Il Movimento Lottiamo Insieme diffonde la lettera a cuore aperto di un rider della posta.
Il servizio postale costituisce un servizio pubblico e, in quanto tale, ogni anno viene finanziato pubblicamente con 262,4 milioni di euro. Non è accettabile che il denaro dei cittadini venga utilizzato per generare precarietà lavorativa e incertezze nel vissuto di migliaia di lavoratrici e lavoratori. Soprattutto giovani. Per non parlare dei disagi all’utenza causati dal continuo ricambio dei portalettere. Con l’obiettivo di informare e sensibilizzare la cittadinanza su quanto accade sistematicamente nella filiera del recapito di Poste Italiane, il Movimento Lottiamo Insieme intende dare visibilità alla lettera di Gabriele, uno dei tantissimi rider della posta, a cui va la nostra più sincera solidarietà.
Lettera di un postino precario a Bologna
Il caporalato esiste a Bologna? Sì. E il padrone
si chiama Poste Italiane. Già! Il primo datore di lavoro in Italia, certificato
“Top Employer” per il quinto anno consecutivo «grazie alle sue politiche di
risorse umane e, in particolar modo, all’impegno rivolto al benessere dei
dipendenti e delle loro famiglie», si legge in un comunicato aziendale. La realtà però è ben diversa, almeno per la parte
più debole dei lavoratori. Quegli oltre 10 mila precari assunti ogni anno con
contratti di pochi mesi, sottoposti a condizioni “extra-contrattuali”
vergognose. Ma andiamo con ordine.
Dal primo febbraio 2024 sono stato assunto da Poste Italiane per tre mesi.
Ho firmato un contratto di 36 ore settimanali, per 1.300 euro circa più buoni
pasto. Non male, penserete voi. Ho lavorato un mese a Bologna, poi mi sono
visto costretto a dare le dimissioni. E come me altre centinaia di lavoratrici e
lavoratori in tutta Italia. In 35 anni non ho mai sperimentato una condizione
lavorativa così vergognosa.
È giusto che si sappia: il postino precario lavora
sotto ricatto, costretto a fare ore e ore di straordinari non
pagati, a subire mobbing e pressioni psicologiche, a mettere a rischio la sicurezza propria e degli altri. Dopo
soli tre giorni di affiancamento viene chiesto ai neoassunti di lavorare come
se fossero postini esperti. Il che è ovviamente impossibile, perché le
procedure da ricordare sono tante, la posta va lavorata prima e dopo la
consegna (in gergo “gita”), la posta ordinaria va sommata a quella prioritaria
e a quella a firma per cui si esce carichi come muli.
Le zone di consegna sono nuove, perciò, serve tempo per imparare i
percorsi, inoltre spesso si viene assegnati dopo pochi giorni a zone diverse
perché i precari fanno anche da tappabuchi per colmare esigenze di organico. I
colleghi a tempo indeterminato, sottoposti a ben altri ritmi e condizioni
lavorative, scommettono su chi “molla prima”. I capisquadra e i responsabili
esercitano sui precari una certa pressione con minacce più
o meno velate, del tipo «qua se non si migliora con le consegne
non ti rinnovano», oppure «non guardare l’orario, vai avanti», o ancora «non vi
posso autorizzare gli straordinari, la posta è quella e va consegnata. È
normale rientrare più tardi all’inizio».
Tutto ciò significa lavorare almeno dieci ore al
giorno in media, ma si arriva anche a dodici, sapendo che te ne verranno pagate solo sette. Significa
essere sempre sotto pressione, di corsa, rischiare di farsi e fare male per
consegnare di più e più in fretta. Significa essere costretti a compiere
infrazioni e gesti poco sicuri. Significa saltare la pausa pranzo (che sarebbe
di 15 minuti ma risulta impossibile farla). Significa offrire anche un servizio più scadente, perché ogni cosa diventa
potenzialmente una perdita di tempo, un ostacolo. In pratica, non c’è alcuna
corrispondenza tra quello che ci viene spiegato nei tre giorni iniziali di formazione
sulla sicurezza e quanto, di fatto, ci viene poi richiesto. Un vero paradosso!
Nel solo mese di febbraio cinque neoassunti, me compreso, hanno dato le
dimissioni dopo poche settimane. Il turnover è pazzesco, i ritmi sempre
altissimi, le condizioni assurde. La cosa più inquietante di tutte è la normalizzazione di questa condizione indecente di sfruttamento e
umiliazione continua.
Tutti nel centro promuovevano la narrazione del lavoro come sacrificio,
veicolando una morale iper-lavorista funzionale alla perpetuazione del modello
di sfruttamento stesso. «È normale all’inizio, poi ti abitui», una delle frasi
motivazionali più ricorrenti nell’ambiente. Intanto «tieni botta, mi
raccomando» e «resisti, poi andrà peggio perché andrà peggio, ma tu resisti»,
mi dicevano alcuni colleghi per confortarmi. E chi legittimamente si sottrae a
queste dinamiche è un debole, uno che molla, un mantenuto.
I postini precari non hanno ovviamente alcun potere a disposizione, c’è un
esercito di riserva pronto a sostituire chi non si adegua. Chi resta qui spera
di lavorare almeno sei mesi per accedere alla graduatoria per una futura
possibile assunzione a tempo indeterminato. Ma Poste può prorogare fino a
dodici mesi, poi la stabilizzazione è tutt’altro che scontata.
In effetti, le opzioni per i precari sono due: ci si dimette ritenendo le
condizioni inaccettabili, o si continua a testa bassa ingoiando tutto, nella
speranza di essere riconfermati e un giorno assunti a tempo indeterminato. Così
la macchina va avanti, nel silenzio generale, e
nell’ignoranza dell’opinione pubblica che non sa cosa si cela dietro una
cartolina pubblicitaria, un pacco o un quotidiano messo in buchetta.
Io stesso, determinato a non restare silente, sono rimasto senza energie e
senza speranze in fretta. Il sindacato è poco presente e
in molti casi connivente, attivare un percorso legale è lungo e
costoso, dimettersi prima del tempo o fare meno lavoro fa ricadere le
conseguenze su altri postini precari, quasi nessuno si lamenta o
protesta per cui diventa molto difficile sottrarsi al
meccanismo.
Ma la domanda di fondo è: per quale motivo
un’azienda pubblica che dovrebbe svolgere un servizio pubblico opera come una
multinazionale?
—
Il processo di privatizzazione va avanti da diversi anni e si presta ad
un’accelerata. Con l’attuale governo il controllo pubblico si ridurrà al 51 per
cento. Poste Italiane è una S.p.A. quotata in borsa, deve remunerare il
capitale e spremere i dipendenti mica rispettare il diritto del lavoro e
fornire servizi di qualità alla cittadinanza.
D’altra parte, i colossi di e-commerce e logistica
dettano il modello in quanto clienti di Poste. In questo scenario
sconcertante, è una vera fortuna che la scorsa primavera sia nato a Roma
il Movimento Lottiamo Insieme delle lavoratrici e dei
lavoratori precari di Poste Italiane, per dare voce e speranza a chi vive o
subisce tali situazioni.
Carmine Pascale
Movimento Lottiamo Insieme – movlottiamoinsieme@gmail.com
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