martedì 13 giugno 2017

Se il mondo fosse normale: non tanto, solo un po’ – Ugo Tramballi

Nessuno s’illude di poter vivere la propria vita di citoyen in un mondo perfetto. Magari per breve tempo, per assaggiare eccitato una parvenza di esemplarità: come nei mesi successivi la sconfitta del nazismo; o quando finì la Guerra fredda e alla fine degli anni ’80 credemmo che la democrazia si sarebbe diffusa in Unione Sovietica e da lì, nel resto del mondo non democratico. Fu un trompe-l’oeil.
Tuttavia, se non perfetto, fra alti e bassi verso la fine del XX secolo il mondo apparve più vicino alla normalità. Poi qualcosa si è rotto e non so quali ne siano state le cause e chi i responsabili: in casi così smisurati le une e gli altri sono numerosi.
Se oggi il mondo fosse normale – non tanto, solo un po’ – l’Iran che con falsa ingenuità si stupisce di essere un obiettivo del jihadismo, e l’Arabia Saudita che dopo averlo finanziato con dovizia di mezzi, sfrontatamente accusa gli altri di sostenerlo, smetterebbero di mentire. Questi iraniani e questi sauditi organizzerebbero un vertice e cercherebbero il modo migliore per combattere insieme il male. Poi creerebbero un sistema di sicurezza collettiva per una regione strategica e pericolosa nella quale sono costretti a convivere.
Se il mondo fosse normale, a Donald Trump sarebbe negato l’uso dell’i-phone e di ogni altro i-qualsiasicosa, ad eccezione di un telefono fisso. A gettoni. E’ vero, in un mondo normale Trump non occuperebbe nemmeno lo studio ovale ma ci sappiamo accontentare. Il tweet è lo strumento perfetto per chi ha idee e vocabolario limitati. Ma anche così, come dimostra Trump, sa essere un potente strumento di falsificazione. Il mondo nel quale non conta cosa dici ma come lo dici, non può essere un mondo normale.
“Leaders pointed to Qatar – Look!” scrive appunto il presidente americano, sintetizzando in cinque parole e un punto esclamativo come farebbe uno scolaro di quinta elementare, la crisi che rischia di far saltare in aria la regione dalla quale viene gran parte dell’energia che fa girare il mondo. Preso fiato e probabilmente aiutato da una professoressa di lettere che gli fa qualche ripetizione, Trump aggiunge: “Che bello vedere che la mia visita in Arabia Saudita e l’incontro con il re e 50 paesi, sta già dando risultati…”.
Risultati? Erano in 50 a quel vertice di Riad che doveva cambiare il Medio Oriente, l’Islam e il mondo. Alla irresponsabile iniziativa saudita di isolare il Qatar, hanno risposto in sei: fra questi l’autorevole Mauritania, le decisive Maldive, il devastato (dai sauditi) Yemen e il pezzo di Libia di Khalifa piccolo Napoleone Haftar.
In questo mondo che ci piacerebbe vedere un po’ normale, il Csis di Washington, il più importante think tank sulle questioni della difesa, ha fatto due conti. Ha scoperto che entro l’anno fiscale 2017 l’impresa senza fine dell’Afghanistan sarà costata ai contribuenti americani 901,5 miliardi di dollari. (Anthony Cordesman, “The Afghan War: Key Developments and Metrics). Quante Volkswagen dovrebbe esportare Angela Merkel per riuscire a fare gli stessi danni ad America First?
Citando la Cia, Csis ricorda anche che l’oppio, le cui coltivazioni vorremmo sradicare perché fonte principale di risorse dei Talebani, vale una cifra tra 1,6 e tre miliardi di dollari. La narco-economia afghana garantisce 400mila posti di lavoro: più di quanti ne possano dare le forze armate afghane che la Nato arma e addestra.
Nel nostro caro e anormale mondo che scivola verso l’anarchia geopolitica, il capo licenziato dell’Fbi dice che il presidente degli Stati Uniti gli ha intimato di mentire. Ma prima di questa notizia che avrebbe sollevato lo l’indignazione del mondo normale, c’è la progressiva destabilizzazione del Golfo; c’è il piccolo Kim che lancia una nuova batteria di missili balistici contro il mondo; c’è la discesa del Regno Unito negli inferi della precarietà politica perché non sa più esprimere una guida: dico, la Gran Bretagna, quella di Winston Churchill.
Alla fine del mese scorso John Kerry ha scritto su Time un breve commento intitolato “The case for Optimism In These Strange Times”. In un mondo normale, nel 2004 Kerry sarebbe diventato presidente, riducendo a un solo termine i danni di George Bush, o il candidato democratico vincente al posto di Hillary Clinton nel 2016. Kerry, segretario di Stato nel secondo mandato di Barack Obama, paragona il tempo di Trump al maccartismo degli anni Cinquanta e al Watergate dei Settanta. In entrambi i casi, gli Stati Uniti ne sono usciti.
Il suo ottimismo bostoniano non riesce a contagiarmi. Troppi uomini e donne pericolosamente mediocri sono al potere, oggi nel mondo. Il massimo che posso concedere al dignitoso John Kerry è un “Maybe we can”.
da qui

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