La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
mercoledì 31 maggio 2017
Perché è la “guerra al terrorismo” che provoca attentati - Fulvio Scaglione
Confusione, dilettantismo, indecisione politica. Indagini a carico dei servizi
segreti, più segreti che capaci. E una generale sensazione di imbarazzo che fa
a pugni con l'orgoglio mostrato solo qualche giorno fa, quando Londra scagliava
aspre critiche sulla Casa Bianca, colpevole di non aver conservato con cura
certe informazioni sull'attentato di Manchester. Theresa May e il suo Governo cercano in queste ore di far credere di
avere tutto sotto controllo ma il loro sforzo è ormai quasi patetico. Salman
Abedi, il ragazzo di 22 anni che ha fatto strage nella Manchester Arena, era
ben noto per i suoi legami con gli ambienti dell'islam radicale. Di
più: era il rampollo di una famiglia il cui patriarca, Ramadan Abedi, era un
mlitante del Gruppo combattente islamico di Libia, una formazione anti-Gheddafi
legata ad Al Qaeda. Ramadan era tornato in Libia nel 2011 per combattere contro
il Rais e si era portato dietro il figlio, che anche in seguito era andato
avanti e indietro dalla Libia.
Tutto in segreto? Non troppo, visto che le autorità sapevano dei suoi
viaggi, sapevano
della sua radicalizzazione e peraltro ben conoscevano gli umori della comunità
libica di Fallowfield, a Sud di Manchester, dove tra gli altri aveva trovato
rifugio anche Abd al-Baset Azzouz, esperto di ordigni esplosivi e capo di un
gruppo di almeno 300 miliziani affiliato ad Al Qaeda e attivo in Libia.
La vicinanza con Azzouz potrebbe spiegare, tra l'altro, come mai un
terrorista pivello come Salman andasse in giro con un ordigno con un duplice
meccanismo d'innesco, studiato
per rendere certa la deflagrazione dell'esplosivo. Peccato che nessuno abbia
pensato di applicare agli Abedi il TEO (Temporary Exclusion Order), ovvero la
legge che dal 2015 consente di impedire il rientro nel Regno Unito a coloro che
sono sospettati di essere foreign
fighter. Legge che in
questi due anni è stata applicata una sola volta, come è stata costretta ad
ammettere Amber Rudd, ministro degli Interni, subito travolta dalle polemiche e
ormai a rischio di dimissioni forzate.
Salman
Abedi, il ragazzo di 22 anni che ha fatto strage nella Manchester Arena, era
ben noto per i suoi legami con gli ambienti dell'islam radicale
Tutto
questo, però, rappresenta alla perfezione ciò che noi occidentali da quasi 17
anni (cioè da quando George Bush junior la proclamò, il 20 settembre 2001)
chiamiamo“guerra al terrorismo”: un
informe e ipocrita pasticcio che ci ha portati ad avere sempre più attentati (tra
2014 e 2015 un più 18% negli attacchi suicidi), sempre più morti (cresciuti di nove volte tra 2000 e 2016) e sempre meno sicurezza.
Dopo tutto questo tempo, seguitiamo a chiamare “terrorista” chiunque
uccida civili.Sembra una
cosa sensata ma non lo è: c'è un'enorme differenza, infatti, tra il mattocchio
di Londra, che si lanciò con l'automobile sui passanti sul ponte di
Westminster, e il kamikaze di Manchester, che portava sulle spalle un ordigno
costruito da un professionista. La
stessa differenza che passa tra uno che viene mandato a uccidere dai propri
demoni interiori e uno che fa una strage su mandato e indicazione di menti
ferine ma lucide.
Noi
occidentali siamo ormai diventati incapaci di qualunque distinzione. Se avessimo conservato un minimo di
lucidità, capiremmo che contro il “lupo solitario” dalla mente deragliata c'è
poco che si possa fare, oltre a confidare nella professionalità
delle forze di polizia e dei servizi sanitari. Mentre c'è molto che si può ancora fare contro le azioni dei
professionisti del terrore, quelli capaci di trovare uno squilibrato,
trasformarlo in un kamikaze e lanciarlo in mezzo alla folla con una bomba che
nessuno può disinnescare.
È questo il terrorismo di cui dovremmo avere paura, è questo il
terrorismo che si può combattere e neutralizzare, come proprio il “caso
Manchester” e la storia di Salman Abedi dimostrano. E la prima cosa da fare
sarebbe tagliare le sue linee di rifornimento. Viene però il sospetto che anche la confusione
abbia un suo scopo. Trasformare il terrorismo in una notte in cui tutti i gatti
sono bigi può egregiamente servire a non spiegare perché, dopo tanti lutti e
tanti lamenti, seguitiamo a coccolare i Paesi che sono in prima fila nel
finanziamento e nel sostegno ai terroristi.
La guerra al terrorismo”: un informe e ipocrita pasticcio che ci ha
portati ad avere sempre più attentati
Qualche
esempio. Che senso ha che il G7
concluda che serve un maggiore scambio di informazioni tra i Paesi membri per
combattere gli attentatori se Donald Trump, appena prima di firmare
quell'impegno, ha rovesciato sull'Arabia Saudita, che con il Qatar è uno dei
grandi sponsor della violenza islamista, un fiume di armi che andranno ad alimentare, appunto, anche il terrorismo? Che
senso ha che Theresa May si impegni a garantire la sicurezza del
proprio Paese se l'industria degli armamenti del Regno Unito ha come primo
cliente proprio quell'Arabia Saudita di cui abbiamo appena detto? Se ci sono
più di 120 joint venture anglo-saudite che fatturano centinaia di miliardi di
sterline l'anno? A che servono
tutte le dichiarazioni se poi le azioni politiche concrete vanno in senso
contrario?
Ecco, forse
tutta quella confusione in merito a terroristi e terrorismo serve proprio a questo. A non far capire ai cittadini spaventati che
se si è il migliore amico del migliore amico dei terroristi, la guerra al
terrorismo te la puoi scordare.
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2 giugno A Foras Fest - Die contra a s'ocupatzione militare - Corteo + Concerto
A Foras Fest - Die contra a s'ocupatzione militare. Corteo +
Concerto. Ore 10.30 partenza corteo da parcheggi Marina Piccola fino a Piazza
dei Centomila. Ore 15.00 inizio concerto al Cole San Michele. Tante ore di
musica, arte e informazione.
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A Foras è un’assemblea nata il 2 giugno del 2016 a Bauladu, composta da comitati, collettivi, associazioni, realtà politiche e individui che si oppongono all’occupazione militare della Sardegna. È una realtà antifascista, anticolonialista, antirazzista, antiomofoba e antisessista. A Foras è un’assemblea orizzontale, aperta e inclusiva che lotta per il blocco delle esercitazioni, la completa dismissione dei poligoni sardi, il risarcimento delle popolazioni da parte di chi ha inquinato e la bonifica dei territori compromessi. Tutti questi obiettivi si possono raggiungere solo attraverso la creazione di un movimento unitario, popolare e di massa, radicato in tutta la Sardegna, e con la solidarietà attiva di tutti gli altri movimenti e comitati locali di lotta, sardi e non, che si battono per l’autodeterminazione dei popoli.
Nell’arco del suo primo anno, l’Assemblea di A Foras ha promosso diverse iniziative, dalle manifestazioni presso i poligoni di Capo Frasca (23 novembre 2016) e Quirra (28 aprile scorso), alle presentazioni del dossier sul Poligono di Quirra, fino alle assemblee informative nelle piazze, nei paesi, nelle città, nelle università e soprattutto nelle scuole.
Per portare avanti questi diversi percorsi, A Foras si è strutturata in sei gruppi di lavoro, nati durante il primo A Foras Camp, svolto a Lanusei nel settembre 2016. Oltre al gruppo di lavoro sulla comunicazione, è stato creato un gruppo che studia gli effetti delle basi sull’economia dei diversi territori, un altro dedicato alla storia del movimento sardo contro l’occupazione militare e al contesto geopolitico internazionale. Altri due gruppi portano avanti il lavoro rispettivamente nelle scuole e nelle università. Infine è attivo un gruppo tematico sulla RWM Italia, la fabbrica di bombe di Domusnovas.
L’ultima manifestazione promossa da A Foras per il 28 aprile, Sa Die de sa Sardigna contra a s’ocupatzione militare, che prevedeva un corteo nei pressi del Poligono di Quirra, è stata ostacolata con qualsiasi mezzo possibile dalla Questura di Cagliari (forte anche del recente Decreto Minniti), con minacce, intimidazioni e infine col divieto di manifestare e il blocco di tutti i presenti entro due cordoni di celerini.
