mercoledì 15 gennaio 2025

Davide Grasso, Lorenzo Guadagnucci e Fabio Anselmo scrivono sull'omicidio di Ramy Elgaml e sullo Scudo penale agli agenti

Le notizie su Ramy sono sempre relegate a fine tg. Ma non è cronaca: è politica di primo piano - Davide Grasso

Ieri studenti e polizia si sono scontrati a Torino per i fatti emersi in relazione alla morte di Ramy Elgaml. Oggi è iniziato il coro dello scandalo e delle condanne. C’è da stupirsi, al contrario, che di fronte alle circostanze che emergono sulla morte del giovane milanese non stia accadendo molto di più. È evidente che in Italia non siamo abituati alla rabbia sociale molto più amara che eventi del genere possono provocare.

La risposta alla comunicazione radio che annuncia la fatale caduta dello scooter – “Bene!” – mi ha fatto ricordare la frase “uno a zero per noi” pronunciata da una poliziotta quando è stato ucciso Carlo Giuliani a Genova.

Diverse personalità politiche dichiarano che le proteste di Torino, o altre che verranno, assumono forme “inaudite” e “intollerabili” perché hanno fatto bersaglio di oggetti gli edifici che ospitano le attività delle forze dell’ordine o gli agenti che le difendevano. Intollerabile è invece che le notizie riguardanti Ramy continuino ad essere relegate a uno scampolo di minuti a fine telegiornale, come se si trattasse di cronaca quando questa è politica, e di primissimo piano.

Le redazioni, inoltre, non lesinano commenti didascalici e ridondanti agli audio dei militari, dove si sottolinea che le frasi degli inseguitori erano ora “reazioni istintive”, ora erano proferite “senza sapere quanto grave fosse l’incidente”. Una forma di deferenza verso i carabinieri, o forse un timore mal riposto nell’esercitare una critica aperta e libera alle forze dell’ordine – ciò che ci è invece perfettamente consentito dalle leggi e garanzie per cui hanno lottato le generazioni passate.

Il problema è profondo. Ogni notte ha luogo un numero elevato di inseguimenti, pedinamenti, fermi, controlli e arresti. Della maggior parte di questi noi non conosciamo nulla. Il loro racconto è affidato alla redazione dei verbali degli agenti stessi e la stessa magistratura deve basarsi su queste sole fonti. In casi eccezionali un inseguimento aggressivo, un interrogatorio muscolare o l’uso di un’arma d’ordinanza finiscono male. Allora i riflettori si accendono: ma senza sottolineare che quella potrebbe essere la goccia del vaso immenso che ha fatto traboccare.

Un abuso emerge perché qualcuno muore, perché c’era una telecamera o perché chi ne era vittima era un cittadino in grado di rivolgersi alla stampa o pagarsi un avvocato. Molti di coloro che incontrano le forze dell’ordine non possiedono tuttavia le garanzie della cittadinanza, altri non conoscono la legge e quindi i limiti delle pretese che possono avanzare gli agenti di pubblica sicurezza nei confronti di un cittadino; altri infine sono intimoriti da una narrazione pubblica che riproduce il mito della polizia in prima linea per la difesa dei più deboli, avvalorata prevalentemente, oltre che da comizi politici, da milioni di euro spesi in soap opera che raccontano di innamorati e amanti col distintivo. L’amore è una cosa bella, ma in questo caso noi dobbiamo moltiplicare l’abuso che emerge nel caso eccezionale per tutte quelle volte in cui l’assenza di prove, la distruzione eventuale delle testimonianze e la presunzione di impunità comunicativa e istituzionale induce individui in divisa a tenere comportamenti pericolosi, violenti o criminali.

Per questo le manifestazioni pubbliche e di piazza contro gli abusi e gli omicidi compiuti da carabinieri e polizia, lungi dall’essere un problema, sono fondamentali: esse hanno lo stesso significato storico di quelle contro i femminicidi e le violenze di genere, e possono cambiare la nostra società grazie a una presa di coscienza generale che l’Italia ha rimandato da troppo tempo. La mobilitazione di piazza, inoltre, non è qualcosa che si possa contrapporre alla ricerca della giustizia nelle sedi legali. Le due cose sono complementari ed entrambe irrinunciabili. La sfida processuale è irta di ostacoli quando gli indagati o gli imputati sono coloro che redigono i verbali, maneggiano le prove, forse commettono dei delitti e hanno stretti o stabili rapporti di collaborazione con alcuni magistrati. Tuttavia, come hanno dimostrato le battaglie per Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, è nella procedura penale che emerge almeno in parte il dettaglio microscopico, e per questo tanto più istruttivo, delle pratiche di violenza e omertà.

