Il bilancio dello Stato in
pareggio, al quale siamo impegnati ad arrivare entro il 2013, non porta
automaticamente alla ripresa economica; e le misure di aumento delle imposte e
riduzione della spesa non portano automaticamente a un bilancio in pareggio, anzi,
l’esperienza greca fa balenare il rischio che, a causa dei tagli eccessivi, il
deficit si avviti su se stesso. Il mondo della finanza sta prendendo atto in
concreto di queste amare verità e, per conseguenza, sposta il discorso dal
deficit al debito: se riuscissimo ad abbattere il debito - come d’altronde ci
impone, nell’arco di vent’anni, il «patto fiscale» sottoscritto in sede europea
- si ridurrebbero molto gli interessi sul debito stesso e navigheremmo in acque
più tranquille. Nascono di qui gli studi e le proposte rese note in questi
giorni per ridurre sensibilmente il debito pubblico mediante la vendita di beni
di proprietà dello Stato e di altri enti…
…Infine, siamo proprio sicuri
di voler vendere gran parte del patrimonio pubblico? Come dice un vecchio
proverbio, «si vende una volta sola» e il depauperamento del patrimonio
nazionale sarebbe un’altra spoliazione delle generazioni giovani, già chiamate
a farsi carico del debito pensionistico. Occorre probabilmente decidere caso
per caso: mentre è difficile trovare serie obiezioni alla vendita di una parte
delle opere d’arte giacenti nei magazzini dei musei per finanziare il ministero
dei Beni Culturali, sempre a corto di fondi, meno sicura sarebbe l’opportunità
di disfarsi della quota pubblica dell’Eni, certamente molto appetibile sul
mercato, in quanto si tratta dell’unica grande impresa italiana rimasta a
carattere chiaramente globale e dal significato chiaramente strategico.
Probabilmente il bene patrimoniale più rapidamente disponibile è l’oro delle nostre riserve. Gli accordi internazionali ci permettono di metterne sul mercato solo piccole quantità ogni anno (pari all’incirca a uno-due miliardi di euro), ma il resto potrebbe essere dato in garanzia di una linea di credito con un ente internazionale per un pronto intervento in caso di spread troppo elevato, oppure per ricomprare una parte dei titoli di debito dagli interessi più costosi.…
Probabilmente il bene patrimoniale più rapidamente disponibile è l’oro delle nostre riserve. Gli accordi internazionali ci permettono di metterne sul mercato solo piccole quantità ogni anno (pari all’incirca a uno-due miliardi di euro), ma il resto potrebbe essere dato in garanzia di una linea di credito con un ente internazionale per un pronto intervento in caso di spread troppo elevato, oppure per ricomprare una parte dei titoli di debito dagli interessi più costosi.…
I beni da vendere appartengono a
quattro categorie. I beni culturali, e cioè i gioielli che rappresentano la
storia e il prestigio del nostro paese, luoghi spesso a disposizione di tutta
la popolazione. Beni che sono alla base di uno degli articoli fondamentali
della prima parte della Costituzione verranno svenduti senza remore: non ce lo
possiamo permettere più, secondo la religione dei professori. Vedremo che dirà
al riguardo il Presidente della Repubblica che in passato ha richiamato
all'intangibilità delle radici culturali dell'Italia.
Il secondo gruppo appartiene ai beni strumentali, cioè a tutte quelle proprietà che tuttora ospitano una funzione pubblica…
Il secondo gruppo appartiene ai beni strumentali, cioè a tutte quelle proprietà che tuttora ospitano una funzione pubblica…
…La svendita del patrimonio immobiliare pubblico non avrà
alcun effetto per far uscire il paese dalla crisi economica. Servirà a far
quadrare i bilanci di molti istituti di credito e fondi speculativi che a
parole si dice di combattere. E servirà a far arretrare le vite di coloro che
fin qui «hanno vissuto sopra le loro possibilità», come dice il professor
Monti. Obiettivo da raggiungere anche svendendo le radici del nostro paese.
