Sarebbe lungo l’elenco degli episodi in cui gli Stati Uniti hanno mentito all’opinione pubblica internazionale. Menzogne con cui hanno coperto sabotaggi, movimenti insurrezionali, azioni terroristiche, colpi di Stato, massacri di popolazioni inermi. Basterebbe dare uno sguardo alle ricostruzioni storiche di alcuni grandi giornalisti americani, perché tanti ferventi democratici nostrani, sostenitori delle buone ragioni della Nato, fossero costretti a rivedere le proprie erronee convinzioni. Mi riferisco, ad esempio, a un testo come quello di William Blum, Il libro nero degliStati uniti, Fazi, 2003. A dispetto del titolo da pamphlet sensazionalistico della traduzione italiana (l’originale è Killing Hope: US Military and CIA Interventions since World War II.) si tratta di un imponente volume di 886 pagine, che getta una luce sconvolgente sulla politica estera americana a partire dal dopoguerra. Oppure alla più più recente fatica di Vincent Bevins, Il metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo, Einaudi, 2021. Un testo che svela tutto l’orrore di cui sono state capaci le amministrazioni americane per imporre il proprio dominio planetario, ricacciando nella loro subalternità coloniale tanti paesi del Sud del mondo. Sono pienamente convinto che senza aver letto almeno uno di questi due libri è difficile avere una idea non superficiale della politica estera americana e della reale natura di questo Stato. E certo anche la visione della storia mondiale perde un tassello della sua drammatica verità. Purtroppo i democratici italiani – i pochi che hanno un qualche interesse per le vicende della politica internazionale – si limitano a informarsi sui nostri quotidiani, impegnati a persuadere piuttosto che a informare, o ascoltando la propaganda quotidiana delle nostre TV.
Nel nuovo
millennio la pratica della menzogna e dell’inganno da parte degli USA è
diventata tuttavia moneta corrente delle relazioni internazionali. Dalla promessa a Gorbaciov di non
estendere le basi Nato a Est, al pretesto delle armi di distruzioni di massa
per invadere l’Iraq, dal doppio standard utilizzato nel promuovere
l’indipendenza del Kossovo e nell’osteggiare le ragioni della Crimea. Nel primo
caso uno Stato autonomo, in un’enclave a prevalenza albanese, è stato imposto
alla Serbia a suon di bombe, nel secondo è stata condannata una reintegrazione
nella Federazione russa di una regione da sempre russa, sulla base di un
referendum pacifico in cui a favore si espresse tra il 96 e il 97% della
popolazione. Con grande rispetto della Serbia e dell’alleato russo di allora,
gli Usa poi piazzarono in Kossovo una grande base militare con 5000 uomini (D.
Ganser, Le guerre illegali della NATO, Fazi, 2022)
Ma di
recente la china delle falsificazioni è diventata inarrestabile. Si pensi a
quante volte il governo Biden ha annunciato come prossima una tregua, che
sospendesse la carneficina in corso a Gaza, mentre continuava a opporsi alle
risoluzioni dell’ONU, alle condanne della Corte Internazionale di Giustizia,
inviando nel frattempo migliaia di tonnellate di bombe a Israele perché
continuasse la sua pratica sanguinaria. Ma ci sono stati altri comportamenti
meno cruenti, di cui gli USA sono più o meno segreti ispiratori, e tuttavia non
meno dirompenti negli effetti sulla credibilità dell’Occidente: il rifiuto
del responso delle urne delle elezioni politiche in Georgia, del 26 ottobre
2024, e di quelle presidenziali di dicembre. Cosi come di quelle in
Romania, dove si è contestato al vincitore Calin Georgescu
– perché considerato filorusso – di partecipare al ballottaggio
previsto per l’8 dicembre. È la continuazione di una storia già nota.
