mercoledì 22 gennaio 2025

CIA, sempre CIA

 

La matrice tutta atlantista dell’omicidio Mattarella - Pino Arlacchi

La storia è sempre storia del presente. Purtroppo, mi è venuto di pensare osservando le reazioni al docu-film Magma che ricostruisce il delitto Mattarella del 1980. Il filo conduttore dell’opera è la ferma convinzione di Giovanni Falcone che si fosse trattato di un assassinio politico di matrice “atlantica”. Un caso Moro bis a meno di due anni distanza. Perché siamo nel presente? Lo siamo perché siamo in mezzo a una guerra in Ucraina la cui lampante matrice è, appunto, “atlantica”.

Matrice atlantica significa né più né meno che un’origine imperiale, radicata negli interessi e nella volontà superiori dell’impero americano. Matrice atlantica significa violazioni del diritto internazionale nel caso dell’Ucraina, e violazioni del diritto penale e della sovranità nazionale nei casi Moro, Mattarella e La Torre. Significa mettere in atto ingiustizie e degenerazioni delle istituzioni democratiche da negare e nascondere con ogni mezzo soprattutto nei campi di battaglia dei satelliti, cioè nei luoghi della sovranità limitata. Il delitto Mattarella fu un caso Moro bis perché fu uno degli ultimi capitoli italiani della Guerra fredda, avvenuta in Italia anche sotto forma della cosiddetta “Strategia della tensione”. Dico uno degli ultimi perché l’ultimo fu la strage di Capaci, accaduta dodici anni dopo ma come uno strascico della stessa Guerra fredda.

Mattarella era un uomo coraggioso, deciso a proseguire lungo il sentiero proibito dell’accordo di governo con i comunisti che era costato la vita del suo maestro. I

l presidente della Regione Siciliana era stato pesantemente avvertito – come Moro, minacciato esplicitamente da Henry Kissinger un paio di anni prima della sua fine – che il suo esperimento nell’isola violava il fattore K e lo esponeva alle sanzioni previste da Washington in questi casi. Mattarella va a Roma dal ministro dell’Interno Virginio Rognoni, suo compagno di partito e di corrente, che invece di rassicurarlo lo fa preoccupare ulteriormente. Dico questo perché la sua assistente ha confermato che il presidente era rientrato da Roma stravolto e le aveva chiesto di non parlare ad alcuno del suo incontro con Rognoni salvo la sua eliminazione fisica. E dico questo perché sono stato amico di Rognoni, il quale mi ha candidamente detto di aver consigliato Mattarella di essere più prudente e di abbassare i toni. Il vento interno alla Democrazia cristiana ormai spirava in direzione contraria, e il mini-compromesso storico siciliano era considerato come l’ultimo ostacolo alla normalizzazione post-Moro. Al rientro cioè dell’Italia nella sfera della completa fedeltà agli Stati Uniti.

Ho lavorato assieme a Falcone nel mettere insieme i diversi tasselli logici e fattuali dell’omicidio Mattarella e di quello, strettamente connesso, di Pio La Torre, avvenuto due anni dopo. Dove la matrice atlantica era ancora più pronunciata di quella del caso Mattarella, non essendoci qui alcuna seria pista concorrente da esplorare. La Torre aveva un conto aperto pluridecennale con Cosa nostra, ma la sua fine fu opera dei super-anticomunisti di Gladio e della P2 che lo odiavano per la sua battaglia contro gli euromissili in Sicilia.

Le indagini su entrambi i casi non approdarono, com’è noto, a nulla, e furono riprese da Falcone nei suoi ultimi anni, da Direttore degli affari penali del ministero di giustizia, quando era ormai privo di titolarità investigativa diretta. Le indagini furono depistate, si rivolsero subito contro il terrorismo di sinistra, e si concentrarono solo sugli esecutori.

Falcone mi disse di avere trovato una fonte attendibile interna all’estrema destra. Era venuta fuori una significativa partecipazione diretta di capimafia alla rete Gladio. C’era una base logistica Sismi a Trapani, e c’era stato un interessamento iniziale alle indagini da parte di Bruno Contrada – agente Sisde da noi ritenuto un avversario pericoloso.

