venerdì 2 giugno 2017

La tenuta recintata dai muri - Gustavo Esteva


I nostri modi di comprendere quello che avviene divengono rapidamente obsoleti, di fronte ad avvenimenti privi di precedenti che non rientrano nel quadro mentale dominante. Lo stesso avviene per le forme di lotta convenzionali, che diventano inefficaci o addirittura controproducenti. Al medesimo tempo, poiché si stanno scuotendo fino alle fondamenta le anchilosate strutture dominanti ed entrano in crisi credenze ben radicate, compaiono reazioni fondamentaliste pericolose. La confusione cresce.
Abbiamo bisogno di luci che ci permettano di vedere in questa oscurità. Quelle accese nel seminario di riflessione critica, I muri del capitale, le crepe della sinistra, convocato in aprile dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, illuminano molti aspetti della complessa realtà che abbiamo di fronte, sempre più violenta e cinica. Il 12 aprile il subcomandante insurgente Moisés ha spiegato come e perché “il mondo capitalista è una tenuta recintata dai muri“. Ha raccontato quello che gli avevano detto le nonne e i nonni, i bisnonni e le bisnonne. In tempi come questi, è necessario guardare il passato per poter scrutare il futuro.
Le une e gli altri gli avevano ricordato com’era lavorare nelle tenute, svolgere il compito assegnato, subire le punizioni dei caporali, dei maggiordomi [funzionari di fiducia del proprietario, ndt], dei capataz. Come il padrone – il proprietario della tenuta – a volte si travestisse da soldato. E come la resistenza a tutto questo non andasse molto lontano quando si cercava di affidarsi a qualcuno che facesse il capo, per questo si dovette imparare a condurre la resistenza in modo collettivo.
Di tutto questo ha parlato il subcomandante Moisés, perché le zapatiste e gli zapatisti vedono “che oggi stiamo tornando di nuovo a questo. Nel capitalismo di oggi non esistono paesi. […] Si sta trasformando il mondo in una tenuta. Si farà il mondo a pezzi, d’altronde è già così […]. Ci sarà solo un gruppo di padroni-governo. […] Quello che comanda, non è più chi comanda. Quello che comanda è il padrone capitalista. Questi governi […] sono solo capataz. I maggiordomi: i governatori. I presidenti dei municipi sono i caporali. Tutto è al servizio del capitalismo”. 
La contesa per le risorse pubbliche è parte della lotta sociale e politica. Per molti anni, numerosi gruppi hanno concentrato il loro impegno nell’ottenere risorse dal governo e nell’influenzare gli orientamenti politici e i programmi. Dobbiamo continuare a farlo, soprattutto per resistere a ciò che fanno i governi. Ma dobbiamo tener presente che siamo di fronte a una nuova situazione. Da un lato, i governi hanno imparato a ignorare le rivendicazioni popolari, quale che sia la pressione che viene esercitata su di essi. Dall’altro, i cosiddetti “programmi sociali” sono strumenti di controllo e manipolazione. Cercano l’addomesticamento della gente e in molti casi hanno carattere contrainsurgente. La spoliazione che caratterizza la fase attuale dell’accumulazione del capitale, e che si estende dai territori indigeni fino ai diritti dei lavoratori, viene compiuta con il supporto di tutti gli strumenti legali e illegali dei governi. Lo stesso “Stato-nazione”, che fu il terreno privilegiato di espansione del capitale, oggi è di ostacolo per il capitale globalizzato, che lo sta smantellando. Dobbiamo tener conto di tutto questo quando oggi concepiamo e organizziamo le lotte.
Dobbiamo agire con la consapevolezza che il capitalismo, come ci dicono gli zapatisti, sta trasformando il mondo in una tenuta. Trasforma tutti i governi in semplici amministratori delle frazioni di questa tenuta. Essi ricevono le briciole della torta per adempiere la loro funzione, sia direttamente, con la malversazione delle risorse pubbliche, sia indirettamente, con operazioni come quella del narcotraffico.
La disputa elettorale, in queste condizioni, si svolge fra coloro che aspirano a diventare capataz, maggiordomi o caporali. Nessuno di loro sarà un padrone. Resteranno agli ordini dei padroni nazionali e transnazionali, che hanno trasformato ciò che continuiamo ancora a chiamare “Stato” in una società anonima nella quale i partiti rappresentano gruppi di azionisti, non la gente. Si riuniscono periodicamente per eleggere un consiglio di amministrazione al servizio di un padrone, del capitale, che ha un carattere sempre più transnazionale.
“Che possiamo fare? … Il mondo si va trasformando, il capitalismo vuole trasformarlo nella sua tenuta. Che faremo?, ci chiede il sub Moisés. “Vedete cosa potete fare là dove vivete, là dove siete, se siete nella merda del capitalismo, considerate il da farsi nella vostra situazione. Perché questo è ciò che sfa facendo oggi il capitalismo”.
Le elezioni nello stato del Messico si riempiono sempre più di parole vuote, di promesse e inganni. Hanno chiaramente un carattere nazionale. Ha senso continuare a giocare a questo gioco? Possiamo ancora mettere le uova in questa cesta, con l’illusione di “recuperare lo Stato”, semplici pezzi della tenuta? Dobbiamo partecipare all’elezione di caporali, maggiordomi o capataz con l’illusione, alimentata nonostante tutte le esperienze, che i nuovi eletti renderanno meno aggressiva e deleteria l’amministrazione della tenuta?
Fino a poco tempo fa non sembrava ci fosse scelta. Si votava per il male minore o per evitare che arrivasse qualcuno ancora peggiore. Oggi invece esiste un cammino alternativo. La resistenza organizzata sta prendendo forma e consistenza. La risposta è nell’aria. Viene dal basso.

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