La matrice tutta atlantista
dell’omicidio Mattarella - Pino Arlacchi
La storia è
sempre storia del presente. Purtroppo, mi è venuto di pensare osservando le
reazioni al docu-film Magma che ricostruisce il delitto Mattarella del 1980. Il
filo conduttore dell’opera è la ferma convinzione di Giovanni Falcone che si
fosse trattato di un assassinio politico di matrice “atlantica”. Un caso Moro
bis a meno di due anni distanza. Perché siamo nel presente? Lo siamo perché
siamo in mezzo a una guerra in Ucraina la cui lampante matrice è, appunto,
“atlantica”.
Matrice
atlantica significa né più né meno che un’origine imperiale, radicata negli
interessi e nella volontà superiori dell’impero americano. Matrice atlantica
significa violazioni del diritto internazionale nel caso dell’Ucraina, e
violazioni del diritto penale e della sovranità nazionale nei casi Moro,
Mattarella e La Torre. Significa mettere in atto ingiustizie e degenerazioni
delle istituzioni democratiche da negare e nascondere con ogni mezzo soprattutto
nei campi di battaglia dei satelliti, cioè nei luoghi della sovranità limitata.
Il delitto Mattarella fu un caso Moro bis perché fu uno degli ultimi capitoli
italiani della Guerra fredda, avvenuta in Italia anche sotto forma della
cosiddetta “Strategia della tensione”. Dico uno degli ultimi perché l’ultimo fu
la strage di Capaci, accaduta dodici anni dopo ma come uno strascico della
stessa Guerra fredda.
Mattarella
era un uomo coraggioso, deciso a proseguire lungo il sentiero proibito
dell’accordo di governo con i comunisti che era costato la vita del suo
maestro. I
l presidente
della Regione Siciliana era stato pesantemente avvertito – come Moro,
minacciato esplicitamente da Henry Kissinger un paio di anni prima della sua
fine – che il suo esperimento nell’isola violava il fattore K e lo esponeva
alle sanzioni previste da Washington in questi casi. Mattarella va a Roma dal
ministro dell’Interno Virginio Rognoni, suo compagno di partito e di corrente,
che invece di rassicurarlo lo fa preoccupare ulteriormente. Dico questo perché
la sua assistente ha confermato che il presidente era rientrato da Roma
stravolto e le aveva chiesto di non parlare ad alcuno del suo incontro con
Rognoni salvo la sua eliminazione fisica. E dico questo perché sono stato amico
di Rognoni, il quale mi ha candidamente detto di aver consigliato Mattarella di
essere più prudente e di abbassare i toni. Il vento interno alla Democrazia
cristiana ormai spirava in direzione contraria, e il mini-compromesso storico
siciliano era considerato come l’ultimo ostacolo alla normalizzazione
post-Moro. Al rientro cioè dell’Italia nella sfera della completa fedeltà agli
Stati Uniti.
Ho lavorato
assieme a Falcone nel mettere insieme i diversi tasselli logici e fattuali
dell’omicidio Mattarella e di quello, strettamente connesso, di Pio La Torre,
avvenuto due anni dopo. Dove la matrice atlantica era ancora più pronunciata di
quella del caso Mattarella, non essendoci qui alcuna seria pista concorrente da
esplorare. La Torre aveva un conto aperto pluridecennale con Cosa nostra, ma la
sua fine fu opera dei super-anticomunisti di Gladio e della P2 che lo odiavano
per la sua battaglia contro gli euromissili in Sicilia.
Le indagini
su entrambi i casi non approdarono, com’è noto, a nulla, e furono riprese da
Falcone nei suoi ultimi anni, da Direttore degli affari penali del ministero di
giustizia, quando era ormai privo di titolarità investigativa diretta. Le
indagini furono depistate, si rivolsero subito contro il terrorismo di
sinistra, e si concentrarono solo sugli esecutori.
Falcone mi
disse di avere trovato una fonte attendibile interna all’estrema destra. Era
venuta fuori una significativa partecipazione diretta di capimafia alla rete
Gladio. C’era una base logistica Sismi a Trapani, e c’era stato un interessamento
iniziale alle indagini da parte di Bruno Contrada – agente Sisde da noi
ritenuto un avversario pericoloso.
In questi
casi, concordavo con Giovanni, non bastava percorrere il solito processo
induttivo che parte dalla scena del crimine e va verso l’alto. Non c’è mai, nei
grandi delitti, “la pistola fumante”. Ci sono tanti, tantissimi indizi, e
qualche prova. Occorreva perciò seguire anche il percorso inverso, deduttivo,
dall’alto, reso possibile dalla caduta del Muro di Berlino e dallo
“scaricamento” da parte americana di tutta la filiera
andreottiana-piduista-Gladio-Servizi-Affari riservati.