Sappiamo che Washington punta da tempo all’inserimento della Georgia nella
Nato, come dichiarato esplicitamente nel cosiddetto “Memorandum di Bucarest”,
emanato a conclusione di un vertice dell’Alleanza nel 2008, che prevedeva anche
l’inclusione dell’Ucraina. Ma non dimentichiamo che in quell’anno, dopo
un’imponente esercitazione NATO, l’esercito georgiano, addestrato e
finanziato dagli Stati Uniti, lanciò un massiccio attacco missilistico e di
artiglieria contro il distretto dell’Ossezia del Sud, popolato da filorussi e
confinante con la Federazione. Un’aggressione che costrinse Mosca a un intervento
armato in difesa della popolazione. Com’é noto (e come credono ancora tanti
democratici italiani) la vicenda è stata rubricata come l’”invasione russa
della Georgia”, una manifestazione dell’”imperialismo di Putin”: vale a dire un
rovesciamento della realtà. E infatti, una commissione dell’Unione
Europea, istituita a ridosso degli avvenimenti, accertò che l’aggressione da
parte dell’esercito della Georgia era «illegale» e che l’iniziativa di
Mosca – intervenuta tra l’altro dopo che erano stati uccisi alcuni peacemaker russi
– era «legittima». (G. Monestarolo, Ucraina, Europa, mondo. Guerra e
lotta per l’egemonia mondiale, Asterios, 2024). L’opposizione ai
risultati elettorali non graditi anche da parte dell’Europa e del resto
dell’Occidente continua dunque la pratica del doppio standard della politica
estera americana. Ma in questo caso l’eversione è ancora più grave: colpisce un
istituto fondamentale della democrazia liberale, l’espressione della volontà
popolare. L’ultima forma di resistenza alle oligarchie che in occidente stanno
svuotando lo stato di diritto
Da questo
rapido quadro c’è da trarre una conclusione in genere poco considerata dagli
analisti filoccidentali. Una così aperta violazione del diritto
internazionale da parte del più potente Stato del mondo e della più grande
e antica democrazia liberale, non solo getta un’ombra di delegittimazione su
tutte le democrazie occidentali al suo seguito, ma produce un danno anche più
grave. La postura attuale degli USA (destinata ad accentuarsi con l’arrivo
di Trump), che li fanno assomigliare al lupo della favola di Esopo,
finisce col togliere ogni credibilità alla politica, ai suoi mezzi,
alle sue capacità di compromesso, al suo stesso linguaggio. Se le parole
dei governi sono una moneta falsa, come si fa a scambiare reciprocamente i beni
di ciascuno? Come si fa a mantenere la stessa legittimità delle relazioni fra
stati. Dunque, il comportamento degli USA e dell’Europa al seguito della Nato,
stanno favorendo la creazione di uno scenario mondiale inquietante, senza che i
protagonisti abbiano l’aria di essersene accorti: l’impraticabilità della
politica e il crescente ricorso argomentativo alla forza delle armi da parte di
tutti i paesi del globo. Ed è facile immaginare che già oggi chi sta subendo il
maggior danno di questa grave svalutazione del governo razionale dei
conflitti sia il popolo ucraino, perché la Russia, troppo a lungo
ingannata, terminerà la guerra solo quando la situazione di vantaggio militare
le consentirà le condizioni di sicurezza che la Nato le ha voluto sin qui
negare.
Ora in che
cosa si può sperare, che cosa possiamo auspicare e soprattutto, pur nelle
nostre limitatissime possibilità, che cosa dovremmo rivendicare,
proporre? Come individuare un qualche spiraglio di prospettiva per uscire
dalla disperazione e soprattutto come mutare in positivo anche il modo di fare
politica delle forze di riformismo anticapitalistico del nostro paese? Forze
che sono tante, variegate, disperse, ma unite nella denuncia, nella condanna,
nell’urlare “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, come scrive Montale. E
tuttavia alquanto incapaci di prospettare qualche sentiero di impegno, di
rivendicazione mirata, di lavoro costruttivo e soprattutto poco volenterose di
farsi carico di ricadute concrete delle proprie analisi e denunce. Io credo
che una rivendicazione utile per dare al movimento pacifista una
maggiore efficacia politica sia la richiesta di un ripristino di relazioni
normali con la Russia. Solo la straordinaria ignoranza (ma spesso anche la
malafede) delle cause della guerra in Ucraina ha impedito ai nostri
rappresentanti politici, ma anche a intellettuali e studiosi, di scorgere una
delle ragioni fondamentali che hanno spinto gli USA a provocarla: staccare la
Russia dall’Europa, colpire le condizioni di vantaggio economico del
Vecchio Continente, basato sul basso costo delle fonti di energie, sbarrare il
corridoio strategico (fatto di strade, ferrovie, gasdotti, oleodotti ecc.) che
dall’Asia Centrale, attraverso Ucraina e Bielorussia, arriva sino all’Europa e
al Mediterraneo. Una nuova area di economia e di scambi che avrebbe consentito
ben presto all’Europa di assumere una centralità strategica assolutamente
inedita e assai temuta dagli Americani. Gli USA, dotati di gruppi dirigenti
imperiali, programmano le loro strategie con lo sguardo al futuro e su scala
planetaria. Il ceto politico europeo, diviso e indebolito dalla
perdita di legami con le masse popolari, sguazza nelle piccole bagattelle
elettorali, fa minuta ragioneria contabile e si autopunisce con le politiche di
austerità. La politica estera la lascia alla Nato, cioè agli USA,
immaginati come stato amico e protettore.
