è un libro che inquieta, coma la storia che racconta (Ruanda, in contemporanea con Sarajevo).
un piccolo svizzero si trova dentro una macchina che uccide, e con molta fortuna ne esce fuori, non senza aver visto e vissuto quasi tutto.
riesce a far star male quanto basta - franz
Ingenuo e idealista, Hohl
stenta a comprendere una realtà radicalmente altra, un universo enigmatico,
talvolta minaccioso e in ogni caso non valutabile in base ai parametri
occidentali. Nel rapporto con l'affascinante Agathe, una donna dalla sensualità
dirompente, intuisce forse di trovarsi di fronte a questo baratro di
incomprensione. Ma non è sufficiente: nonostante tutte le avvisaglie, nei
quattro anni che trascorre nel paese non si rende conto della tragedia che si
sta preparando. E così scivola, quasi impercettibilmente, in un incubo: quando,
nella primavera del 1994, ha inizio il massacro, cerca di tenere i contatti con
la donna - che con gli anni ha maturato una sua coscienza politica e muore di
colera in un campo profughi -, non parte con gli altri occidentali, per cento giorni
rimane recluso nella sua abitazione e diventa così testimone e in qualche modo
complice del genocidio che costò la vita a quasi un milione di persone.
«Negli anni seguenti ho cercato di tenere
lontano dalla mia vita ogni turbamento e solo a volte, quando ascolto la tanta
gente arguta e leggo i tanti libri intelligenti che da allora sono stati
scritti su quel periodo, allora cerco il mio nome nell'indice analitico, e il
nome del piccolo Paul, sotto Direzione della cooperazione allo sviluppo e
dell'aiuto umanitario, e quando eccezionalmente li trovo, al massimo c'è
scritto che eravamo lì e forse anche che abbiamo investito in quel paese più
soldi di tutte le altre nazioni. La nostra fortuna è sempre stata che in ogni
crimine in cui era coinvolto uno svizzero ci fosse sempre di mezzo qualche
farabutto più grosso, che attirava su di sé l'attenzione e dietro il quale
potevamo nasconderci. No, non appartenevamo a quelli che commettevano bagni di
sangue. Erano altri a farlo. Noi ci sguazzavamo dentro. E sapevamo
perfettamente come bisognava muoversi per restare a galla e non affondare in
quella salsa rossa».
…j'ai tout d'abord été très impressionnée
par le style de l'écrivain, moins par la construction de la confession d'un
« homme brisé » parfois trop imprécise et même peut-être un peu
confuse, que par la puissance d'incarnation d'une écriture souvent très
sensitive, comme tactile. Cette narration en « je » est introduite
par un condisciple de lycée, témoin et relais, qui donne une description de
David Hohl, anti-héros revenu de tout, description dont un détail peut
illustrer la force symbolique de tout le texte : « quand quelque
chose l'étonne, un filet de salive semble prêt à se détacher, bien que
naturellement, cela n'arrive jamais. Simplement, cette lèvre est un peu humide,
ce qui permet de voir, plus clairement que chez d'autres, ce que sont réellement
les lèvres : l'intérieur de la bouche tourné vers l'extérieur. »
Comme si les mots s'humectaient en tentant de donner à saisir l'intériorité
d'un être, se chargeaient de l'eau des larmes qui ne coulent jamais, comme
s'ils se chargeaient de la soif du personnage qui le poussera à des extrémités
qu'il n'avait pas imaginées. Dans ce mouvement singulier du fleuve du temps,
Lukas Bärfuss tente d'observer littérairement un moment tragique de l'histoire
du Rwanda, de questionner notre histoire à tous, de mettre en lumière un aspect
particulier de l'histoire suisse.
La perspicacité de l'écrivain traque
l'incroyable malléabilité des sentiments et raisonnements de son héros, David
Hohl, soumis à des désirs contradictoires, à des conclusions parfois
simplistes, guidé par sa fascination amoureuse pour Agathe – une Rwandaise elle
aussi ambiguë, mais dont le personnage est parfois brossé à trop grands traits
– et habité par la rencontre de représentants très divers de l'aide
humanitaire…
…Cento giorni (Einaudi, trad. di Daniela Idra), racconta l’esperienza africana
di un trentenne svizzero alle dipendenze della Direzione della cooperazione
allo sviluppo della Confederazione elvetica: pieno di buone intenzioni e di
inconfessati fantasmi, David Hohl attraversa titubante i mesi precedenti la
guerra civile che portò in Rwanda, nel 1994, all’uccisione di centinaia di
migliaia di Tutsi, un genocidio che raggiunse il suo acme durante quei cento
giorni che danno il titolo al romanzo. Il modo in cui Bärfuss descrive
l’atmosfera all’interno della cooperazione svizzera e come questa ha condotto
le proprie operazioni durante gli anni del sinistro potere Hutu è un vero e
proprio atto di accusa all’acquiescenza e all’inerzia (interessata)
dell’istituzione. Alla cecità politica dei progetti di sviluppo cui pure
partecipa con il dovuto zelo, Hohl aggiunge la sua irrequietezza da neofita
incapace di ammettere i confini tacitamente concordati dai suoi colleghi tra la
loro esistenza di lavoratori bianchi occidentali e quella dei rwandesi
“assistiti”. La sua ambigua relazione erotica con una donna locale e la
percezione dell’aumento di tensione dei conflitti etnici cui l’uomo attribuisce
un senso oscuramente antropologico (il furore dionisiaco del mondo africano che
ribolle sotto l’apparente tranquillità della vita quotidiana, pronto a erompere
da un momento all’altro), non riescono a fornirgli soddisfacenti chiavi di
accesso a quell’universo da cui il protagonista non saprà comunque sottrarsi,
sprofondandoci dentro come il Kurtz di Conrad. Al momento di abbandonare il
Rwanda insieme ai colleghi, Hohl non si farà trovare e trascorrerà, unico
bianco, quei cento giorni in mezzo all’«orrore»: dove il volto atroce della
barbarie, e l’abbassamento graduale del giovane europeo al suo stesso livello,
saranno l’ultimo atto del suo infelice tentativo di “riconoscimento”…