Non è la magistratura, tuttavia, a dover trarre le debite conclusioni sociologiche, storiche e politiche da fatti di sangue di questo genere. Questo compito è della società tutta, a partire da chi abita le città e i quartieri dove queste e altre prevaricazioni – ad opera della polizia o di chiunque altro – avvengono. I giornalisti e gli intellettuali dovrebbero invece dedicare più attenzione a queste tematiche e avere più coraggio, comprendendo che la morte in tali circostanze di un giovane milanese di seconda generazione deve occupare il centro della comunicazione pubblica e del dibattito in Italia. Forse non è stato messo a fuoco cosa attende la società futura se forti ed estese mobilitazioni, sociali e culturali, non iniziano a risolvere questo problema, qui e ora.

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La morte di Ramy Elgaml e quel festival della menzogna che ricorda tanto Genova 2001 - Lorenzo Guadagnucci

Commenti sprezzanti verso la vita degli altri, verbali distorti, testimonianze inquinate. Dal video dell’inseguimento a Milano nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024 emergono scenari inquietanti. In attesa che la Procura faccia chiarezza, ci sono però delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero già rispondere. Per non recitare la stessa ignominiosa parte di 24 anni fa

“Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade. No, merda, non è caduto”. Possiamo partire da qui, da questa frase detta da un carabiniere durante l’assurdo inseguimento nelle vie di Milano, per qualche breve considerazione su quanto avvenuto nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024.

Il fatto è noto: uno scooter, con due giovani a bordo, non si ferma all’alt dei carabinieri per un controllo e due volanti si mettono all’inseguimento; è una corsa a tutta velocità nella notte, pericolosissima soprattutto per gli occupanti dello scooter e per eventuali passanti; dura ben otto chilometri, a un certo punto anche lungo una strada imboccata contromano.

Fino all’epilogo: lo scooter che svolta a sinistra, l’auto dei carabinieri così vicina che forse lo sperona, lo schianto dei due mezzi contro un palo del semaforo e la morte immediata del passeggero dello scooter, Ramy Elgaml, mentre il conducente, ferito gravemente, riuscirà a cavarsela dopo aver trascorso un periodo in ospedale in stato di coma.

C’è un’indagine in corso con sei carabinieri e il conducente dello scooter indagati per vari reati (omicidio stradale, falso, depistaggio, favoreggiamento personale a vario titolo per i carabinieri; omicidio stradale, resistenza a pubblico ufficiale per il giovane) e toccherà ai periti chiarire alcuni fatti: per esempio, se la gazzella dei carabinieri abbia speronato la moto nella curva fatale, o se in precedenza vi siano stati altri contatti fra i due mezzi e di che tipo (fortuiti o volontari?). E se davvero al testimone sfiorato dallo schianto, che aveva ripreso la scena col suo telefonino, sia stato immediatamente imposto, come ha dichiarato, di cancellare il video.

Qualcosa intanto però possiamo dire, a cominciare dalle frasi registrate quella notte. Oltre al “chiudilo che cade” e al “no, merda, non è caduto”, ci sono anche un “vaffanculo, non è caduto” e un “bene” alla fine della storia, quando arriva la notizia che i due ragazzi “sono caduti” (ma, va detto, senza nulla specificare sulle conseguenze per i due giovani).

Sono frasi che vengono giustificate con l’adrenalina e la concitazione del momento, ma che fanno pensare a scenari inquietanti, vista anche la dinamica del fatto: un inseguimento assurdo, rischiosissimo, a prima vista sproporzionato.

Sono frasi che fanno venire in mente un’altra nota registrazione, di 24 anni fa: il dialogo tra un’agente della questura e una volante di polizia il 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova. A un certo punto si parla di quel che sta avvenendo in piazza, delle “zecche” -cioè i manifestanti- che stanno impegnando le forze dell’ordine, e l’operatrice, commentando i fatti, se ne esce con un eloquente “intanto, uno a zero per noi, yeah”, riferito all’uccisione in piazza Alimonda di Carlo Giuliani, colpito il giorno prima alla tempia da una pallottola sparata da un carabiniere e subito dopo calpestato dal “Defender” dell’Arma. “Che simpatica”, replica il poliziotto all’altro capo del telefono. 

In attesa che la Procura chiarisca i fatti e chieda, se necessario, di processare i responsabili di eventuali abusi e reati, ci sono delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero rispondere.

Hanno chiesto conto di quelle frasi? Si sono domandati, come noi, se per caso i carabinieri quella notte abbiano perso il senso della misura? Si sono chiesti se sia ben chiaro, a chi lavora nelle forze dell’ordine, che le vite degli altri, qualunque sia il loro profilo, -“sono dei delinquenti, dei rapinatori, se la sono cercata”, è stato detto a posteriori dei due ragazzi sullo scooter, quasi a giustificare l’esito letale- sono vite da tutelare, non da mettere a rischio?