In questi casi, concordavo con Giovanni, non bastava percorrere il solito processo induttivo che parte dalla scena del crimine e va verso l’alto. Non c’è mai, nei grandi delitti, “la pistola fumante”. Ci sono tanti, tantissimi indizi, e qualche prova. Occorreva perciò seguire anche il percorso inverso, deduttivo, dall’alto, reso possibile dalla caduta del Muro di Berlino e dallo “scaricamento” da parte americana di tutta la filiera andreottiana-piduista-Gladio-Servizi-Affari riservati.

Sono certo che percorrendo questo sentiero saremmo arrivati alla verità giudiziaria sui grandi delitti italiani. Ma si trattava di un sentiero già percorso, e i personaggi della connection atlantica erano in allarme rosso dopo il “si salvi chi può” lanciato da Andreotti con la sua denuncia-ricatto su Gladio del 1990. La loro risposta fu Capaci. E poi via D’Amelio.

Ho ricevuto in seguito importanti conferme dell’impronta imperiale sulle stragi avvenute prima e dopo Moro e Mattarella. Un agente Cia oggi in pensione e in servizio presso la stazione di Roma ai tempi del caso Moro, di fronte alle mie assillanti domande sul ruolo della sua agenzia mi rispose: “Non avete mai trovato prove sulla partecipazione della Cia e simili nel caso Moro, Mattarella e La Torre perché siete andati a cercare nella direzione sbagliata. Non siamo mai intervenuti direttamente perché non ce n’era alcun bisogno. Non eravate un paese del Terzo mondo dove dovevamo fare tutto noi. Avevate apparati di intelligence vasti e ben organizzati che sapevano bene cosa fare, che rispondevano a politici accorti i quali non avevano bisogno di ricevere autorizzazioni su cosa fare con chi superava le linee rosse. Era evidente che Moro, Mattarella e La Torre le avevano superate”.

Una seconda spiegazione l’ho ricevuta nel corso dei miei lunghi colloqui con Francesco Cossiga, e l’ho descritta nel mio libro su Giovanni e io. Cossiga fu l’unico politico atlantista ad ammettere apertamente l’esistenza in Italia di un regime di sovranità limitata. Secondo lui questa menomazione era giusta e necessaria. Il comunismo era un pericolo esistenziale e ci eravamo trovati perciò fino al 1989 in uno stato di guerra civile latente dove la democrazia e i diritti fondamentali, in Italia, erano stati rispettati “nei limiti del possibile”. E dove gli Usa erano l’alfa e l’omega della nostra sicurezza. La sua risposta alla mia ovvia domanda se le stragi e i delitti di Stato rientrassero in questo discorso era quella che “c’erano stati alcuni che avevano esagerato, ed erano usciti da limiti che anche in guerra bisognava rispettare”.

E la mafia? Incalzavo. “Su Moro non è c’entrava niente – rispondeva impaziente – Su Mattarella e La Torre credo di sì, ma non perché i mafiosi agissero da semplici killer. Erano ottimi amici degli Stati Uniti, anticomunisti come tutti noi, sempre pronti a compiacerci. Ma queste cose le sai, e le sapeva anche Falcone, e forse sarebbe arrivato il giorno in cui anche questo vecchietto lo avrebbe potuto aiutare. Ma è un’epoca passata, e tra qualche anno non ci sarà più nessuno in vita in grado di raccontarla a puntino. I protagonisti tutti in pensione, morti o troppo vecchi per ragionare”.

È per queste ragioni che credo non ci siano speciali segreti sepolti assieme al caso Moro, all’omicidio Mattarella, a Capaci e via D’Amelio. La verità giudiziaria completa non verrà mai alla luce perché è troppo tardi per raggiungerla. Ma una verità storico-politica convincente, sufficiente a spiegarne ragioni e significati, è già emersa, sia pure in parte, ed è su questa che occorre riflettere. Anche per capire meglio il presente.

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Italia schiava della Cia da Abu Omar ad Abedini - Alessandro Orsini

Un accademico svizzero-iraniano, Mohammad Abedini Najafabadi, è stato arrestato in transito a Malpensa su mandato americano mentre si dirigeva a Istanbul con l’accusa di avere aiutato Teheran a costruire alcuni droni. Per ritorsione, l’Iran ha arrestato una giornalista italiana per uno scambio di detenuti. Sentiamo dire che l’Iran agisce in questo modo perché è l’incarnazione del Male universale. La realtà è diversa.