Crediamo sia necessario rispondere con la solidarietà a questo e a tutti gli attacchi repressivi che negli ultimi anni ha subito il movimento contro l’occupazione militare della Sardegna, rilanciando e sostenendo tutte le iniziative utili al raggiungimento degli obiettivi.
In questo momento è più che mai necessaria una risposta unitaria e popolare, che rilanci il tema cruciale della dismissione delle basi militari con una grande mobilitazione di massa. Per questo A Foras si rivolge a tutte e tutti i sardi, oltre che ai solidali al di fuori della nostra isola, a singoli e organizzazioni, movimenti, comitati e associazioni che condividono l’obiettivo della liberazione della Sardegna dall’occupazione militare e in generale dalla filiera bellica.
Venerdì 2 giugno, a un anno esatto dalla nascita di A Foras, si vuole capovolgere la festa della repubblica italiana e farne una giornata nella quale il popolo sardo lancia un grido contro quello stesso Stato che ha imposto unilateralmente il 66% di servitù militari dell’intero territorio italiano sulla Sardegna. Un grido contro lo Stato italiano, la NATO, gli altri eserciti stranieri e le multinazionali che operano ogni giorno nella nostra terra per trarre profitto dall’industria bellica.
La giornata del 2 giugno si svolgerà all’indomani dell’ennesima mega esercitazione imposta dall’alto e che questa volta riguarda le acque del sud Sardegna: “Mare aperto 2017”. Il pericolosissimo precedente creato da questa esercitazione sta nell’appropriarsi di ulteriori specchi d’acqua, non soggetti a servitù durante l’anno. Non solo ogni anno la Sardegna subisce lo scippo di oltre 35 mila ettari di terra di proprietà del demanio militare, ma con l’operazione “Mare aperto”, nell’assoluto silenzio del governo regionale, si è verificata un’ulteriore usurpazione della nostra isola, che è a disposizione per i giochi di guerra di eserciti di tutto il mondo.
Per rispondere in maniera decisa e unitaria a questa e a tutte le altre esercitazioni, per continuare il percorso che porterà il popolo sardo a liberarsi da basi militari e fabbriche di bombe, a riappropriarsi della terra, del mare e dell’aria e ad autodeterminarsi, per rilanciare un’economia etica e sostenibile, alternativa alla filiera bellica, per pretendere le bonifiche dei territori danneggiati e il risarcimento di tutti i danni subiti, diamo appuntamento a tutte e tutti il 2 giugno a Cagliari per A FORAS FEST – DIE CONTRA A S’OCUPATZIONE MILITARE.
Per questa giornata simbolica, A Foras sceglie Cagliari, dove intende tenere annualmente questo appuntamento come giornata di tutti coloro che si riconoscono in questi obiettivi. Sarà una giornata di informazione e di festa, articolata in due momenti fondamentali, il corteo e il concerto.
Il CORTEO sfilerà colorato da centinaia di bandiere sarde per le principali strade di Cagliari, partendo alle 10:30 da Marina Piccola, per arrivare fino in Piazza dei Centomila.
Dal pomeriggio, a partire dalle 15:00, l’appuntamento è al Colle di S. Michele, per un grande CONCERTO di autofinanziamento, dove si alterneranno oltre 10 gruppi musicali, con l’intervento di diversi altri artisti che sostengono A FORAS e che hanno condiviso l’appello. Anche attraverso la musica si vuole rappresentare la varietà e molteplicità delle componenti di A Foras: saranno presenti diversi generi musicali (progressive, jazz, rap, hip hop, folk e canzone d’autore) e diverse generazioni di artisti, non solo sardi. Tra i nomi che si alterneranno sul palco: Patrizio Fariselli, Enzo Favata, i Menhir, Futta, Claudia Crabuzza, Nicola di Banari, il coro Tenore Luisu Ozzanu, Slim Fit, Dr. Drer & Crc Posse.
Durante il concerto saranno proiettati diversi contributi video e si ascolteranno testimonianze e contributi dai diversi territori e realtà che compongono A Foras. Sarà inoltre allestita una mostra dell’artigianato e delle autoproduzioni locali, che rappresentano un piccolo esempio di economie etiche e sostenibili a partire dalle quali crediamo si debba ripartire dopo la dismissione di tutti i poligoni.
Come per le precedenti occasioni, si invitano tutte le realtà locali ad organizzare trasporti in comune e a darne comunicazione all’organizzazione di A Foras che rilancerà attraverso tutti i suoi canali di comunicazione.
Email: aforasinfo@gmail.com
Facebook: www.facebook.com/ aforas2016
Twitter: @aforasnews
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A Foras è un’assemblea nata il 2 giugno del 2016 a Bauladu, composta da comitati, collettivi, associazioni, realtà politiche e individui che si oppongono all’occupazione militare della Sardegna. È una realtà antifascista, anticolonialista, antirazzista, antiomofoba e antisessista. A Foras è un’assemblea orizzontale, aperta e inclusiva che lotta per il blocco delle esercitazioni, la completa dismissione dei poligoni sardi, il risarcimento delle popolazioni da parte di chi ha inquinato e la bonifica dei territori compromessi. Tutti questi obiettivi si possono raggiungere solo attraverso la creazione di un movimento unitario, popolare e di massa, radicato in tutta la Sardegna, e con la solidarietà attiva di tutti gli altri movimenti e comitati locali di lotta, sardi e non, che si battono per l’autodeterminazione dei popoli.
Nell’arco del suo primo anno, l’Assemblea di A Foras ha promosso diverse iniziative, dalle manifestazioni presso i poligoni di Capo Frasca (23 novembre 2016) e Quirra (28 aprile scorso), alle presentazioni del dossier sul Poligono di Quirra, fino alle assemblee informative nelle piazze, nei paesi, nelle città, nelle università e soprattutto nelle scuole.
Per portare avanti questi diversi percorsi, A Foras si è strutturata in sei gruppi di lavoro, nati durante il primo A Foras Camp, svolto a Lanusei nel settembre 2016. Oltre al gruppo di lavoro sulla comunicazione, è stato creato un gruppo che studia gli effetti delle basi sull’economia dei diversi territori, un altro dedicato alla storia del movimento sardo contro l’occupazione militare e al contesto geopolitico internazionale. Altri due gruppi portano avanti il lavoro rispettivamente nelle scuole e nelle università. Infine è attivo un gruppo tematico sulla RWM Italia, la fabbrica di bombe di Domusnovas.
L’ultima manifestazione promossa da A Foras per il 28 aprile, Sa Die de sa Sardigna contra a s’ocupatzione militare, che prevedeva un corteo nei pressi del Poligono di Quirra, è stata ostacolata con qualsiasi mezzo possibile dalla Questura di Cagliari (forte anche del recente Decreto Minniti), con minacce, intimidazioni e infine col divieto di manifestare e il blocco di tutti i presenti entro due cordoni di celerini.
Crediamo sia necessario rispondere con la solidarietà a questo e a tutti gli attacchi repressivi che negli ultimi anni ha subito il movimento contro l’occupazione militare della Sardegna, rilanciando e sostenendo tutte le iniziative utili al raggiungimento degli obiettivi.
In questo momento è più che mai necessaria una risposta unitaria e popolare, che rilanci il tema cruciale della dismissione delle basi militari con una grande mobilitazione di massa. Per questo A Foras si rivolge a tutte e tutti i sardi, oltre che ai solidali al di fuori della nostra isola, a singoli e organizzazioni, movimenti, comitati e associazioni che condividono l’obiettivo della liberazione della Sardegna dall’occupazione militare e in generale dalla filiera bellica.
Venerdì 2 giugno, a un anno esatto dalla nascita di A Foras, si vuole capovolgere la festa della repubblica italiana e farne una giornata nella quale il popolo sardo lancia un grido contro quello stesso Stato che ha imposto unilateralmente il 66% di servitù militari dell’intero territorio italiano sulla Sardegna. Un grido contro lo Stato italiano, la NATO, gli altri eserciti stranieri e le multinazionali che operano ogni giorno nella nostra terra per trarre profitto dall’industria bellica.