Oggi appare evidente (ma fino a un certo punto)
perfino a un leader della statura di Scholz, che le sanzioni varate da
USA e Nato sono anche in danno degli interessi materiali dell’Europa. Esse
non sono altro che barriere doganali, come ha mostrato, tra gli altri, Emiliano
Brancaccio (Le condizioni economiche della pace, Mimesis, 2024)
destinate a colpire certo la Russia, ma più rovinosamente le nostre economie.
Ebbene, i vari movimenti contro la guerra devono a mio avviso puntare a rendere
evidenti i danni che la condotta di governi e dei partiti politici
filoatlantici infligge alla nostra economia e alle condizioni di vita dei
cittadini. Non abbiamo i dati che sarebbero necessari. Ma sappiamo, ad esempio,
che già a un anno dall’inizio della guerra le imprese europee
lamentavano, solo in danni diretti, ben 100 miliardi di euro di perdite (P.
Hollinger, E. Sugiura, O. Telling, European companies suffer €100bn hit
from Russia operations, in “Financial Times”, 6 agosto 2023). Non possiedo
informazioni più aggiornate di questa ampiezza. Non è difficile tuttavia
immaginare che i danni si siano accresciuti nel frattempo con l’estendersi
dell’impegno militare. La Germania in recessione ne costituisce una prova
eloquente. Ma sul piano sociale per l’Italia le cose appaiono ancor più
drammatiche. Un dato su tutti: la condizione di povertà assoluta, aumentata in
tutti questi anni, e che con la guerra si è come cronicizzata, passando da 5,6
milioni, del 2021 ai di 5,7 milioni del 2023 confermati nel 2024.
Ora appare
evidente che nei prossimi mesi per i paesi dell’Europa, e dell’Italia
in particolare, si apre uno scenario di drammatica insostenibilità. La
nuova amministrazione USA pretende un contributo alle spese Nato da parte dei
vari stati membri del 5% del PIL. Che per il nostro Paese, gravato da un enorme
debito, costituirà un esborso semplicemente distruttivo. Anche perché combinato
con prospettive economiche manifestamente avverse. L’America first di
Trump vuol dire interessi commerciali privilegiati per l’impero e
dunque probabili barriere alle merci in arrivo considerate competitive. Per
un’economia come la nostra, che in tutti questi anni ha puntato sulle
esportazioni, deprimendo salari e consumi, la politica americana metterà in
gravissima difficoltà molte nostre imprese e dunque il governo, il nostro ceto
politico filoatlantico. Questi ultimi dovranno spiegare in maniera persuasiva
la loro ostinazione suicida nel sostenere la guerra, non solo alle masse
popolari sempre più impoverite, ma anche alle aziende minacciate nella loro
sopravvivenza.
In queste
difficoltà difficilmente aggirabili i movimenti per la pace (i cui dirigenti
dovrebbero studiare con più serietà le cause della guerra, senza cedere alle
favole da rotocalco dei nostri media), devono diventare ancor più credibili
proponendo la fine delle sanzioni alla Russia. Un’operazione
orchestrata dagli USA per gli stessi interessi che ora perseguirà Trump.
Dobbiamo avere il buon senso e il coraggio di rivendicare la ripresa delle
nostre relazioni vantaggiose con quel grande Paese, da cui non abbiamo ricevuto
nessun danno o minaccia. È una scelta di pace, ma necessaria per un Paese che
vuole sottrarsi alle prepotenze dell’amministrazione americana. Una richiesta
da accompagnare con la proposta di una conferenza internazionale di
pace, destinata a ricreare sicurezza e fiducia nelle relazioni tra stati.
Dobbiamo ridare alla politica il protagonismo che è stato compromesso
dall’infedeltà imperialistica degli USA, senza la quale sarà impossibile
salvare l’umanità dalla catastrofe atomica. L’Italia è la sede del papa,
potrebbe costituire il centro di questa grande iniziativa. Un progetto in cui
coinvolgere le più diverse forze e culture e che potrebbe aprire un’era di pace
drammaticamente necessaria anche per cura della biosfera, la nostra casa
comune, che nel frattempo rischia il collasso.
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