Sono certo
che percorrendo questo sentiero saremmo arrivati alla verità giudiziaria sui
grandi delitti italiani. Ma si trattava di un sentiero già percorso, e i personaggi
della connection atlantica erano in allarme rosso dopo il “si salvi chi può”
lanciato da Andreotti con la sua denuncia-ricatto su Gladio del 1990. La loro
risposta fu Capaci. E poi via D’Amelio.
Ho ricevuto
in seguito importanti conferme dell’impronta imperiale sulle stragi avvenute
prima e dopo Moro e Mattarella. Un agente Cia oggi in pensione e in servizio
presso la stazione di Roma ai tempi del caso Moro, di fronte alle mie
assillanti domande sul ruolo della sua agenzia mi rispose: “Non avete mai trovato
prove sulla partecipazione della Cia e simili nel caso Moro, Mattarella e La
Torre perché siete andati a cercare nella direzione sbagliata. Non siamo mai
intervenuti direttamente perché non ce n’era alcun bisogno. Non eravate un
paese del Terzo mondo dove dovevamo fare tutto noi. Avevate apparati di
intelligence vasti e ben organizzati che sapevano bene cosa fare, che
rispondevano a politici accorti i quali non avevano bisogno di ricevere
autorizzazioni su cosa fare con chi superava le linee rosse. Era evidente che
Moro, Mattarella e La Torre le avevano superate”.
Una seconda
spiegazione l’ho ricevuta nel corso dei miei lunghi colloqui con Francesco
Cossiga, e l’ho descritta nel mio libro su Giovanni e io. Cossiga fu l’unico
politico atlantista ad ammettere apertamente l’esistenza in Italia di un regime
di sovranità limitata. Secondo lui questa menomazione era giusta e necessaria.
Il comunismo era un pericolo esistenziale e ci eravamo trovati perciò fino al
1989 in uno stato di guerra civile latente dove la democrazia e i diritti
fondamentali, in Italia, erano stati rispettati “nei limiti del possibile”. E
dove gli Usa erano l’alfa e l’omega della nostra sicurezza. La sua risposta
alla mia ovvia domanda se le stragi e i delitti di Stato rientrassero in questo
discorso era quella che “c’erano stati alcuni che avevano esagerato, ed erano
usciti da limiti che anche in guerra bisognava rispettare”.
E la mafia?
Incalzavo. “Su Moro non è c’entrava niente – rispondeva impaziente – Su
Mattarella e La Torre credo di sì, ma non perché i mafiosi agissero da semplici
killer. Erano ottimi amici degli Stati Uniti, anticomunisti come tutti noi,
sempre pronti a compiacerci. Ma queste cose le sai, e le sapeva anche Falcone,
e forse sarebbe arrivato il giorno in cui anche questo vecchietto lo avrebbe
potuto aiutare. Ma è un’epoca passata, e tra qualche anno non ci sarà più
nessuno in vita in grado di raccontarla a puntino. I protagonisti tutti in
pensione, morti o troppo vecchi per ragionare”.
È per queste
ragioni che credo non ci siano speciali segreti sepolti assieme al caso Moro,
all’omicidio Mattarella, a Capaci e via D’Amelio. La verità giudiziaria
completa non verrà mai alla luce perché è troppo tardi per raggiungerla. Ma una
verità storico-politica convincente, sufficiente a spiegarne ragioni e
significati, è già emersa, sia pure in parte, ed è su questa che occorre
riflettere. Anche per capire meglio il presente.
Italia schiava della Cia da Abu Omar ad Abedini - Alessandro Orsini
Un
accademico svizzero-iraniano, Mohammad Abedini Najafabadi, è stato arrestato in
transito a Malpensa su mandato americano mentre si dirigeva a Istanbul con
l’accusa di avere aiutato Teheran a costruire alcuni droni. Per ritorsione,
l’Iran ha arrestato una giornalista italiana per uno scambio di detenuti.
Sentiamo dire che l’Iran agisce in questo modo perché è l’incarnazione del Male
universale. La realtà è diversa.