La giornata del 2 giugno si svolgerà all’indomani dell’ennesima mega esercitazione imposta dall’alto e che questa volta riguarda le acque del sud Sardegna: “Mare aperto 2017”. Il pericolosissimo precedente creato da questa esercitazione sta nell’appropriarsi di ulteriori specchi d’acqua, non soggetti a servitù durante l’anno. Non solo ogni anno la Sardegna subisce lo scippo di oltre 35 mila ettari di terra di proprietà del demanio militare, ma con l’operazione “Mare aperto”, nell’assoluto silenzio del governo regionale, si è verificata un’ulteriore usurpazione della nostra isola, che è a disposizione per i giochi di guerra di eserciti di tutto il mondo.
Per rispondere in maniera decisa e unitaria a questa e a tutte le altre esercitazioni, per continuare il percorso che porterà il popolo sardo a liberarsi da basi militari e fabbriche di bombe, a riappropriarsi della terra, del mare e dell’aria e ad autodeterminarsi, per rilanciare un’economia etica e sostenibile, alternativa alla filiera bellica, per pretendere le bonifiche dei territori danneggiati e il risarcimento di tutti i danni subiti, diamo appuntamento a tutte e tutti il 2 giugno a Cagliari per A FORAS FEST – DIE CONTRA A S’OCUPATZIONE MILITARE.
Per questa giornata simbolica, A Foras sceglie Cagliari, dove intende tenere annualmente questo appuntamento come giornata di tutti coloro che si riconoscono in questi obiettivi. Sarà una giornata di informazione e di festa, articolata in due momenti fondamentali, il corteo e il concerto.
Il CORTEO sfilerà colorato da centinaia di bandiere sarde per le principali strade di Cagliari, partendo alle 10:30 da Marina Piccola, per arrivare fino in Piazza dei Centomila.
Dal pomeriggio, a partire dalle 15:00, l’appuntamento è al Colle di S. Michele, per un grande CONCERTO di autofinanziamento, dove si alterneranno oltre 10 gruppi musicali, con l’intervento di diversi altri artisti che sostengono A FORAS e che hanno condiviso l’appello. Anche attraverso la musica si vuole rappresentare la varietà e molteplicità delle componenti di A Foras: saranno presenti diversi generi musicali (progressive, jazz, rap, hip hop, folk e canzone d’autore) e diverse generazioni di artisti, non solo sardi. Tra i nomi che si alterneranno sul palco: Patrizio Fariselli, Enzo Favata, i Menhir, Futta, Claudia Crabuzza, Nicola di Banari, il coro Tenore Luisu Ozzanu, Slim Fit, Dr. Drer & Crc Posse.
Durante il concerto saranno proiettati diversi contributi video e si ascolteranno testimonianze e contributi dai diversi territori e realtà che compongono A Foras. Sarà inoltre allestita una mostra dell’artigianato e delle autoproduzioni locali, che rappresentano un piccolo esempio di economie etiche e sostenibili a partire dalle quali crediamo si debba ripartire dopo la dismissione di tutti i poligoni.
Come per le precedenti occasioni, si invitano tutte le realtà locali ad organizzare trasporti in comune e a darne comunicazione all’organizzazione di A Foras che rilancerà attraverso tutti i suoi canali di comunicazione.
Email: aforasinfo@gmail.com
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martedì 30 maggio 2017
La cortesia dei non vedenti - Wislawa Szymborska
La cortesia dei non vedenti - Wislawa Szymborska
Il
poeta legge le poesie ai non vedenti.
Non pensava fosse così difficile.
Gli trema la voce.
Gli tremano le mani.
Sente che ogni frase
è qui messa alla prova dell'oscurità.
Dovrà cavarsela da sola,
senza luci e colori.
Un'avventura rischiosa
per le stelle dei suoi versi,
e l'aurora, l'arcobaleno, le nuvole, i neon, la luna,
per il pesce finora così argenteo sotto il pelo dell'acqua,
e per lo sparviero, così alto e silenzioso nel cielo.
Legge - perché ormai è troppo tardi per non farlo-
del ragazzo con la giubba gialla in un prato verde,
dei tetti rossi, che puoi contare, nella valle,
dei numeri mobili sulle maglie dei giocatori
e della sconosciuta nuda sulla porta schiusa.
Vorrebbe tacere - benché sia impossibile-
di tutti quei santi sulla volta della cattedrale,
di quel gesto d'addio al finestrino del treno,
di quella lente del microscopio e del guizzo di luce dell'anello
e degli schermi e degli specchi e dell'album dei ritratti.
Ma grande è la cortesia dei non vedenti,
grande la comprensione e la generosità.
Ascoltano, sorridono e applaudono.
Uno di loro persino si avvicina
con il libro aperto alla rovescia,
chiedendo un autografo che non vedrà.
Non pensava fosse così difficile.
Gli trema la voce.
Gli tremano le mani.
Sente che ogni frase
è qui messa alla prova dell'oscurità.
Dovrà cavarsela da sola,
senza luci e colori.
Un'avventura rischiosa
per le stelle dei suoi versi,
e l'aurora, l'arcobaleno, le nuvole, i neon, la luna,
per il pesce finora così argenteo sotto il pelo dell'acqua,
e per lo sparviero, così alto e silenzioso nel cielo.
Legge - perché ormai è troppo tardi per non farlo-
del ragazzo con la giubba gialla in un prato verde,
dei tetti rossi, che puoi contare, nella valle,
dei numeri mobili sulle maglie dei giocatori
e della sconosciuta nuda sulla porta schiusa.
Vorrebbe tacere - benché sia impossibile-
di tutti quei santi sulla volta della cattedrale,
di quel gesto d'addio al finestrino del treno,
di quella lente del microscopio e del guizzo di luce dell'anello
e degli schermi e degli specchi e dell'album dei ritratti.
Ma grande è la cortesia dei non vedenti,
grande la comprensione e la generosità.
Ascoltano, sorridono e applaudono.
Uno di loro persino si avvicina
con il libro aperto alla rovescia,
chiedendo un autografo che non vedrà.
Musica per la libertà - Luigi Perelli
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La dittatura ‘democratica’ dei potenti - Raúl Zibechi
Ci mancano
le idee. La mente non pensa con l’informazione
bensì con le idee, come precisa Fritjof Capra in La rete della vita. Nella tremenda
transizione/tormenta in cui viviamo, abbiamo
bisogno di lucidità e di organizzazione per capire quello che succede e per
costruire le vie d’uscita.Quando la realtà si fa più complessa e la
percezione si intorbidisce, una caratteristica delle tormente sistemiche,
rendere nitido lo sguardo è un passo ineludibile e vitale.
Per questo ci riempiono di informazione spazzatura,
perché contribuisce a potenziare la confusione. È in questo senso che i media
giocano un ruolo sistemico che consiste nel deviare l’attenzione, far sì che le
cose importanti e decisive abbiano un rilievo identico a quelle più
superficiali(un incidente stradale ha maggior copertura che il caos
climatico) e trattano i temi seri come se fossero una partita di calcio.
Como
sappiamo, ci sono quelli che pensano che non sono in corso maggiori
cambiamenti, che la tormenta sistemica è una crisi passeggera, dopo la quale
tutto riprenderà il suo corso normale. Però noi, los
e abajo, dobbiamo acuire i sensi, rilevare i suoni e i movimenti
impercettibili, perché le nostre vite sono a rischio e qualsiasi distrazione
può avere conseguenze disastrose. Noi non abbiamo assicurazioni sulla
vita né guardie private come los de arriba.
.
Lo storico
francese Emmanuel Todd riflette sulle
elezioni nel suo paese, con analisi davvero interessanti. La
prima, è che da diversi decenni
esistono settori di forze sociali stabili, che permettono di garantire che la
società sia divisa in due metà e che questa divisione permanga quasi
inalterata.
In secondo
luogo, si chiede perché nello scorso quarto di secolo, il rifiuto verso il
modello neoliberale non è cresciuto (in Europa), malgrado l’aumento della
disoccupazione e il fallimento dell’euro. Todd
fa un’analisi della popolazione, un dato strutturale che gli analisti tendono a
minimizzare. In Francia, dal 1992, la popolazione è invecchiata
fino a sei anni e, di fatto, gli anziani “hanno perso il diritto di voto”,
perché un’uscita dall’euro abbatterebbe le loro pensioni.
La seconda
questione che Todd considera è la
stratificazione educativa. Ne conclude che “le persone con studi
superiori hanno prodotto una oligarchia di massa” e che questa élite è passata
dal 12 per cento della popolazione nel 1992 al 25 per cento di oggi, cioè in
soli 25 anni. La conclusione fa sussultare: una
popolazione invecchiata aggiunta a una maggior “massa oligarchica” sfocia in un
crescente conformismo della metà della popolazione, mentre l’altra metà, quella de
abajo, si è considerevolmente deteriorata dal trattato di
Maastricht del 1992.
