lunedì 6 gennaio 2025

Quel blitz in solitudine di Meloni che riscrive le regole - Flavia Perina


Il viaggio-lampo chiarisce che Meloni vuole giocarsi da sola e in prima persona la relazione con gli Stati Uniti

 

Il segreto. L’irritualità. L’urgenza. Sono le tre parole che sovraintendono alla visita lampo di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago, che senza questi elementi sarebbe poco più della solita visita del capo del governo italiano al capo della Casa Bianca, un copione che si ripete dai tempi di Alcide De Gasperi con andamento sempre uguale. Foto di circostanza. Sorrisi. Elogio del fedele alleato italiano, chiunque sia. Persino Beppe Grillo nel 2008 beneficiò dei complimenti dell’ambasciatore Usa che lo aveva ricevuto a Roma: «Interlocutore credibile». E tuttavia segreto, irritualità, urgenza, rendono il viaggio di Meloni diverso da tutti, un colpo di teatro che spiazza alleati e avversari rendendo chiara l’intenzione della premier di giocarsi da sola, in prima persona, la relazione con gli Usa all’avvio di una presidenza ancora piuttosto indecifrabile. Una strategia ad alto rischio perché vai a vedere come finirà con i dazi, con l’Ucraina, e soprattutto con Cecilia Sala, il casus belli del momento, quello che probabilmente ha spinto la presidente del Consiglio a giocarsi il suo all-in.

Il segreto assoluto con cui è stato preparato il viaggio, si dice all’insaputa della stessa Farnesina, marca l’egemonia assoluta sui suoi vice e soprattutto su Antonio Tajani, che mai come adesso appare tagliato fuori dalla partita americana, surclassato da Meloni nell’attivismo diplomatico innescato dal caso Sala. L’incontro della premier con la madre della giornalista, dopo giorni di notizie frammentarie e talvolta false sulle condizioni della sua detenzione in Iran, è un segnale che va al di là della specifica vicenda e dice al Paese: quando c’è un guaio vero, l’unica di cui fidarsi è Giorgia. Quanto a Matteo Salvini, figuriamoci. Ancora pochi mesi fa immaginava di essere lui l’interlocutore in capo della nuova Casa Bianca sovranista, trumpiana, muskiana, il leader che il mondo Maga avrebbe riconosciuto fratello, il primo italiano a stringere la mano al neo-presidente nella cerimonia d’insediamento del 20 gennaio dove Meloni era incerta se andare. Addio speranze. Se parteciperà, sarà uno del leader-tappezzeria dell’occasione, e pure la photo opportunity alla Casa Bianca non avrai mai la forza dell’ingresso di Meloni a Mar-a-Lago, tra i supporter di Trump che urlano deliziati.

L’irritualità è il secondo segno dei tempi da tenere d’occhio. Scassa ogni ordinaria procedura e cautela, trasforma in sarabanda il minuetto diplomatico che sempre sovrintende ai grandi cambi della guardia internazionali. Trump non si è ancora insediato, il presidente in carica è Joe Biden che per di più sta per arrivare a Roma, scelta come ultima visita di Stato del suo mandato, ed è evidente che il colloquio Trump-Meloni in Florida svuoterà di significato l’occasione (chissà che The Donald non abbia dato il via libera alla missione pensando pure a questo). E tuttavia, anche qui: sono i tempi. È lo stile della nuova tecnodestra americana. È l’approccio iper-pragmatico al potere che recide i lacci e i lacciuoli della consuetudine, gli impicci bizantini del protocollo, in attesa di tagliare altri rituali dell’ancient regime, i sussidi, gli impiegati inutili, le spese di assistenza. E rientra senz’altro in questa nuova spregiudicatezza la proiezione, nel corso della visita, del documentario complottista in favore di Jhon Eastman, l’avvocato che guidò il tentativo di annullare l’elezione di Biden, coinvolto nell’assalto a Capitol Hill. Questa amministrazione, è l’avviso, non dimentica nulla. Guai ai vinti.

E poi, l’urgenza. Resta da vedere di chi fosse, e per quale motivo. L’urgenza italiana di riportare a casa Cecilia Sala col minor danno politico possibile e di impostare il discorso sui dazi prima che il neo-presidente lanci il suo piano. L’urgenza del nuovo presidente Usa di dimostrare, prima ancora di entrare nello Studio Ovale, che il fronte europeo non esiste e che la sua Casa Bianca ha un asse privilegiato non solo con figure screditate come Viktor Orban, ma anche con la premier di un Paese fondatore. In mancanza di pubbliche comunicazioni – anche quelle orpelli del passato – bisognerà attendere per capire meglio. Salvo affidarsi al fotomontaggio diffuso dall’agente italiano di Elon Musk nella notte di Mar-a-Lago, in cui Trump appare come un possente imperatore romano affiancato da una Meloni-matrona e da un Musk in toga sacerdotale. Forse il vero contenuto della missione lampo, il vero messaggio, è tutto lì.

da qui

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