mercoledì 31 agosto 2016

una lettera di Gino Melchiorre a Vito Biolchini

Il mio maestro di giornalismo Gino Melchiorre, reduce da alcuni scontri on line relativi ad una mostra in corso a Cagliari e intervenendo sul tema dei migranti accampati in piazza Matteotti, invia al blog questa interessantissima riflessione sui tempi che stiamo vivendo, sull'impatto che le tecnologie hanno nella creazione dell’opinione pubblica, sulla politica tornata in mano a gruppi familiari e sugli ostracismi che subiscono le persone che si permettono di criticare o dissentire. E la soluzione che propone mi sembra interessante. Il dibattito è aperto.
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Caro Vito,
i tuoi post sono sempre informati, argomentati e intelligenti. Qualità che, oggi, vengono guardate con grande sospetto. Perché a un giornalismo del genere uno non c’è più abituato. Forse è per questo che sei oggetto di campagne denigratorie che non entrano nel merito di quanto descrivi. Si limitano all’invettiva.
Vorrei aggiungere solo una nota (non di dissenso, ma di commento) a ciò che dici.
Tu parli di sinistra e destra come fossero entità distinte e legate a principi fondativi, noti e condivisi dagli associati. Non è così. Ormai destra e sinistra esistono solo come indicazioni stradali. Perché come partiti politici hanno “esaurito la loro funzione propulsiva”, come diceva quel tale.
Sono stati chiusi i luoghi associativi (vedi la sezione Lenin a Cagliari) in religioso silenzio, sono stati abiurati statuti, princìpi, scopi, vincoli ideali e simboli di appartenenza.
Alcuni pensano che siamo tornati agli anni ’50. Magari fosse. In realtà – come scrivi – siamo un po’ più indietro. Siamo alle famiglie. E nemmeno quelle tipo Guelfi/Ghibellini o Montecchi/Capuleti. che, nel bene e nel male, esprimevano una cultura civica fatta di conflitti, ma anche di capacità politica e amministrativa.
Oggi il conflitto funziona solo la mattina. Perché, al calar del sole, Guelfi e Ghibellini, bianchi e neri, rossini e verdini, si ritrovano tutti in pizzeria, alla Loggia, ad Arcore o al Nazareno. Per mettere a punto democratiche spartizioni di potere tramite alleanze variabili e tradimenti trasversali.
Niente di nuovo, certo: Dante era Guelfo di parte Bianca e si aspettava coltellate dalla fazione avversa. Invece è dai suoi colleghi di partito che gli arriva la condanna a morte. Ma lui, seppure dall’estero, ha avuto la possibilità di criticare quanto era accaduto e accadeva. Quei giudizi, redatti in forma di Cantiche (poveraccio, in mancanza di meglio era iscritto alla Corporazione degli Speziali) hanno prodotto un flusso ininterrotto di chiose e commenti. A volte non benevoli, ma sempre articolati e pertinenti. Non dei tweet del tipo: “Bello mio, sei un trombato invidioso. E pure ricchione. Lo sanno tutti che tutti sanno delle scappatelle in barca con Lapo e Guido. Lo ha detto anche Striscia la Notizia”.
Noi siamo andati molto avanti con l’estetica tecnologica. Ma per poterlo fare con maggiore celerità, siamo tornati indietro con l’etica e l’ecologia politica. È la società dello spettacolo. Il quale non è un granché, ma è quello che passa il convento. E ora è con Tweet e Like che si forma la nuova “pubblica opinione”. È la Società dello Spettacolo e la DPT (Democrazia Partecipativa Taroccata).
Perché, dagli incunaboli ai social, non è aumentata, come molti credono, la quantità di Informazione (intesa come evento talmente inedito e improbabile, da costringere l’utente a resettare il suo intero sistema di attese, di valori e di idee). È solo aumentato il numero degli strumenti di Comunicazione (intesi come formidabili diffusori di stronzate che, nella ripetizione, trovano autorevolezza, senso e consenso).
È la stessa democrazia taroccata che chiede al pensionato-elettore di dire se è favorevole alla scissione o alla fusione dell’atomo.
La cosa più curiosa è che “la situazione è drammatica ma non seria”. Perché il taroccamento è evidente e rozzo. E i tuoi post sono un buon contributo per il loro disvelamento e sputtanamento. Lo mostra il numero di quanti, per ragioni diverse, condividono il tuo punto di vista.
Ci sono ancora cospicue sacche di imbecillità? Ma certo: tra idraulici e intellettuali, tra giornalisti e palombari, tra conservatori di sinistra e progressisti di destra. Del resto, decenni di pensiero debole, di riduzione di ogni complessità a semplicità, e di Masanielli e Ciceruacchi, perché avrebbero dovuto colpire solo la casalinga di Voghera e risparmiare tutti gli altri? Decenni di Drive-in e di Amici di Maria, di “Capitali coraggiosi” e di “Abbiamo una banca”, di “Siamo tutti americani” e di “mi hanno pagato la casa a mia insaputa”, è normale che abbiano lasciato il segno.
Noi abbiamo fatto l’Italia a colpi di referendum popolari in cui, su cento cittadini, cinquanta non avevano diritto di voto, trenta non sapevano leggere e scrivere, e quindici erano pagati dagli agenti di Cavour. Gli altri cinque se ne fottevano beatamente.
Malgrado ciò abbiamo scritto una Carta costituzionale ottima e efficace. Perciò va cambiata. In modo che il 20% del 40% che va a votare, abbia il 100% del potere decisionale.
Abbiamo eletto liquidatori di aziende e corruttori di giudici a presidenti del Consiglio. E i commentatori più saggi e lungimiranti, invece di considerare la possibilità di spararsi una revolverata, spiegavano a Porta a Porta e a Ballarò che “non c’erano alternative”.
Allora siamo tutti vittime e insieme carnefici? Tutti innocenti perché ugualmente colpevoli? Siamo tutti nella stessa barca? Non proprio. Perché alcuni si sono rifiutati di andare a Porta a Porta a sparare cazzate: non sono stati sbarcati, ma solo messi a pane e acqua. Altri invece sono scesi a Saint Tropez e, aperitivo in mano, sollecitano a gran voce i galeotti in attesa di capire se la barca affonda o no.
Che fare? Non lo so. Credo che per il momento sia necessario resistere. E continuare a parlare e ascoltare chi è interessato a fare altrettanto. Ma credo che sia anche il momento di mandare educatamente affanculo chi pronuncia sintetici ostracismi e anatemi contro ogni critica o dissenso.
Perché – com’è noto – la Resistenza ha un limite.

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