Quando Marx
scrive il Manifesto comunista, il
rapporto tra los de abajo e los de arriba era di nove a uno. Non c’erano
pensioni per gli anziani e l’università era riservata alle élite. Era un
sistema instabile, che il 90 per cento della gente aveva interesse ad
abbattere.
I due cambiamenti menzionati da Todd (demografia ed
educazione superiore) rappresentano mutamenti profondi per noi che aspiriamo a
trasformare il mondo. Tuttavia
nel 1960 abbondavano gli universitari come il Che, disposti a
usare le proprie conoscenze assieme agli oppressi. Il sistema ha saputo capire
che tra i giovani universitari c’era un punto debole e ha preso provvedimenti.
Adesso i
docenti di quel livello guadagnano fortune: in diversi paesi fino a 30 volte il
salario minimo (nazionale, ndr). Gli studenti
beneficiano di borse di studio che consentono loro di allungare gli studi di
post-laurea fino a sfiorare i 40 anni e poi aspirano a fare il loro ingresso
nella élite universitaria. Nell’immaginario collettivo, la scalata sociale
passa dagli studi superiori ai quali si dedica buona parte della vita.
Tre decenni fa (in Marx e il sottosviluppo), Immanuel Wallerstein sosteneva che sotto
il capitalismo la classe alta era passata dall’1 al 20 per cento della
popolazione mondiale. Per l’”oligarchia di massa”, che presume Todd, la cifra
può adesso avvicinarsi al 25 per cento. In América Latina
le cifre vanno attenuate, però stiamo andando in quella direzione.
Può essere che stiamo rasentando la “dominazione perfetta”: società divise in parti quasi uguali, tra quelli che hanno bisogno di far saltare il banco e quelli che temono qualsiasi cambiamento. Una metà conformista e l’altra metà sopraffatta dalla Quarta guerra mondiale (secondo la definizione della tormenta cara agli zapatisti, ndr). Al di sopra di entrambe, sta l’1 per cento che controlla il potere statale, quello materiale e le democrazie elettorali.
Può essere che stiamo rasentando la “dominazione perfetta”: società divise in parti quasi uguali, tra quelli che hanno bisogno di far saltare il banco e quelli che temono qualsiasi cambiamento. Una metà conformista e l’altra metà sopraffatta dalla Quarta guerra mondiale (secondo la definizione della tormenta cara agli zapatisti, ndr). Al di sopra di entrambe, sta l’1 per cento che controlla il potere statale, quello materiale e le democrazie elettorali.
“Man mano
che si espandono le dimensioni del gruppo che sta in cima, via via che rendiamo
sempre più uguali tra loro nei loro diritti politici i membri del gruppo che
sta in cima, diventa possibile estrarre sempre di più da los de abajo”, scrive Wallerstein in Dopo il liberalismo. E aggiunge
che “un paese per metà libero e per metà
schiavo, può sì durare molto tempo”.
.
Le conseguenze di questi cambiamenti dovrebbero
portarci a trarre alcune conclusioni “strategiche”.
Uno, la democrazia si consolida in quel settore che non vuole destabilizzare
il sistema, mentre l’altra metà non si sente rappresentata. La democrazia elettorale ha senso per la
metà de arriba, ma è una prigione per los de abajo.
Due, per la metà diseredata della
popolazione, l’attuale disegno del capitalismo è una realtà oppressiva, poiché
le politiche sociali mirate tendono a neutralizzare e a dividere quelli che
avrebbero bisogno di sollevarsi contro il sistema.
I partiti di
centro-sinistra raccolgono le aspirazioni, e le paure, di quella metà della
popolazione che vuole solamente cambiamenti cosmetici e il cui esclusivo
esercizio politico è votare ogni cinque o sei anni e assistere ai meeting per
applaudire i suoi caudillos.
La metà de abajo non può aver
fiducia in un sistema politico che funziona come una “dittatura democratica”. Wallerstein continua così: “Un
struttura politica con libertà totale per la metà de arriba può essere la forma più oppressiva che
si possa immaginare per la metà de abajo”.
Quelli che vivono nella zona del non-essere, nelle parole di Fanon, sono quelli che resistono e costruiscono
altri mondi, per mera necessità di sopravvivere. Ma sono bombardati
dalla fantasia secondo la quale possono cambiare il proprio destino senza
rompere il sistema.
(Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo La dictadura “democrática” de los poderosos
Traduzione per Comune: Daniela Cavallo)
lunedì 29 maggio 2017
La storia dei tre eroi di Portland
Venerdì 26 maggio due uomini sono stati
accoltellati e uccisi su un treno a Portland, in Oregon, mentre cercavano di
intervenire contro un altro passeggero che gridava insulti anti-islamici verso
due giovani donne. Un terzo uomo coinvolto nella difesa delle due adolescenti è
stato gravemente ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale. L’aggressore
si chiama Jeremy Joseph Christian, ha 35 anni, e comparirà per la prima udienza
in tribunale domani, martedì 30 maggio. Nel frattempo, più di 600 mila dollari
sono stati raccolti e messi a disposizione delle famiglie dei tre difensori
che, sui giornali sono definiti degli “eroi”. Il sindaco di Portland, il
governatore dell’Oregon ma anche altre importanti figure politiche come Hillary
Clinton hanno commentato questa storia, mentre non lo ha fatto il presidente
degli Stati Uniti Donald Trump.
Nel pomeriggio di venerdì due ragazze di 16 e 17 anni, una delle
quali indossava un hijab, hanno preso un treno a Portland. Appena salite sul
loro vagone l’uomo successivamente identificato come Jeremy Joseph Christian ha iniziato a pronunciare delle frasi razziste contro di loro dicendo ad
esempio, secondo i testimoni, che tutti i musulmani sono dei «criminali». Ha
detto loro di «scendere dal treno» e di andarsene dal paese, «perché qui non
pagate le tasse». A quel punto alcuni passeggeri sono intervenuti in difesa
delle ragazze e sono stati aggrediti con un coltello. Taliesin Myrddin
Namkai-Meche, un ragazzo di 23 anni da poco laureato in economia, e Ricky John
Best, 53 anni, padre di quattro figli ed ex soldato sono morti: il primo mentre
veniva trasportato in ospedale, il secondo sul colpo, dopo essere stato ferito
da Christian. Un terzo uomo di 21 anni, Micah David-Cole Fletcher, è stato
invece colpito al collo ed è attualmente ricoverato in ospedale, ma non è in
pericolo di vita. Apparentemente inconsapevoli di quanto gravemente feriti
fossero gli uomini che le avevano difese, le due ragazze sono scappate
terrorizzate dal treno e hanno telefonato alla madre di una di loro. Anche
Jeremy Joseph Christian ha cercato di fuggire, ma è stato arrestato poco dopo
essere sceso dal treno.
Il sergente Pete Simpson, portavoce della
polizia di Portland, ha detto che non si sa ancora se l’aggressore «abbia
problemi di salute mentale o se fosse sotto l’effetto di droghe o alcol». Su di
lui non ci sono molti dettagli: si sa che ha 35 anni, che è di Portland, e una
sua fotografia è stata diffusa dalla polizia dopo l’arresto.
Giornali e tv locali hanno scritto che la
pagina Facebook di Christian aveva dei contenuti razzisti e estremisti, altri
hanno detto che era un «noto suprematista bianco», altri ancora che aveva
recentemente partecipato a una marcia di estrema destra. La polizia si è però
finora rifiutata di condividere i dettagli della sua storia. Il sindaco di
Portland Ted Wheeler ha detto che le «azioni coraggiose e disinteressate» dei
tre uomini «dovrebbero servire da esempio e ispirazione per tutti noi». Ha
anche aggiunto che «l’attuale clima politico offre molto spazio a coloro che
diffondono fanatismo». La madre di uno degli uomini uccisi lo ha definito
«un eroe», così come la madre di una delle ragazze aggredite, che ha anche
parlato pubblicamente ringraziando le tre persone che le hanno salvato la vita.
