Riuscirà una massiccia iniezione di sussidi, quella rivendicata da
Confindustria, sindacati e opposizione, i 4,6 miliardi di euro che il governo
ha sottratto al settore (per darli al Ponte?), o quella proposta a livello di
Unione Europea (100 miliardi, ma forse 500, da finanziare con gli eurobond…) ad
arginare o invertire il corso della crisi dell’automotive? Per fare che cosa? Per
sovvenzionare l’offerta: le produzioni nazionali sempre più orientate all’alta
gamma, sia termica che elettrica, cioè solo per chi può permettersele. Le
utilitarie “non danno margini”, la loro produzione finisce dove i salari sono
più bassi. E per sovvenzionare la domanda: con incentivi all’acquisto di
vetture, sia termiche che elettriche, ma anche qui, nonostante i proclami, per lo
più di alta gamma. Perché, dazi o no, sul prezzo, nella bassa gamma, stravince
la Cina.
La crisi mostra che l’epopea dell’automobile è ormai al tramonto: è stata per un
secolo il motore dello “sviluppo” ed è anche oggi al centro dei desideri e dei
programmi nei Paesi emergenti, decisi a bruciare le tappe che hanno portato al
declino quelli “sviluppati”. Ma la saturazione è vistosa. L’industria
dell’auto è ormai un questuante col cappello in mano: non solo in Europa,
ma anche negli Usa e in Cina, che i sussidi li hanno da tempo o da sempre.
Perché?
Uno. Costa troppo. Raffrontata a un salario medio, sia in
Italia che in Europa, l’auto più economica costa più del doppio di 50 anni fa.
Mantenerla anche. L’accesso all’auto è stato per anni una conquista, mentre
oggi è per lo più una necessità per andare a lavorare o per la famiglia.
Due. Da emblema di libertà (solo nella pubblicità, dove non c’è mai il
traffico), l’auto si è trasformata in schiavitù: congestione,
inquinamento da particolato e stress sono cose che l’auto elettrica non elimina. Cresce
poi anche in Italia l’uso della bicicletta.
Tre. Il passaggio obbligato all’elettrico ha rallentato le vendite
delle auto elettriche, in attesa che migliorino in qualità e prezzo e
di quelle termiche, perché destinate all’estinzione e soggette a vincoli sempre
più stretti.
Quatto. L’evoluzione è rapida: le auto di oggi sono, come ripete
l’economista Vincenzo Comito, dei “telefoni con le ruote”, tutte
connesse, dentro e fuori. Si può prendere un’auto a noleggio ovunque e
lasciarla dove si vuole, senza bisogno di possederne una. Poi, con la guida
autonoma, averne una propria sarà un non-senso. La condivisione ne
ridimensionerà il numero, sia sulle strade (finalmente!) che in produzione.
Cinque. Molti giovani ne fanno ormai a meno, in Giappone più
che altrove. L’accesso all’auto, anche se solo “di famiglia”, non è più
un rito di iniziazione come è stato per anni: a volte meglio chattare
online che immergersi nel traffico per incontrarsi. La disaffezione è nascosta dalla
diffusione delle auto aziendali: in Italia le vendite alle aziende sono il 40%
del totale; in Europa il 60. In molti casi sono fringe benefits (salari
esentasse) e non “mezzi di produzione”, ma a ogni taglio dei costi rischiano di
ridursi.
Sei. In molti casi l’industria dell’auto è già un
ferrovecchio anche se gli impianti sono nuovi: utile per succhiare
profitti e riscuotere sovvenzioni, ma senza prospettive di ripresa. Il caso
Fiat-FCA-Stellantis in Italia è uno di questi; prolunga l’agonia di lavoratori
in attesa di un “rilancio”, prigionieri della cassa integrazione, della loro
disperazione, di denari pubblici gettati al vento, dell’ostinazione a mantenere
in vita strutture senza avvenire per nasconderne la bancarotta. L’Ilva dovrebbe
insegnarcelo: quindici anni fa si poteva forse prendere ancora atto della sua
situazione, coinvolgerne i lavoratori, “liberi e pensanti”, che ne erano ben
consapevoli, in una “conferenza di produzione”, un confronto con tecnici,
economisti, associazioni del territorio e governo locale, sulle possibili
alternative. Oggi quell’azienda non si troverebbe in questa impasse. Ma anche
la Fiat-FCA-Stellantis tiene da anni in cassa integrazione metà dei dipendenti:
si poteva impiegare quel loro tempo “libero” a discutere, progettare e
prepararsi professionalmente a delle alternative produttive, come trasporto
pubblico, sia di massa che flessibile e conversione energetica in tutte le
forme. Alternative obbligate per mettere in sicurezza sia i posti di lavoro che
il Paese, se solo ci si fosse collocati nell’orizzonte della crisi climatica
ormai incombente.
Tutto si è svolto invece nello scenario Business as usual di
un contesto inalterato, ma la crisi climatica è destinata a moltiplicare
eventi estremi e dissesti del territorio che non ci lasceranno più “in pace”. E
le guerre meno che mai. Difficile, per chi non si trova già oggi in una zona di
guerra o sotto un uragano, immaginare quanto la vita quotidiana ne potrà essere
sconvolta. Un assaggio l’abbiamo già avuto con il covid: componenti, ricambi,
combustibili, elettricità e persino alimenti potrebbero non arrivare più per
tempo e la nostra auto lasciarci per strada o finire in un ammasso di fango e
lamiere come a Valencia. Potenziare il trasporto pubblico di massa e
flessibile e una rapida conversione energetica sono soluzioni di “adattamento”
alla crisi climatica per garantire la nostra mobilità domani.
Nessun commento:
Posta un commento