Il viaggio-lampo chiarisce che Meloni vuole giocarsi da sola e in prima persona la relazione con gli Stati Uniti
Il segreto. L’irritualità. L’urgenza. Sono le tre parole che sovraintendono
alla visita lampo di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago, che senza questi
elementi sarebbe poco più della solita visita del capo del governo italiano al
capo della Casa Bianca, un copione che si ripete dai tempi di Alcide De Gasperi
con andamento sempre uguale. Foto di circostanza. Sorrisi. Elogio del fedele
alleato italiano, chiunque sia. Persino Beppe Grillo nel 2008 beneficiò dei
complimenti dell’ambasciatore Usa che lo aveva ricevuto a Roma: «Interlocutore
credibile». E tuttavia segreto, irritualità, urgenza, rendono il
viaggio di Meloni diverso da tutti, un colpo di teatro che spiazza alleati e
avversari rendendo chiara l’intenzione della premier di giocarsi da sola,
in prima persona, la relazione con gli Usa all’avvio di una presidenza ancora
piuttosto indecifrabile. Una strategia ad alto rischio perché vai a vedere come
finirà con i dazi, con l’Ucraina, e soprattutto con Cecilia Sala, il
casus belli del momento, quello che probabilmente ha spinto la presidente
del Consiglio a giocarsi il suo all-in.
Il segreto assoluto con cui è stato preparato il viaggio, si dice
all’insaputa della stessa Farnesina, marca l’egemonia assoluta sui suoi
vice e soprattutto su Antonio Tajani, che mai come adesso appare
tagliato fuori dalla partita americana, surclassato da Meloni
nell’attivismo diplomatico innescato dal caso Sala. L’incontro della premier
con la madre della giornalista, dopo giorni di notizie frammentarie e talvolta
false sulle condizioni della sua detenzione in Iran, è un segnale che va al di
là della specifica vicenda e dice al Paese: quando c’è un guaio vero,
l’unica di cui fidarsi è Giorgia. Quanto a Matteo Salvini,
figuriamoci. Ancora pochi mesi fa immaginava di essere lui l’interlocutore in
capo della nuova Casa Bianca sovranista, trumpiana, muskiana, il leader che il
mondo Maga avrebbe riconosciuto fratello, il primo italiano a stringere la mano
al neo-presidente nella cerimonia d’insediamento del 20 gennaio dove Meloni era
incerta se andare. Addio speranze. Se parteciperà, sarà uno del
leader-tappezzeria dell’occasione, e pure la photo opportunity alla
Casa Bianca non avrai mai la forza dell’ingresso di Meloni a Mar-a-Lago,
tra i supporter di Trump che urlano deliziati.
L’irritualità è il secondo segno dei tempi da tenere d’occhio. Scassa ogni ordinaria
procedura e cautela, trasforma in sarabanda il minuetto diplomatico che sempre
sovrintende ai grandi cambi della guardia internazionali. Trump non si è ancora
insediato, il presidente in carica è Joe Biden che per di più sta per arrivare
a Roma, scelta come ultima visita di Stato del suo mandato, ed è evidente che
il colloquio Trump-Meloni in Florida svuoterà di significato l’occasione
(chissà che The Donald non abbia dato il via libera alla missione pensando pure
a questo). E tuttavia, anche qui: sono i tempi. È lo stile della nuova
tecnodestra americana. È l’approccio iper-pragmatico al potere che
recide i lacci e i lacciuoli della consuetudine, gli impicci bizantini del
protocollo, in attesa di tagliare altri rituali dell’ancient regime, i sussidi,
gli impiegati inutili, le spese di assistenza. E rientra senz’altro in questa
nuova spregiudicatezza la proiezione, nel corso della visita, del documentario
complottista in favore di Jhon Eastman, l’avvocato che guidò il tentativo di
annullare l’elezione di Biden, coinvolto nell’assalto a Capitol Hill. Questa
amministrazione, è l’avviso, non dimentica nulla. Guai ai vinti.
E poi, l’urgenza. Resta da vedere di chi fosse, e per quale motivo. L’urgenza
italiana di riportare a casa Cecilia Sala col minor danno politico possibile e
di impostare il discorso sui dazi prima che il neo-presidente lanci il suo
piano. L’urgenza del nuovo presidente Usa di dimostrare, prima ancora di
entrare nello Studio Ovale, che il fronte europeo non esiste e che la
sua Casa Bianca ha un asse privilegiato non solo con figure screditate come
Viktor Orban, ma anche con la premier di un Paese fondatore. In mancanza di
pubbliche comunicazioni – anche quelle orpelli del passato – bisognerà
attendere per capire meglio. Salvo affidarsi al fotomontaggio diffuso
dall’agente italiano di Elon Musk nella notte di Mar-a-Lago, in cui Trump
appare come un possente imperatore romano affiancato da una Meloni-matrona e da
un Musk in toga sacerdotale. Forse il vero contenuto della missione lampo, il
vero messaggio, è tutto lì.
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