Nello scorso fine settimana, in onore dei tre
difensori c’è stata una veglia a cui hanno partecipato circa mille persone e a
loro sono stati dedicati molti tributi online. Il tweet del giornalista di un
giornale locale, in cui chiedeva a Donald Trump di fare qualche commento
sull’attacco, è stato condiviso più di 4.000 volte. E il giornalista veterano
di guerra Dan Rather ha scritto una lettera aperta al presidente degli Stati
Uniti condivisa più di 100.000 volte su Facebook in cui gli chiede di parlare
della morte dei due uomini: «Due americani sono morti lasciando famiglia e
amici. Sono compianti da milioni di persone che sono anche profondamente
preoccupate di ciò che potrebbe avvenire nel futuro
da qui o da
qui
Allargare lo sguardo oltre l’orizzonte - Guido Viale
Per noi europei la principale conseguenza dello
sfruttamento delle risorse, della devastazione ambientale e soprattutto dei
cambiamenti climatici in corso non sono fenomeni di ordine ambientale o
metereologico, che pure non mancano, ma è il
flusso di profughi e migranti che cercano rifugio in Europa dopo aver
abbandonato territori che non offrono loro più alcuna possibilità di
sopravvivenza o di futuro. Fatichiamo a rendercene conto perché continuiamo a
ignorare la gravità del degrado ambientale che ha investito i paesi di origine
di quei flussi, ma anche perché il rapporto tra degrado ambientale ed emigrazione
non è quasi mai diretto. Quando l’habitat di una comunità non è più in grado di
sostenerne tutti i membri è facile che scoppino conflitti armati per il
controllo di risorse sempre più scarse e contese, che possono esplodere in
stragi di massa. Per questo distinguere tra
profughi di guerra, profughi ambientali e “migranti economici” è praticamente
impossibile.
Inoltre, prima di prendere la strada per l’Europa le comunità colpite da un
forte degrado ambientale o da un conseguente conflitto si spostano innanzitutto
verso territori vicini, nella speranza di poter fare ritorno al loro paese il
più presto possibile. Di questi profughi e sfollati l’Africa e il Medio Oriente
ne contano ormai milioni: ben più di quelli che i Governi dell’Unione Europea
considerano alla stregua di un’invasione. Ma accanto a questi processi di
massa, le modalità di espatrio di coloro che imboccano il cammino verso
l’Europa sono in genere selettive: lo affrontano per lo più solo i membri più
giovani e più intraprendenti di una comunità; spesso sono anche i più istruiti
e a volte i meno poveri, quelli che possono permettersi il costo altissimo di un viaggio condotto tra rischi mortali e feroci
violenze. Il loro scopo è soprattutto guadagnare per contribuire al sostentamento
della famiglia di origine. Ma all’origine di quel viaggio c’è sempre un degrado
ambientale che precede o segue un conflitto.
L’Italia si trova per questo al centro di una regione
euro-afro-mediterranea che va dal Portogallo all’Ucraina e alla Siria e dalla
Svezia alla Nigeria e alla Somalia. A unificare tutti questi paesi sono, da un
lato, le politiche economiche e militari adottate o condivise dall’Unione
Europea; o il riflesso di queste politiche sui paesi che le subiscono
direttamente o indirettamente. Dall’altro lato, sono la presenza irreversibile,
nel cuore del continente, di cittadini e residenti di origine straniera che
provengono dai territori periferici di questa regione e il flusso dei profughi,
di guerra, economici, e soprattutto ambientali che lo sta investendo. Che è,
ben più delle politiche economiche, il principale elemento intorno a cui si
stanno ridisegnando gli schieramenti politici nel cuore dell’Europa, e anche al
di fuori di essa: accogliere o respingere? E come? E a che prezzo?
L’Italia è al centro di questa regione euro-afro-mediterranea sia perché è
uno dei paesi europei che risente di più le conseguenze negative delle
politiche economiche adottate dall’Unione Europea, sia perché è ormai il
principale punto di approdo dei flussi di profughi alla cui origine concorrono
molto anche queste politiche. Sono flussi i cui oneri la maggioranza dei paesi
dell’Unione Europea è ben intenzionata a scaricare sul nostro paese, che
rischia così tra non molto di assolvere, per conto dell’Unione Europea, allo
stesso ruolo che oggi il Governo italiano e l’Unione stanno cercando di
assegnare alla Libia: quello di carceriere dei profughi che sbarcano sulle
nostre coste.
I governi italiani hanno cercato di eludere per anni la centralità dei
problemi che nascono da questa collocazione geografica e da questi due
processi, economico e migratorio, intrecciati tra loro ben più di quanto finora
evidenziato. E hanno soprattutto cercato di eludere il compito di mettere i
cittadini italiani e i propri partner europei di fronte agli scenari che
possono derivare dall’attuale inerzia, adottando palliativi estemporanei e
contraddittori, divisi tra pulsioni
securitarie, ricalcate su quelle delle destre xenofobe, ancorché avvolte in un
ipocrita linguaggio umanitario e interventi di salvataggio, accoglienza e custodia mal progettati, mal gestiti e mal tollerati.
Di fronte a parole, decisioni e pretese sempre più ciniche e feroci, non si
può continuare ad affrontare giorno per giorno, da posizioni difensive, il
conflitto tra accogliere e respingere. Non è un confronto ad armi pari: gli uni
possono riversare ogni giorno il loro veleno da tutti i teleschermi del paese;
gli altri, per far sapere che esistono, che stanno lavorando e continueranno a
farlo, hanno dovuto riunirsi in centinaia di migliaia per le strade di
Barcellona e di Milano. Ma occorre ora affrontare la dimensione globale del
problema, di cui questa contrapposizione è solo la manifestazione più
eclatante. E bisogna affrontarla guardando agli scenari che si prospettano di
qui a qualche anno o decennio.
L’unico riferimento fatto da Renzi ai problemi che le politiche di
austerità e la chiusura delle frontiere tra il resto dell’Unione Europea e
l’Italia pone al nostro paese è stato usare il tema dei profughi per strappare
alla Commissione Europea qualche decimo di punto di deficit in più e promettere
ai suoi elettori di “picchiare i pugni sul tavolo” a Bruxelles (ma questo era
già un refrain, anche cantato, dei 5stelle); poi minacciare di
non pagare più il contributo italiano al bilancio dell’Unione se non vengono
attuate le previste ricollocazioni dei profughi. Che non sono certo una
soluzione di ampio respiro e che dovrebbero comunque venir rinegoziate ogni
anno, mano a mano che arrivano nuovi profughi, mentre sono ancora ferme al
punto di partenza. La soluzione non sta in quelle quote, bensì nella revisione radicale della convenzione di Dublino, nell’abolizione del permesso di soggiorno, come richiesto dalla Carta di Palermo,
o nell’introduzione di un permesso, anche a termine, valido per tutti i paesi
dell’Unione, per consentire sia i ricongiungimenti familiari che la
ricomposizione di legami comunitari che le quote ostacolano.
Quanto al contenimento dei flussi, il governo Renzi ha proposto un piano –
il Migration Compact – nel quale il finanziamento di politiche di sviluppo
confuse e generiche per eliminare – secondo lui – i fattori all’origine delle
migrazioni si mischiano a politiche securitarie, per indurre i paesi di origine
o di transito di quei flussi ad arrestarli o a rimpatriare chi è già approdato
in Europa. Modello del Migration Compact è l’accordo tra Unione
Europea e Turchia che Renzi aveva prima denunciato come disumano e che poi ha proposto
di estendere a tutti i paesi africani di origine o transito dei profughi. Ma
poche centinaia di milioni o qualche miliardo, soprattutto se affidati, come
proposto dal Migration Compact, a società europee come ENI o EDF, che sono le
responsabili dirette di disastri ambientali come i pozzi petroliferi in Nigeria
o le miniere di uranio in Niger, non solleveranno certo dalla miseria mezzo
miliardo di africani, ma anzi l’aggraveranno. E anche dal punto di vista
securitario, in Africa il modello dell’accordo con la Turchia non può
funzionare. La Turchia è uno stato solido – anche troppo – nel pieno controllo
del suo territorio, nonostante il conflitto interno con i curdi; è un’economia
emergente e il passaggio obbligato tra Medioriente ed Europa. E nonostante ciò
quell’accordo è una spada di Damocle che pende sull’Europa dei respingimenti.
La governance dell’Africa centro-mediterranea è invece spezzettata, debole e
inefficace in tutti i campi.
L’Unione Europea ha comunque recepito quel documento senza prendere
iniziative sostanziali nella direzione da esso indicata. Così i governi italiani, ma anche quelli di altri paesi membri, hanno
cominciato a procedere da soli, con accordi amministrativi, cioè di polizia,
non sottoposti al vaglio del Parlamento, con governi di paesi quali Sudan,
Niger, Libia, Nigeria o Egitto, che non offrono alcuna garanzia di rispetto dei
diritti umani né degli accordi stipulati. Sono dittature, governi fantoccio, o
addirittura, come in Libia, capitribù direttamente implicati nello sfruttamento
della tratta. Ma come era prevedibile, l’approccio securitario è poi approdato alla
prospettiva di una vera e propria guerra ai migranti, con dislocazioni di
truppe ai confini, per ora, di Ciad e Niger, per far arretrare le linee di
sbarramento in Stati che si suppone più facili da controllare – e perché mai? –
della Libia.