Per comprendere la mossa dell’Iran, occorre capire come il “caso Abedini” sia legato al “caso” dell’imam Abu Omar, rapito a Milano sotto il governo Berlusconi: uno dei casi più documentati di azione illegale condotta dai servizi segreti americani in un Paese straniero. Abu Omar fu rapito, il 17 febbraio 2003, da dieci agenti della Cia. L’imam fu portato nella base aerea di Aviano e poi condotto in Egitto, dove fu brutalmente torturato con la falsa accusa di essere un terrorista islamico. Dalle sentenze della magistratura milanese, emerge che i vertici dei servizi segreti italiani e, quindi, il governo Berlusconi, erano informati e coinvolti nell’operazione della Cia. Nel dicembre 2010, la Corte d’appello di Milano ha stabilito un risarcimento di un milione di euro per Abu Omar e di 500 mila euro per la moglie, a carico di ben 23 agenti della Cia, tutti cittadini americani. I vari governi italiani hanno sempre fornito protezione agli agenti americani, ricorrendo persino al segreto di Stato per ostacolare le indagini della magistratura.

I giudici di Milano condannarono anche agenti italiani eliminando ogni dubbio sul coinvolgimento del governo Berlusconi in questa orrenda violazione dei diritti umani contro un musulmano. Sulla base del caso Abu Omar, l’Iran pensa che il governo Meloni sia un governo “fantoccio” della Casa Bianca. L’Iran pensa che, davanti agli ordini degli Stati Uniti, l’Italia cessi di essere uno Stato sovrano e indipendente, soprattutto quando si tratta di violare i diritti umani dei musulmani.

Tornando al caso Abedini, gli abusi commessi contro quest’uomo sono evidenti. Iniziamo dall’accusa della Casa Bianca di avere collaborato con Teheran alla costruzione di alcuni droni. La logica delle relazioni internazionali dice questo: gli ingegneri americani aiutano il governo americano a costruire i droni e gli ingegneri iraniani aiutano il proprio governo a fare altrettanto. L’eventuale collaborazione di Abedini con il governo iraniano sarebbe del tutto lecita. In secondo luogo, Abedini non è stato colto a origliare dietro la porta del presidente del Consiglio. Aveva semplicemente fatto scalo in Italia verso Istanbul per la sfortuna di non avere trovato un volo diretto. In terzo luogo, Abedini non ha arrecato alcun danno all’Italia che ha deciso di incarcerarlo sulla base delle accuse fumosissime di un governo, gli Stati Uniti, in guerra con l’Iran, di cui è incolpevolmente cittadino. Dopo il caso Assange, Omar e molti altri, nessuna persona dotata di raziocinio avrebbe dubbi sul fatto che Abedini, una volta negli Stati Uniti, subirebbe un processo farsa, i cui presupposti giuridici sono già posti in tutta la loro assurdità. Eccoli: siccome il governo americano considera il governo di Teheran un governo di terroristi, allora tutti gli iraniani sono potenziali terroristi, anche se hanno semplicemente avvitato un bullone di un drone. Negli Stati Uniti vige la legge, non ci sono dubbi, ma alcune leggi sono assurde perché sono concepite per la guerra, non per la giustizia.

Antonio Tajani ha esortato a non parlare della vicenda. Un invito anomalo giacché, nelle società libere, i ministri non decidono quali temi trattare e come trattarli. Crosetto, invece, ha invitato a non sollevare l’indignazione contro l’Iran perché: “Questi problemi, purtroppo, non si risolvono con lo sdegno popolare”. Ma l’intento di quest’articolo non è suscitare indignazione contro l’Iran, bensì contro il governo Meloni. Tajani invita al silenzio non per tutelare la giornalista italiana, ma se stesso, ché la vergogna è grande. Il governo Meloni mette in pericolo gli italiani per eseguire un ordine della Casa Bianca funzionale alle guerre americane. La Casa Bianca ha spinto l’Italia in guerra con la Russia. Adesso pretende che l’Italia faccia la guerra all’Iran con un’operazione simile, nella logica di fondo, al caso Omar. Abedini sta subendo un abuso intollerabile in una società libera e andrebbe liberato. Prostrato dietro le sbarre, la sua sofferenza è ingiusta e ingiustificata come quella della giornalista italiana. Quest’uomo è stato sottratto alla famiglia in un Paese ostaggio degli Stati Uniti. Questo è chiaro agli iraniani. Molto meno a certi giornalisti mainstream che, afflitti da smisurati complessi di superiorità, non si accorgono nemmeno quando l’Italia opera in modi simili alle dittature.

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