Per
comprendere la mossa dell’Iran, occorre capire come il “caso Abedini” sia
legato al “caso” dell’imam Abu Omar, rapito a Milano sotto il governo
Berlusconi: uno dei casi più documentati di azione illegale condotta dai
servizi segreti americani in un Paese straniero. Abu Omar fu rapito, il 17
febbraio 2003, da dieci agenti della Cia. L’imam fu portato nella base aerea di
Aviano e poi condotto in Egitto, dove fu brutalmente torturato con la falsa
accusa di essere un terrorista islamico. Dalle sentenze della magistratura milanese,
emerge che i vertici dei servizi segreti italiani e, quindi, il governo
Berlusconi, erano informati e coinvolti nell’operazione della Cia. Nel dicembre
2010, la Corte d’appello di Milano ha stabilito un risarcimento di un milione
di euro per Abu Omar e di 500 mila euro per la moglie, a carico di ben 23
agenti della Cia, tutti cittadini americani. I vari governi italiani hanno
sempre fornito protezione agli agenti americani, ricorrendo persino al segreto
di Stato per ostacolare le indagini della magistratura.
I giudici di
Milano condannarono anche agenti italiani eliminando ogni dubbio sul
coinvolgimento del governo Berlusconi in questa orrenda violazione dei diritti
umani contro un musulmano. Sulla base del caso Abu Omar, l’Iran pensa che il
governo Meloni sia un governo “fantoccio” della Casa Bianca. L’Iran pensa che,
davanti agli ordini degli Stati Uniti, l’Italia cessi di essere uno Stato
sovrano e indipendente, soprattutto quando si tratta di violare i diritti umani
dei musulmani.
Tornando al
caso Abedini, gli abusi commessi contro quest’uomo sono evidenti. Iniziamo
dall’accusa della Casa Bianca di avere collaborato con Teheran alla costruzione
di alcuni droni. La logica delle relazioni internazionali dice questo: gli
ingegneri americani aiutano il governo americano a costruire i droni e gli
ingegneri iraniani aiutano il proprio governo a fare altrettanto. L’eventuale
collaborazione di Abedini con il governo iraniano sarebbe del tutto lecita. In
secondo luogo, Abedini non è stato colto a origliare dietro la porta del
presidente del Consiglio. Aveva semplicemente fatto scalo in Italia verso
Istanbul per la sfortuna di non avere trovato un volo diretto. In terzo luogo,
Abedini non ha arrecato alcun danno all’Italia che ha deciso di incarcerarlo
sulla base delle accuse fumosissime di un governo, gli Stati Uniti, in guerra
con l’Iran, di cui è incolpevolmente cittadino. Dopo il caso Assange, Omar e
molti altri, nessuna persona dotata di raziocinio avrebbe dubbi sul fatto che
Abedini, una volta negli Stati Uniti, subirebbe un processo farsa, i cui
presupposti giuridici sono già posti in tutta la loro assurdità. Eccoli:
siccome il governo americano considera il governo di Teheran un governo di
terroristi, allora tutti gli iraniani sono potenziali terroristi, anche se
hanno semplicemente avvitato un bullone di un drone. Negli Stati Uniti vige la
legge, non ci sono dubbi, ma alcune leggi sono assurde perché sono concepite
per la guerra, non per la giustizia.
Antonio
Tajani ha esortato a non parlare della vicenda. Un invito anomalo giacché,
nelle società libere, i ministri non decidono quali temi trattare e come
trattarli. Crosetto, invece, ha invitato a non sollevare l’indignazione contro
l’Iran perché: “Questi problemi, purtroppo, non si risolvono con lo sdegno popolare”.
Ma l’intento di quest’articolo non è suscitare indignazione contro l’Iran,
bensì contro il governo Meloni. Tajani invita al silenzio non per tutelare la
giornalista italiana, ma se stesso, ché la vergogna è grande. Il governo Meloni
mette in pericolo gli italiani per eseguire un ordine della Casa Bianca
funzionale alle guerre americane. La Casa Bianca ha spinto l’Italia in guerra
con la Russia. Adesso pretende che l’Italia faccia la guerra all’Iran con
un’operazione simile, nella logica di fondo, al caso Omar. Abedini sta subendo
un abuso intollerabile in una società libera e andrebbe liberato. Prostrato
dietro le sbarre, la sua sofferenza è ingiusta e ingiustificata come quella
della giornalista italiana. Quest’uomo è stato sottratto alla famiglia in un
Paese ostaggio degli Stati Uniti. Questo è chiaro agli iraniani. Molto meno a
certi giornalisti mainstream che, afflitti da smisurati complessi di
superiorità, non si accorgono nemmeno quando l’Italia opera in modi simili alle
dittature.
Nessun commento:
Posta un commento