Alla base di tutte queste misure c’è l’idea è che il
fenomeno sia temporaneo e non permanente, congiunturale e non strutturale, che lo si possa
arrestare e invertire con accordi internazionali e barriere fisiche e militari.
Ma ciò che intanto si persegue e si pratica è
abbandonare i profughi a un destino di violenza e di morte per dissuaderne
altri dall’imbarcarsi nello stesso viaggio. A questo serve, tra l’altro, la
criminalizzazione delle Ong impegnate nei salvataggi in mare, da cui i Governi
dell’UE si sono deliberatamente ritirati.
Quei flussi sono invece destinati a crescere quali
che siano le misure adottate per fermarli. Ma se non rappresenterebbero un
problema per un’Unione europea che si attrezzasse per accoglierli, l’Italia
lasciata sola finirà comunque per rimanerne sopraffatta. Per impedire che una
mala gestione, estemporanea e sempre affrontata come emergenza comprometta,
come già sta facendo, la stessa convivenza vanno quindi apprestati piani di
lungo periodo; a partire dal paese di approdo, che per molti anni è e resterà
quasi solo il nostro.
Occorre innanzitutto metterlo al centro del dibattito sul futuro dell’Unione Europea, sviluppando una fortissima pressione sugli altri governi e sugli altri
cittadini europei perché vengano apprestati canali regolari e non
discriminatori di ingresso in tutti paesi, che è l’unico modo non ipocrita per
combattere la tratta dei trafficanti, i loro giganteschi introiti, il
finanziamento del terrorismo, il dissanguamento che essi provocano nelle
economie da cui si originano i flussi. Poi vanno messi sotto accusa, con molta
più forza di ora, i fautori del respingimento e del rimpatrio: sia in termini
morali, mettendo in chiaro che respingere significa condannare centinaia di
migliaia, se non milioni, di esseri umani alla morte, alla schiavitù o a ogni
altro tipo di violenza; sia spiegando che respingere i profughi tra le braccia
degli aguzzini da cui cercano di fuggire significa esporli al reclutamento
nelle loro formazioni armate, estendere i fronti di guerra, rendere inabitabili
non solo per loro, ma anche per noi, i loro paesi, come lo sono oggi la Libia e
i territori in mano allo Stato islamico. Costituire l’Europa in fortezza può
rendere difficile penetrarvi, ma rende anche impossibile uscirne, perché
l’intero continente sarà sempre di più circondato, come in parte lo è già ora,
da guerre e bande armate.
Ma le politiche di respingimento accrescono anche l’ostilità dei circa
quaranta milioni di abitanti di origine straniera – di cui venti di religione
musulmana – già insediati in Europa come cittadini europei o soggiornanti
regolari. Ostilità entro cui cova, sempre più spesso, un terrorismo stragista,
autoctono e non importato, che abbiam rivisto all’opera solo due giorni fa. Ma
anche il rancore diffuso di intere comunità, già sfociato, e che può
risfociare, in conflitti interni su basi sociali ammantate di riferimenti
etnici o pseudoreligiosi. Respingere i nuovi arrivati, criminalizzare e
perseguitare le comunità di origine straniera è il modo migliore per
alimentare, in una spirale senza fine, questi processi.
Il cammino da imboccare deve essere comunque messo a
punto dal basso e non solo dai governi, coinvolgendo sia le comunità europee
autoctone che quelle migranti. Non può essere definita fin da ora, ma alcuni dei
suoi capisaldi si possono già enunciare. Si tratta comunque inevitabilmente di
un programma radicale, assimilabile a un vero e proprio regime change a livello
europeo, per ora da sviluppare soprattutto come strumento di mobilitazione e di
condizionamento dei Governi in carica, cercando i necessari collegamenti con
tutti i movimenti attivi su questi temi. In sintesi:
Primo: Politiche di
austerità e incapacità di accogliere sono strettamente legate. “Non c’è posto” per
i profughi perché non c’è più posto per tanti cittadini europei, dato che
l’austerità continua a sottrarre lavoro, reddito, casa e servizi a tutta la parte
inferiore della piramide sociale. Non si può gestire i flussi crescenti dei
profughi senza affrontare anche la disoccupazione e la povertà tra un numero
crescente di cittadini europei: con un vasto programma di spesa pubblica, non
per grandi opere inutili e dannose, ma per mille e mille piccoli interventi nel
tessuto della società.
Secondo: Sul lungo periodo il riequilibrio demografico della popolazione europea con nuovi apporti
dall’esterno, per evitare che si riduca a una comunità di soli vecchi, è inevitabile.
Si rischia così di dover richiamare, in un domani non lontano, una parte di
quelle popolazioni che oggi ci adoperiamo per respingere e far annegare. Il
milione e mezzo di profughi entrati in Europa nel 2015, quando ancora era
aperta la rotta balcanica, eguaglia a malapena i migranti economici accolti
ogni anno in Europa per tutto il secondo dopoguerra, fino al 2008, pur in
presenza, allora, di una crescita demografica autoctona che oggi è venuta meno.
Terzo: Per questo occorrono sia corridoi regolari di ingresso, sia politiche del lavoro inclusive,
costruite dal basso, fondate su progetti che promuovano la collaborazione tra
cittadini europei, soprattutto giovani, e nuovi arrivati. I campi di questi
interventi sono noti: assistenza alla persona, agricoltura innovativa di
piccola taglia (al posto dell’attuale schiavizzazione di profughi e migranti
non regolarizzati in forme criminali di agricoltura estensiva),
ristrutturazioni edilizie, salvaguardia degli assetti idrogeologici, fonti
energetiche rinnovabili, artigianato di riparazione, manutenzione dell’usato,
cultura e altro ancora. Sono per lo più attività legate alla lotta contro il
degrado ambientale e i cambiamenti climatici che, quando, e se, se ne
presenteranno le condizioni, possono essere trasferite da migranti di ritorno e
cooperanti europei anche nei paesi di origine ed essere il motore di un
riequilibrio ambientale ed economico di quei territori.
Quarto: Una creazione così vasta di impresa e
di lavoro non può essere affidata né al mercato, dove ognuno si cerca un lavoro
da sé, né solo a programmi governativi. Soltanto l’economia sociale e solidale, poiché abbina accoglienza e lavoro,
inclusione e produzione, è in grado di concepirli, promuoverli e gestirli;
ovviamente con un massiccio sostegno dei poteri pubblici.
Quinto: Immigrati e profughi costituiscono un
grande potenziale da valorizzare sia nella definizione di una prospettiva
politica di pacificazione dei paesi da cui sono fuggiti e di cui conoscono bene
conflitti e dinamiche; sia nella progettazione del risanamento ambientale e
sociale dei loro territori di origine grazie ai contatti che mantengono con le
comunità che hanno lasciato, ma anche grazie alle professionalità e soprattutto
alle relazioni che hanno acquisito in Europa. Per questo le loro comunità
possono e dovrebbero essere aiutate a organizzarsi per essere parti in causa
nelle trattative che nelle campagne per bloccare sia le guerre in corso nei
loro paesi di origine, sia le forme più devastanti della presenza economica dell’Europa
in quegli stessi territori.
Sesto: Premessa obbligata di tutto ciò è una
battaglia culturale per riavvicinare le persone tra loro; è nello scambio culturale e nella mescolanza dei rispettivi apporti, ma soprattutto
nella vicinanza alle loro sofferenze, che si possono creare le basi per la
riconquista di una dimensione umana alla politica. Il rigetto che molti
cittadini e cittadine europee manifestano verso profughi e migranti non è
dovuto solo alla paura di una loro propensione a delinquere o del terrorismo.
Questa certo non manca, ma viene spesso usata a copertura del rifiuto di
mescolarsi con persone e culture che mettono in forse abitudini e tradizioni a
cui ci si sente legati. È questo timore del diverso che va affrontato, senza
demonizzare o tacciare di razzismo (ben presente invece in chi lo promuove e lo
sfrutta) chi ne è solo portatore o vittima. Farsi concittadini di chi era
straniero: questo deve essere il nostro impegno.
