.

Contro il genocidio perpetrato dallo Stato sionista di Israele contro il popolo palestinese.


* Alessio Galluppi, Michele Castaldo

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venerdì 26 aprile 2024

Sì, è un genocidio

                   

articoli e video di Andrea de Lotto, Gaetano Colonna, Giuliano Marrucci, Maria Morigi, Ghassan Abu-Sittah, Ahmed Kouta, Deborah Petruzzo, José Nivoi, Eirenefest



I 200 giorni di sterminio a Gaza riassunti in numeri

Al Jazeera sintetizza i 200 giorni di massacro israeliano a Gaza nel modo più efficace possibile: con i numeri.

Tra il 7 ottobre 2023 e il 23 aprile 2024, il regime israeliano si è macchiato di crimini indicibili contro la popolazione di Gaza, in particolare bambini e donne, con il bombardamento di ospedali e scuole, oltre ad abusi e torture certificate.

Gruppi per i diritti umani e organismi internazionali hanno descritto gli eventi strazianti che si stanno verificando nel territorio palestinese assediato come un caso da manuale di genocidio e pulizia etnica.

Anche i principali alleati internazionali di Israele – Washington, Londra, Parigi e Berlino – sono stati oggetto di una massiccia reazione pubblica per il loro continuo sostegno militare a Tel Aviv.

Secondo l’ufficio governativo di Gaza, il bilancio della campagna genocida di Israele ha già superato quota 34.150 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, di cui oltre il 75% sono donne e bambini.

I 2,3 milioni di persone nel territorio assediato continuano a fare i conti con una catastrofica crisi umanitaria tra bombardamenti incessanti e assedio paralizzante imposto da Israele con l’appoggio degli Stati Uniti.

Di seguito sono riportate le cifre relative a 200 giorni di guerra condotta dall’occupazione israeliana a Gaza, fornite dalle autorità dell’enclave assediata e rilanciate anche da Al Jazeera:

 

  • 200 il numero di giorni di  guerra genocida israeliana contro Gaza
  • 6 il numero di mesi dell’ultima guerra genocida israeliana contro Gaza
  • 34.183 il numero totale di vittime a Gaza dal 7 ottobre
  • 77.183 il numero dei feriti a Gaza dal 7 ottobre
  • 41.183 il numero totale delle persone uccise e disperse a Gaza dal 7 ottobre
  • 7.000 palestinesi ancora sotto le macerie degli edifici distrutti a Gaza
  • 3.025 massacri commessi da Israele dal 7 ottobre
  • 14.778 bambini uccisi dal 7 ottobre
  • 30 bambini morti a causa della fame e della carestia
  • 9.752   donne uccise dal 7 ottobre
  • 485 medici e paramedici uccisi dal 7 ottobre
  • 67 membri del personale della protezione civile uccisi dal 7 ottobre
  • 140 giornalisti palestinesi uccisi dal 7 ottobre
  • 72 la percentuale di bambini e donne uccisi dal 7 ottobre
  • 17.000 bambini che hanno perso uno o entrambi i genitori dal 7 ottobre
  • 11.000  feriti che necessitano di viaggiare per cure
  • 10.000   malati di cancro che corrono il rischio di morire
  • 1.090.000 persone con malattie infettive dovute allo sfollamento
  • 8.000 casi di epatite virale dovuta a sfollamento
  • 60.000 donne incinte a rischio a causa della mancanza di assistenza sanitaria
  • 350.000   malati cronici che soffrono a causa della mancanza di medicine
  • 5.000 – persone detenute arbitrariamente a Gaza dal 7 ottobre
  • 310 operatori sanitari che sono stati arrestati
  • 20 noti giornalisti detenuti arbitrariamente dal 7 ottobre
  • 2 milioni di sfollati nella Striscia di Gaza
  • 181 edifici governativi distrutti dal 7 ottobre
  • 103   scuole e università completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 317   tra scuole e università parzialmente distrutte dall’occupazione
  • 239 moschee completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 317    il numero delle moschee parzialmente distrutte dal 7 ottobre
  • 3 chiese prese di mira e distrutte dal 7 ottobre
  • 86.000 unità abitative completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 294.000 unità abitative parzialmente distrutte dal 7 ottobre
  • 75.000 tonnellate di esplosivo sganciate dall’occupazione su Gaza dal 7 ottobre
  • 32 ospedali messi fuori servizio dall’occupazione dal 7 ottobre
  • 53   centri sanitari che sono diventati non operativi dal 7 ottobre
  • 160 di istituzioni sanitarie parzialmente o completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 126 ambulanze distrutte dall’esercito di occupazione dal 7 ottobre
  • 206 siti archeologici e del patrimonio distrutti dal 7 ottobre
  • 30 miliardi di perdite dirette preliminari a seguito della guerra genocida contro Gaza

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