Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere
immane a chi ha deciso di deportare in massa i vecchi o a chi ha deciso di
deportare in massa su un pianeta-penitenziario, tutti coloro che sulla Terra
disturbano l’equilibrio della società.
Leggo che ieri, 20 gennaio 2025, Donald Trump ha detto
e poi ripetuto che “l’età dell’oro dell’America comincia in questo momento”;
l’ha fatto all’inizio e alla fine del discorso d’inaugurazione che voleva
celebrare la rinascita di un Paese “forte, ricco, sicuro, in crescita e in
espansione territoriale, e che nessuno potrà fermare”.
Fra le tante cose, “Trump ha anche promesso di
«riprendersi il canale di Panama» […] di mettere fine alle politiche ecologiche
del New deal verde (e alle quote di veicoli elettrici fissate da Joe Biden) per
dichiarare una «emergenza energetica nazionale» che autorizzerà la più grande
trivellazione di petrolio e gas della storia [e che questa] ondata di «oro
liquido» finanzierà a sua volta un’espansione dell’apparato militare americano
che metterà gli Stati Uniti in condizione di «vincere come non mai»”.
Non che quanto sopra m’abbia sorpreso, sia chiaro:
duranti i mesi scorsi, spesso s’era letto delle intenzioni del tycoon,
deportazione di massa compresa.
In un articolo pubblicato il novembre scorso su Avvenire avevo letto che, durante la
campagna elettorale, Donald Trump aveva promesso che la deportazione di massa
non porterà che benefici: “Ci libereremo dai criminali e i salari dei cittadini
statunitensi smetteranno di scendere” – la deportazione di massa in questione
prevedeva l’arresto, detenzione ed espulsione dagli Stati Uniti di circa undici
milioni d’immigrati.
L’articolo proseguiva facendo presente che gli esperti
di immigrazione mettevano in dubbio la riuscita di un’operazione del genere,
sottolineando il fatto che presentava ostacoli, costi ed effetti negativi
enormi.
Non vorrei dilungarmi troppo su ostacoli, costi ed
effetti negativi, ma ammetto di non esser rimasto indifferente nel leggere che,
logisticamente, arrestare detenere ed espellere undici milioni circa di persone
è “un’impresa ciclopica, impossibile da realizzare nei quattro anni di mandato
di Trump” – parole di Aaron Reichlin-Melnick, direttore dell’American
Immigration Council – e che, più nello specifico, ogni anno, per deportare un
milione di immigrati, servirebbero ottantotto miliardi di dollari.
Mi ha pure impressionato leggere che “se
effettivamente l’operazione riuscisse, i ricercatori concordano che
equivarrebbe a un «disastro economico» per gli Stati Uniti. La rimozione dalla
forza lavoro di così tante persone comporterebbe infatti perdite di decine di
miliardi di dollari in tasse federali e statali e in contributi previdenziali,
oltre a 256 miliardi di dollari di potere di spesa degli immigrati stessi”
oltre al fatto che “il contraccolpo dell’assenza di manodopera sarebbe sentito
con forza anche nell’ambito dell’ospitalità, delle pulizie, della produzione
manifatturiera e dei servizi agli anziani […] le cucine dei ristoranti si
svuoterebbero, e nessuno pulirebbe più le stanze degli alberghi”.
Ma la cosa che più di tutto mi ha spaventato è stato l’utilizzo
della parola deportazione: “President-elect Donald Trump intends to launch a
«light speed» mass deportation campaign as soon as he «puts his hand on that
Bible and takes the oath of office», top aide Stephen Miller has boasted”,
ossia, “Il presidente eletto Donald Trump intende lanciare una campagna di
deportazioni di massa «alla velocità della luce» non appena «metterà mano su
quella Bibbia e presterà giuramento», si è vantato il principale aiutante
Stephen Miller”.