Testo dell’intervento preparato
per il convegno Accogliere emergenze Promuovere diritti (Milano,
24 maggio 2017)
Liceo in quattro anni. Come viene espropriato il sapere - Carla Fabiani
Per commentare tale sperimentazione annunciata già da tempo e solo adesso
messa pienamente in atto dalla Ministra Fedeli – la quale si mostra
particolarmente fedele di nome e di fatto all’impianto complessivo della
riforma renziana della scuola – vorrei soffermarmi sul concetto di espropriazione.
Può sembrare fuori luogo, ma occorre mettere in chiaro innanzitutto la
modalità con la quale da vent’anni lo Stato italiano si sta occupando e
preoccupando di rivoluzionare il nostro sistema scolastico, con un’accelerazione
mai vista negli ultimi tempi (la 107, cosiddetta “Buona scuola”). Una
rivoluzione dall’alto che ha come effetto essenziale e irreversibile, ormai
evidente, la sottrazione di intere ore di studio – in aula e a casa – agli
studenti di ogni ordine e grado, con particolare riguardo alle scuole superiori
di secondo grado e soprattutto ai Licei.
Una sottrazione di tempo-studio accentuata dall’introduzione obbligatoria
della cosiddetta didattica per competenze1,
che marginalizza il contenuto disciplinare (le conoscenze specifiche delle
singole materie: quelle che vengono chiamate nozioni in senso dispregiativo, ma
che al contrario vanno rivalutate come tesoro di conoscenza e di memoria) a
vantaggio di tecniche di apprendimento/insegnamento che mettano al centro del
percorso di formazione il “saper fare”.
Le conoscenze possono cioè essere ridotte letteralmente in pillole, schemi,
mappe concettuali, pensiero per immagini: l’importante è che siano traducibili
in termini di competenze utili e spendibili fuori del contesto
scolastico, cioè nel mondo del lavoro.
L’obiettivo, si dice, non è più quello di imparare qualcosa di determinato
ma “imparare ad imparare”. Il saper fare di contro al mero sapere .
Con particolare riguardo alle competenze linguistiche e informatiche ben
sintetizzate dalla campagna pubblicitaria berlusconiana delle tre i (inglese,
impresa, informatica). Tutto questo, ovviamente, viene presentato come innovazione trainante
lo sviluppo del Paese2.
Con l’introduzione del POF e ora del PTOF (piani di offerta formativa), la
singola scuola si presenta, in competizione con le altre scuole del territorio,
proponendosi al potenziale bacino d’utenza (studenti provenenti da scuola di
grado inferiore), come luogo in cui non solo e non tanto si
studia sui libri in classe (e possibilmente anche a casa), ma ci si organizza fuori dalla
classe, sul territorio, progettando eventi, partecipando a manifestazioni di
varia natura, ricreative o pseudo lavorative, sganciate in parte o totalmente dalla
didattica curricolare, che abbiano come causa finale la preparazione al mondo
del lavoro, l’orientamento in uscita, il conseguimento di certificazioni utili
al curriculum professionale, ovvero una educazione al problem solving,
non coincidente con il classico concetto di istruzione, che al contrario riceve
la sua fondazione dai concreti e specifici contenuti disciplinari, inservibili
fuori dalle aule scolastiche.
Tant’è che, anche in aula, si propongono metodologie di insegnamento
alternative e decostruttive rispetto alla classica lezione frontale. Da qui la
pervasività di concezioni didattiche legate al coding o
pensiero computazionale; ovvero semplicemente di modalità di insegnamento
cosiddetto laboratoriale e/o a classe capovolta. Secondo un rovesciamento di
priorità attribuite al contenitore (metodologia) piuttosto che al contenuto
(conoscenze), che poi non consente a sua volta di essere nuovamente rovesciato.
A tutto questo si aggiunge come esito scontato e naturale l’introduzione
dell’obbligo (per il triennio finale delle superiori) dell’alternanza
scuola-lavoro: almeno 400 ore per gli Istituti tecnico/professionali e 200 per
i Licei. È bene precisare che tale attività di alternanza viene fatta passare e
considerata dal MIUR come equivalente alla didattica e posta
come condizione sine qua non per la licenza finale. In termini
molto generali, potremmo senza dubbio parlare di un vero e proprio primato del fare sul sapere .
Un primato che viene – tramite le prove INVALSI – dichiarato come l’unica forma
di conoscenza valutabile con criteri quantitativi e oggettivi, cioè sottratti
all’arbitrio dei singoli soggetti coinvolti nel processo di
apprendimento/insegnamento3.
Premesso tutto questo, in estrema sintesi, non stupisce la proposta ormai
avviata di riduzione di un anno del ciclo liceale. Senza peraltro proporre una
riforma dei cicli, dei programmi. Ma riducendo solo il tempo
scuola. Evidenziando con ciò l’irrazionalità di fondo della proposta e
l’incapacità inemendabile di chi queste cose le pensa.
Certamente, le finalità estrinseche al processo formativo riguardano il
risparmio in termini di organico che se ne ricaverebbe (visto tra l’altro che
la 107 non è solo una riforma dell’istruzione, ma sostanzialmente una riforma
del lavoro dell’insegnante in vista di una sua flessibilizzazione,
unita a meccanismi competitivi fra docenti, governati da una gestione
verticalizzata da parte del Dirigente, con restrizione dei poteri decisionali
dei collegi).
Non voglio soffermarmi sulla ideologia neoliberale che sottende tale piano
rivoluzionario del sistema formativo, introdotto in Italia senza soluzione di
continuità da parte di una classe dirigente che abbraccia diversi schieramenti,
tutti concordi nella linea inaugurata da Berlinguer, che ha come nocciolo duro
il sistema dell’autonomia scolastica, ovvero la mercatizzazione della
istruzione di base4.
Voglio al contrario sottolineare il processo di espropriazione a
cui la scuola è stata sottoposta: ma che cosa ci hanno
sottratto? Il tempo e lo spazio e i contenuti concreti del sapere.
Le ore complessive dedicate allo studio in aula; il tempo complessivo dedicato
allo studio a casa.
Sia i progetti sia l’alternanza vengono di fatto svolti nelle ore
curriculari antimeridiane ovvero nelle ore pomeridiane, mantenendo invariato il
monte ore complessivo della didattica curricolare: i ragazzi dunque in quelle
ore non stanno in classe oppure non possono studiare il pomeriggio a casa,
perché impegnati a fare altro. Tutto ciò provoca una contrazione della
programmazione e una sua inevitabile semplificazione. Per compensare cioè tale
sottrazione di tempo, si intensifica e si semplifica la
didattica svolta in classe.
Questo è il punto. Il tutto viene radicalizzato dalla riduzione a quattro
degli anni liceali: “si tratterebbe di operare una compressione dei contenuti
di studio sulla base di un’accurata analisi delle competenze irrinunciabili
riferite a ciascuna disciplina. Se ci limitiamo ai licei, abbiamo un esempio a
portata di mano: i licei italiani all’estero che, già oggi, hanno una durata di
quattro anni. Gli studenti di questi licei svolgono nel primo anno gli argomenti
che normalmente si svolgono nei primi due e, successivamente, seguono un
curricolo equivalente al nostro.”5
Non si vuole qui indugiare nella retorica di chi – a ragione – rimpiange la
scuola gentiliana o di chi giustamente contrappone allo stato di cose presente
un modello alternativo di sapere critico o di critica del sapere, per altro già
presente nella cultura italiana almeno dal Trecento in poi e che oggi, a ben
vedere, viene spazzato via.
Si vuole evidenziare il processo di espropriazione delle
conoscenze a cui siamo stati sottoposti – docenti e alunni – e che si aggrava
anche per le modalità non democratiche e dunque in sostanza violente con cui è
stato attuato dalle diverse riforme scolastiche: tutte scaturite da una
supremazia oggettiva del potere governativo sul legislativo e tutte improntate
implicitamente o esplicitamente all’assunto tremontiano secondo cui “la cultura
non si mangia”.
Si nutre di cultura solo chi, per dotazione familiare e di classe, può
permetterselo. Tutti gli altri vengono destinati a un mercato del lavoro che,
in Italia e soprattutto nel Sud, richiede per lo più solo camerieri6.
È per questo che dall’Europa (o dall’estero in generale) importiamo il peggio,
paradossalmente proprio nel momento in cui gli altri lo stanno mettendo in
discussione7.
Detto questo non stupisce certo la sperimentazione a quattro anni dei
Licei. Con evidente riduzione dell’obbligo scolastico in termini di anni
complessivi.