…
2. Dove diavolo sono finiti i soldi?
Secondo Henry, il termine offshore non corrisponde più a un luogo fisico, nonostante una quantità di posti come Singapore e la Svizzera continuino a specializzarsi nel fornire ai ricchi di tutto il mondo «residenze fisiche sicure a bassa tassazione».
Ma oggi la ricchezza offshore è virtuale. Henry descrive «siti nominali, ultra-portatili, multi-giurisdizionali e spesso temporanei all'interno di reti di organizzazioni e accordi legali e semi-legali».
Una compagnia può essere ubicata all'interno di una giurisdizione, ma posseduta da un gruppo di aziende situato altrove e amministrata da un insieme di società in una località terza. «In definitiva il termine offshore si riferisce a un insieme di potenzialità» piuttosto che a un posto o a una serie di posti.
Il documento nota anche che è importante distinguere tra «paradisi intermedi«, cioè quei posti che la gente normalmente immagina quando pensa ai paradisi fiscali (come le Isole Cayman di Romney, le Bermuda e la Svizzera) e i «paradisi di destinazione», che includono Stati Uniti, Gran Bretagna e perfino Germania. Queste ultime sono destinazioni richieste, perché mettono a disposizione «mercati azionari efficienti e disciplinati, banche sostenute da un'ampia popolazione di contribuenti e compagnie d'assicurazione; sistemi legali ben sviluppati, avvocati competenti, sistemi giudiziari indipendenti, e il principio di legalità».
In altre parole la stessa gente che non paga le tasse spostando in giro il suo denaro approfitta, al fine di evadere, dei servizi finanziati dai contribuenti. E negli Stati Uniti alcuni Stati hanno cominciato, fin dagli anni Novanta, a fornire, a buon mercato, organizzazioni «il cui livello di segretezza e protezione nei confronti dei creditori e i cui vantaggi fiscali fanno concorrenza a quelli dei tradizionali paradisi fiscali offshore». Se a questo si aggiunge che i ricchi e le multinazionali negli Stati Uniti pagano sempre meno tasse, ne risulta che stiamo provando ad attirare quelli che stanno cercando nasconderci il denaro…
2. Dove diavolo sono finiti i soldi?
Secondo Henry, il termine offshore non corrisponde più a un luogo fisico, nonostante una quantità di posti come Singapore e la Svizzera continuino a specializzarsi nel fornire ai ricchi di tutto il mondo «residenze fisiche sicure a bassa tassazione».
Ma oggi la ricchezza offshore è virtuale. Henry descrive «siti nominali, ultra-portatili, multi-giurisdizionali e spesso temporanei all'interno di reti di organizzazioni e accordi legali e semi-legali».
Una compagnia può essere ubicata all'interno di una giurisdizione, ma posseduta da un gruppo di aziende situato altrove e amministrata da un insieme di società in una località terza. «In definitiva il termine offshore si riferisce a un insieme di potenzialità» piuttosto che a un posto o a una serie di posti.
Il documento nota anche che è importante distinguere tra «paradisi intermedi«, cioè quei posti che la gente normalmente immagina quando pensa ai paradisi fiscali (come le Isole Cayman di Romney, le Bermuda e la Svizzera) e i «paradisi di destinazione», che includono Stati Uniti, Gran Bretagna e perfino Germania. Queste ultime sono destinazioni richieste, perché mettono a disposizione «mercati azionari efficienti e disciplinati, banche sostenute da un'ampia popolazione di contribuenti e compagnie d'assicurazione; sistemi legali ben sviluppati, avvocati competenti, sistemi giudiziari indipendenti, e il principio di legalità».
In altre parole la stessa gente che non paga le tasse spostando in giro il suo denaro approfitta, al fine di evadere, dei servizi finanziati dai contribuenti. E negli Stati Uniti alcuni Stati hanno cominciato, fin dagli anni Novanta, a fornire, a buon mercato, organizzazioni «il cui livello di segretezza e protezione nei confronti dei creditori e i cui vantaggi fiscali fanno concorrenza a quelli dei tradizionali paradisi fiscali offshore». Se a questo si aggiunge che i ricchi e le multinazionali negli Stati Uniti pagano sempre meno tasse, ne risulta che stiamo provando ad attirare quelli che stanno cercando nasconderci il denaro…
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