Per la Treccani, il significato di deportazione è la
“pena mediante la quale il condannato viene privato dei diritti civili e politici,
allontanato dal luogo del commesso reato o di residenza e relegato in un
territorio lontano dalla madrepatria”, e a questo punto mi vengono in mente le
parole di Albert Camus che, nel ’58, scrisse: “Per ristabilire la giustizia
necessaria, esistono altre vie che non siano la sostituzione di un’ingiustizia
con un’altra ingiustizia” – una frase presa da un libro intitolato Ribellione
e morte, che raccoglie diversi suoi saggi politici.
Di questo volume vale la pena ricordare altre due
affermazioni dello scrittore e filosofo francese, stavolta datate 1948: “Tutti,
con poche eccezioni di mala fede, da sinistra a destra, pensano che la propria
verità sia la più adatta a rendere felici gli uomini. Tuttavia, tutte queste
buone volontà congiunte mettono capo a un mondo infernale dove gli uomini sono
ancora uccisi, minacciati, deportati, dove si prepara la guerra e dove è
impossibile dire una parola senza essere subito insultati o traditi” e
“Soffochiamo tra gente che crede di aver assolutamente ragione, ragione in nome
delle macchine o delle idee”.
Ricordo bene le deportazioni di milioni di persone in
lager, gulag e strutture similari, ma ho deciso di non avventurarmi in
qualsivoglia parallelismo perché sono certo finirei col commettere errori e
sono altrettanto sicuro che, coi tempi che corrono, a nulla servirebbe spiegare
la mia buonafede.
Detto questo, torno a ragionare sulla “deportazione”
chiedendo aiuto alla letteratura. Nel 1971 viene pubblicato un romanzo di
Friedrich Dürrenmatt, La caduta; è un libro spietato in cui
l’autore mette a nudo le ipocrisie e le ambiguità delle strutture al potere,
dove gli uomini più potenti di un partito al potere di un paese imprecisato ne
decidono le sorti stando comodamente seduti intorno a un tavolo: “I tredici del
segretariato politico disponevano di un potere immane. Decidevano le sorti di
quell’immenso impero, mandavano innumerevoli persone in esilio, in carcere e
alla morte, intervenivano nell’esistenza di milioni di cittadini, facevano
nascere industrie intere dal nulla, deportavano famiglie e popoli, fondavano
grandi città, reclutavano eserciti innumerevoli, imponevano la guerra o la
pace, ma poiché il loro istinto di conservazione li costringeva a spiarsi a
vicenda, le simpatie e le antipatie che provavano l’uno per l’altro
influenzavano le loro decisioni assai più che i conflitti politici e le
circostanze economiche a cui si trovavano di fronte. Il potere e di conseguenza
il terrore reciproco erano troppo grandi per poter fare della pura politica. La
ragione non riusciva a spuntarla”.
È così, non c’è dubbio, chi dispone di un potere
immane può intervenire nell’esistenza di milioni di persone, deportare popoli
interi. È così, la Storia lo insegna. Il problema è che siamo noi a non essere
in grado d’imparare, e alla fine commettiamo sempre gli stessi errori,
consegniamo poteri immani nelle mani di qualcuno.
Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere
immane a chi ha deciso di deportare in massa i vecchi, così come racconta
l’argentino Adolfo Bioy Casares nel suo romanzo del ’69, Diario della
Guerra al Maiale, dove i giovani di Buenos Aires decidono un bel giorno che
chiunque abbia più di cinquant’anni è inutile alla società scatenando, così,
una strana e misteriosa guerra durante la quale, per una settimana, i giovani
s’impegnano a dare la caccia ai vecchi, e a sterminarli: persino il loro
erotismo verrà considerato pura perversione, un’oscenità da eliminare. Nel Diario
della Guerra del Maiale i vecchi si vedono costretti a improvvisare
una difesa disperata: imparano a muoversi per la città in orari improbabili e a
vivere nascondendosi dai giovani, compresi i loro figli: “In questi giorni ho
sentito parlare di un progetto di compensazione: l’offerta, alla gente anziana,
di terre nel Sud”, “Lo dicano chiaramente e direttamente che vogliono deportare
in massa i vecchi”.
Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere
immane a chi ha deciso di deportare in massa su un altro pianeta i ribelli, i
criminali, i non-conformisti, tutti coloro che sulla Terra disturbano l’equilibrio
della società, tutti quanti spediti su un pianeta-penitenziario e qui, magari,
lasciati in totale libertà, nessuna prigione, niente celle, sbarre o
carcerieri, si regolino a loro piacere, s’ammazzino pure: sarà mica per questo
che, durante il suo discorso d’insediamento, Trump ha nuovamente ricordato che
gli U.S.A. pianteranno la loro bandiera su Marte? Gli appassionati di
fantascienza avranno già capito che questa mia elucubrazione s’è ampiamente
ispirata al romanzo del 1960 di Robert Sheckley, Gli orrori di Omega,
dove, tra le altre cose, si racconta di astronavi che pattugliano l’orbita del
pianeta-penitenziario perché i galeotti non abbandonino il mondo su cui son
stati esiliati: sarà mica per questo che due amici di Trump – Jeff Bezos ed
Elon Musk – hanno dato vita alla corsa allo spazio, a una sfida stellare?
Dico che Bezos e Musk sono amici di Trump perché,
insieme a Mark Zuckerberg e Tim Cook, c’erano anche loro accanto al tycoon
durante l’Inauguration Day. Spero mi perdonerete se vi confido che quest’immagine
del neopresidente degli Stati Uniti e di questi quattro signori, mi ha fatto
venire in mente il discorso d’insediamento a Cancelliere del Reich di Adolf
Hitler quando, a Berlino, nel febbraio del 1933, orbitavano intorno al fuhrer
personaggi quali Josef Goebbels, Hermann Goering, Heinrich Himmler e Rudolf
Hess; chiedo sinceramente scusa per questo mio corto circuito, ma credo sia
scaturito per via del fatto che, così come Hitler nel ‘33 preannunciava durante
il discorso d’insediamento il suo piano per riportare grande la Germania,
similmente Trump ha preannunciato durante il discorso d’insediamento il suo
piano per riportare grande gli Stati Uniti d’America; ma, molto probabilmente,
la più grande responsabilità di questa mia fantasia poco ortodossa e assai
irrispettosa, lo ammetto, sarebbe da addebitare all’aver assistito al saluto
romano di Musk dal palco di Washington dopo il discorso di Trump. Anche se,
alla fin fine, “quel gesto, che alcuni hanno scambiato per un saluto nazista, è semplicemente Elon, che è
autistico, che esprime i suoi sentimenti”, come dice il referente di Musk in
Italia, Andrea Stroppa.
E nulla cambia se, alla fine, i saluti col braccio destro
alzato e il
palmo della mano rivolto verso il basso dovessero risultare due e non uno: sono
certo nulla c’entrino simpatie come quella dimostrata verso l’Alternative für
Deutschland – partito politico tedesco di estrema destra –, ma che si tratti di
sana e genuina esternazione di entusiasmo e felicità, insomma, di semplice
espressione di sentimenti.
La grandezza della Germania… quella degli Stati Uniti
d’America… le deportazioni di massa… mi viene in mente cosa scrisse Orwell:
“Tutti i nazionalisti hanno la straordinaria capacità di non cogliere la rassomiglianza
tra serie simili di fatti. […] Le azioni non sono buone o cattive di per sé ma
in relazione a chi le compie e non esiste quasi alcun genere di violenza – la
tortura, l’uso di ostaggi, il lavoro forzato, le deportazioni di massa,
l’arresto indiscriminato, la mistificazione, l’assassinio, le bombe sugli
inermi – che non cambi significato morale se commessa dalla “nostra” fazione” –
frase tratta da una raccolta di suoi saggi intitolata Nel ventre della
balena.
Data la mia personalissima impressione che le nuove
ideologie sembrino assomigliarsi sempre più a quelle vecchie, chiuderei con
un’altra frase di Camus, anche questa del ‘48: “non si tratterebbe di edificare
una nuova ideologia, ma soltanto di ricercare uno stile di vita. […] per
parlare con più concretezza […] opporre, in ogni circostanza, l’esempio alla
forza, la predicazione alla dominazione, il dialogo all’insulto e il semplice
onore all’astuzia […]”.
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