Hanno compreso quanto sia grave la denuncia del testimone sulla cancellazione del video dal telefonino? Sono domande che hanno una cornice: si ricordano, carabinieri e ministro, come andò al G8 di Genova? Sicuramente sì, ma, per sicurezza, possiamo rammentarglielo noi.

A Genova non ci furono solo violenze ingiustificate, torture di massa e un omicidio, fu anche una fiera del falso negli atti pubblici: falso il verbale dell’arresto di massa alla scuola Diaz, falsi innumerevoli verbali di singoli arresti eseguiti per strada, falsi i verbali del carcere delle torture a Bolzaneto.

Fu il festival della menzogna, della tortura e del disprezzo per i diritti e anche per la dignità dei cittadini. Fu il punto più basso per la credibilità delle nostre forze dell’ordine e non si è più risaliti, per la precisa ragione che i vertici delle nostre polizie fecero muro, non chiesero scusa, non indagarono le ragioni profonde di condotte così gravi. E non fecero autocritica. 

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Scudo penale agli agenti: col grimaldello della sicurezza, il governo smantella la separazione dei poteri - Fabio Anselmo

La ‘sicurezza’ è il grimaldello che il governo sta usando per smantellare il principio costituzionale di separazione dei poteri. La propaganda costituisce per la sua azione mezzo e scopo insieme. Con la propaganda si può creare il caos e nel caos tutto si può accettare, anche gli imbarazzanti strafalcioni della comunicazione istituzionale così come la si può leggere sui media odierni.

Dopo gli attacchi ai magistrati dell’immigrazione, gli interventi a gamba tesa (istituzionale) a danno dei pm del processo di Palermo, le intimidazioni esplicite a quel tribunale materializzate da violente prese di posizione da parte di esponenti del governo, dimentichi delle proprie responsabilità, ora si sbandierano, sul cadavere di Ramy Elgaml, norme tanto fantasiose quanto eversive in danno del nostro Paese, tutte dichiaratamente ostili alle indagini per fatti analoghi a quello di Ramy, oggi, di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, ieri.

Stiamo parlando di questo e di niente altro di diverso. In caso di sospetti abusi, gli agenti non vanno iscritti nel registro degli indagati se non in caso di prove ‘evidenti’. Nella maggioranza delle vicende giudiziarie si raggiunge l’evidenza della prova solo ad esito dell’indagine, quasi mai subito. Si tratta di un concetto che esprime un ossimoro giuridico.

Due semplici osservazioni:
– scudo penale per difenderli dalla legge penale che loro stessi sono chiamati a far rispettare e che gli stessi pm non possono certo derogare. Ma gli agenti sì?
– essere indagato come atto dovuto è una garanzia per colui che è sottoposto ad indagini per un fatto che può essere un reato. Gli consente di partecipare ad accertamenti anche tecnici che potranno essere determinanti per fare chiarezza sugli accadimenti oggetto di investigazione. Si chiama diritto di difesa. Perchè impedirlo agli agenti diversamente da tutti gli altri cittadini? Perché se la verità sulla quale si farà luce sarà scomoda per l’agente allora non si potranno utilizzare le prove raccolte contro di lui perchè non ha potuto difendersi. Impunità.

L’ex magistrato Roberto Settembre dice oggi che in uno Stato democratico le forze dell’ordine hanno il monopolio dell’uso della forza “ma questo dato di fatto – continua – ha alla base un presupposto essenziale: la responsabilità.”

Leggo i proclami governativi che si susseguono in queste ore approfittando del clamore provocato a seguito della morte di Ramy. Qualcuno parla di dare la competenza per l’avvio della prima fase dell’istruttoria di questo tipo di procedimenti al ministro dell’Interno (sic!). Al limite, in seconda battuta ma non si capisce bene, alle ‘procure delle corti d’appello’ perché sarebbero ‘più morbide’. Spero che i cronisti non abbiano ben compreso.

A prescindere dall’abnormità di un sistema di tal fatta sotto ogni punto di vista, quello Costituzionale in primis, credo sia sempre opportuno cercare di avere una prospettiva concreta di messa a terra di queste idee profuse in libertà e sotto l’entusiasmo avanti l’indubbia efficienza della propria propaganda sulla opinione comune.

Ve l’immaginate voi cosa sarebbe accaduto dopo la morte di Stefano Cucchi? Allora si espresse con tutta la forza e il vigore possibili non il ninistro dell’Interno ma quello della Difesa, Ignazio La Russa, che giurò sull’estraneità dei fatti per i Carabinieri coinvolti nel suo arresto. Fummo costretti, infatti, a partecipare a sei anni di processi sbagliati che vedevano imputati gli agenti della penitenziaria e testimoni di accusa i carabinieri. Il resto è storia nota.

Per Ramy si è subito espresso colui che si ritiene ministro dell’Interno in pectore, Salvini. I carabinieri si sono comportati correttamente. Amen.

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