Che cosa si prevede? “ Stessi obiettivi in quattro anni invece che
cinque, con esami di Stato identici ai percorsi quinquennali. Questo il
contenuto della sperimentazione alla quale le scuole potranno partecipare a
seguito di una apposita progettazione da presentare al Ministero che dovrà
comprendere, tra le altre cose: potenziamento lingua con percorso CLIL,
attività laboratoriali e tecnologie digitali, rafforzamento alternanza
scuola-lavoro e progetti su mobilità internazionale.” CVD.
Note
1 Per una critica
radicale alla didattica delle competenze si veda tra gli altri: http://gisrael.blogspot.it/2009/11/la-scuola-delle-competenze-demenziali.html; ma
anche: https://www.carmillaonline.com/2012/05/02/dalla-formazione-alla-informazione-il-mito-delle-competenze/
2 Per una critica del nesso
competenze/lavoro si veda: http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-scuola-che-piace-a-confindustria/?printpage=undefined.
3 Per una critica alla valutazione
INVALSI: http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/255-invalsi-e-altre-storie-intervista-a-giorgio-israel.html; si
veda anche il recentissimo: http://www.roars.it/online/prove-invalsi-apriamo-una-grande-riflessione-pubblica-sulla-loro-funzione/.
4 Per una storia critica delle
riforme scolastiche in Italia e Europa si veda: A. ALLEGRA, La dimensione
europea della formazione tra competizione globale e crisi, Contropiano,
atti del convegno “Formazione, Ricerca e Controriforme”, Bologna 30 aprile
2016, Anno 25, n.2 2016. Ora anche su: http://dialetticaefilosofia.it/scheda-filosofia-saggi.asp?id=66. Ma
anche: http://www.roars.it/online/unaltra-scuola-per-unaltra-europa/.
5 Intervista del 2014 a Paolo Mazzoli, dirigente
scolastico di una grande scuola romana che ha partecipato concretamente alla
sperimentazione, collaborando con l’allora sottosegretario Marco Rossi Doria:http://www.unipd.it/ilbo/content/liceo-quattro-anni-possibile-forse-ma. Per
i confronti con il resto d’Europa si veda: http://www.unipd.it/ilbo/content/durata-delle-scuole-superiori-l%E2%80%99europa-va-ordine-sparso.
6 Sul declino economico dell’Italia: http://temi.repubblica.it/micromega-online/alle-origini-del-declino-economico-italiano/#_ftnref6
7 Si veda su
questo punto: http://www.gildains.it/public/documenti/3470DOC-758.pdf
Venezuela, le destre danno fuoco a un giovane chavista - Geraldina Colotti
“Sei
chavista?” gli urlano. “Sì, sono chavista”, risponde. E lo massacrano. Poi gli
danno fuoco e quando tenta di rialzarsi, lo pugnalano. Lo inseguono per
finirlo, finché i pompieri lo soccorrono, al contrario della polizia municipale
che non si era fermata. Orlando Figueroa, venditore ambulante ventunenne ha
ustioni sull’80% del corpo, ma è riuscito ad arrivare all’ospedale vivo, e la
sorella ha raccontato ai giornalisti l’accaduto. Era finito in una
manifestazione ad Altamira, nel municipio Chacao, uno dei quartieri bene della
capitale, focolaio delle violenze contro il governo, che durano da otto
settimane.
Pochi giorni
fa era toccato a un commerciante, aggredito in un centro commerciale perché
scambiato per un politico di governo. Le vittime sono già 52, in gran parte
gente comune, militari disarmati o giovani di opposizione, uccisi dalle
micidiali armi artigianali – mostrate dalla Reuters e da giornalisti
indipendenti – di cui si servono i gruppi oltranzisti in piazza. Intanto, il
ministero degli Esteri ha denunciato movimenti di truppe alla frontiera con la
Colombia. Nello stato di Bolivar, l’estrema destra ha dato alle fiamme 51
autobus impedendo la mobilità di 170.000 persone che si spostano sui trasporti
pubblici (gratuiti) per andare a scuola o al lavoro.
Della
situazione in Venezuela abbiamo parlato con il deputato venezuelano Saul Ortega
(Psuv), venuto in Italia per partecipare all’Assemblea parlamentare euro-
latino americana (Eurolat), che si è svolta a Firenze in occasione dei 60 anni
dalla firma dei trattati di Roma.
* * * *
Qual è la
situazione in Venezuela?
E’ in corso
un’offensiva dichiarata – politica, economica, psicologia, mediatica e
diplomatica – delle destre, appoggiate e finanziate dall’imperialismo Usa e dai
governi neoliberisti e corrotti come quello brasiliano di Michel Temer, che
assumono la leadership del movimento sovversivo violento e portano l’attacco
negli organismi regionali. Per fortuna, la maggioranza della popolazione ha
scelto la pace. Le violenze si verificano solo nei quartieri ricchi, dove i
guarimberos assassinano, mutilano e bruciano i trasporti pubblici, le scuole
pubbliche, gli ambulatori gestiti dai medici cubani. Le destre non perdono
occasione per presentare una realtà distorta del nostro paese. Lo abbiamo visto
anche in questo Foro Eurolat. Definiscono dittatura il nostro governo quando in
18 anni si sono svolte 20 elezioni, due delle quali perse, e di cui abbiamo
riconosciuto subito i risultati. Plaudono invece al governo di Temer, frutto di
un golpe istituzionale e non di elezioni democratiche. Ad accusarci di false
violazioni dei diritti umani sono paesi come la Colombia, dove in questo
momento è in corso una feroce repressione contro le persone che protestano a
Bonaventura. Oppure il Messico delle fosse comuni, dei giornalisti ammazzati e
degli studenti scomparsi. In Argentina, in Cile e in Brasile, gli studenti
protestano per l’educazione pubblica e gratuita, da noi succede il contrario. In
Venezuela, le elite politiche e le oligarchie non possono tollerare che i
settori popolari – gli indigeni, gli afrodiscendenti – usufruiscono dei diritti
da sempre considerati un loro privilegio.
In 18 anni
di governo, però, ci sono anche stati errori.
Abbiamo
ereditato un modello rentista e petrolifero che ha fatto il suo tempo. Il
modello capitalista in crisi strutturale ha fatto il suo tempo. Il presidente
Maduro ha convocato un’Assemblea costituente, rivolta a tutti i settori della
società, per passare da questa economia parassitaria a un sistema
economico-produttivo che porti avanti le conquiste social. Il risultato di
questa discussione, che le elite dirette da Washington hanno già rifiutato,
verrà votato con referendum da tutte le persone maggiori di 18 anni. La nostra
Costituzione, approvata nel 1999, è una delle più avanzate al mondo. Allora non
è stato possibile approfondire alcuni punti, che rimangono da risolvere per
cambiare lo stato e avviarci verso la transizione al socialismo. Alle minacce
della destra, abbiamo risposto sempre approfondendo la rivoluzione. Il popolo
ha la maturità per capire che, di fronte agli interessi di una minoranza prona
agli interessi delle multinazionali e che ha usato il Parlamento ai margini
della legge, occorre proteggere le nostre risorse e la nostra indipendenza.
Dobbiamo costruire una nuova architettura costituzionale che approfondisca la
democrazia economica, politica, sociale per superare lo Stato borghese verso il
municipalismo e le comunas.
Dopo
l’incontro fra Trump e Santos, c’è il rischio di un’aggressione armata
proveniente dalla Colombia? Le frontiere con il Brasile e con la Colombia sono
state chiuse.
In Colombia
vi sono 7 basi militari, a Curazao ce ne sono altre. L’imperialismo attizza il
conflitto con la Guyana dove la Exxon Mobil estrae petrolio nelle acque
contese. Dal Brasile di Temer e dalla Colombia di Santos arrivano provocazioni
alla frontiera. Negli organismi regionali, i governi servili hanno violentato
tutte le regole per distruggere l’integrazione latinoamericana. Ma noi
confidiamo nei popoli del continente.
L’opposizione
ha rivolto diversi appelli alle Forze Armate per invitarle a sollevarsi contro
il governo. Quali effetti hanno avuto?
L’unione
civico-militare con le nostre Forze armate è solida. Però ci sono state
piccolissime componenti che hanno risposto, e sono state arrestate. In questa
fase, le destre spingono soprattutto sull’alleanza con le mafie politiche e la
grande malavita. Siamo un popolo di pace e non cadiamo nelle provocazioni, ma
sappiamo difenderci, confidiamo nella lealtà delle nostre Forze Armate. Ma la
miglior difesa è la coscienza del popolo.
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