“Le tre forme delle politiche di austerità – fiscale, monetaria e industriale – lavorano all’unisono per disarmare le classi lavoratrici ed esercitare una pressione discendente sui salari”, scrive Clara E. Mattei in “Operazione austerità” (Einaudi 2022). Una ricostruzione davvero pertinente.
Quali sono,
dunque, le dinamiche della coercizione esercitata dall’austerità? Ecco uno
schema di analisi, tratto dal libro di Mattei, che ci aiuta a capire le
politiche economiche che muovono attualmente la Ue e i governi nazionali,
compreso il governo Meloni.
* * * *
I. Dall’austerità fiscale all’austerità monetaria
L’austerità
fiscale si traduce in tagli al bilancio, soprattutto al welfare, e in una
tassazione regressiva (che chiede una percentuale superiore di denaro a chi ne
ha di meno).
Entrambe le
riforme permettono di trasferire risorse dalla maggioranza dei cittadini a una
minoranza – le classi dei risparmiatori-investitori – per garantire i rapporti
di proprietà e la formazione del capitale.
Contemporaneamente,
i tagli al bilancio contengono l’inflazione grazie a due meccanismi principali.
La prima
cosa, la riduzione e il consolidamento del debito pubblico diminuiscono la
liquidità in circolazione. Perché i detentori del debito non possono più usare
le obbligazioni in scadenza come mezzo di pagamento.
In secondo
luogo, i tagli al bilancio riducono la domanda aggregata: famiglie e imprese
godono di un minore reddito disponibile e lo Stato stesso riduce gli
investimenti.
Un calo
della domanda di beni e capitali significa che i prezzi all’interno di un paese
si mantengono bassi. Inoltre, questo strozzamento della domanda aggregata
accresce il valore della moneta sui mercati esteri, scoraggiando le
importazioni e migliorando così la bilancia commerciale (per cui le
esportazioni supereranno le importazioni).
Il valore di
una moneta sui mercati esteri è di fatto favorevole se la bilancia commerciale
di un Paese è positiva.
II. Dall’austerità monetaria all’austerità fiscale
L’austerità
monetaria (o deflazione monetaria, come è stata descritta sopra) comporta una
decurtazione del credito nell’economia e coincide in primo luogo con un aumento
dei tassi di interesse.
Questa
cosiddetta “politica del denaro caro”, in cui il denaro è più difficile
da prendere a prestito, fa crescere per il governo i costi dell’indebitamento e
dunque ne limita i piani espansivi, specialmente di welfare.
Nel corso
del XX secolo, le limitazioni alla spesa dello Stato aumentarono quando fu
stabilito il gold standard (cosa che in Gran Bretagna accadde
nel 1925): per mantenere la parità aurea, la prima cosa da è la fuoriuscita dei
capitali, per cui la politica fiscale all’interno del proprio Paese. Lo fa
minimizzando la spesa governativa e creando un ambiente favorevole al capitale
sottoponendolo a una tassazione inferiore.
III. Dall’austerità industriale all’austerità
monetaria
Con
l’espressione austerità industriale ci si riferisce all’imposizione
della pace industriale, vale a dire rapporti di produzione gerarchici al
riparo da contestazioni.
Una “pace”
del genere è ovviamente alla base dell’accumulazione capitalistica, perché
consente di proteggere i diritti di proprietà, le relazioni salariali e la
stabilità monetaria nel lungo periodo.
L’austerità
industriale favorisce inoltre la deflazione monetaria, che aumenta il valore
della moneta nazionale. Infatti, una rivalutazione riuscita (cioè un aumento
del valore della moneta) richiede soprattutto aggiustamenti di prezzo verso il
basso, e in particolare un aggiustamento verso il basso dei prezzi del lavoro
(il che significa salari inferiori), al fine di tagliare i costi di produzione.
Questo
perché costi del lavoro inferiori tengono bassi i prezzi delle merci, il che a
sua volta promuove la competitività internazionale nel momento in cui un Paese
decide di migliorare i suoi tassi di cambio con un aumento delle esportazioni.
Quando la
moneta si rivaluta, ridurre i costi di produzione diventa ancora più essenziale
al fine di compensare un calo di competitività e dunque non perdere quote sul
mercato estero, giacché i beni in quella valuta diventano più cari.
Se lo Stato
può contare su poteri coercitivi sufficienti, come fu per lo Stato fascista,
può intervenire direttamente con un’azione legislativa per tagliare i salari
nominali, garantendo aggiustamenti di prezzo immediati e la competitività
necessaria a rispettare il gold standard.
Naturalmente,
anche in società meno autoritarie, come quella britannica (negli Anni 30,
ndr), leggi del lavoro restrittive possono limitare la legittimità delle
contestazioni industriali, per esempio criminalizzando gli scioperi di
solidarietà.
La pace
sociale e la repressione dei salari sono altrettanto importanti per attivare
capitali ed evitarne la fuoriuscita, altra prerogativa della convertibilità in
oro.
Un livello
salariale basso riduce infine la domanda di consumo, che a sua volta fa
scendere le importazioni e dunque ha un effetto positivo sulla bilancia
commerciale che favorisce la rivalutazione monetaria.
IV. Dall’austerità monetaria all’austerità Industriale
La politica
del denaro caro fa sì che l’economia rallenti, perché indebitarsi diventa più
costoso e gli imprenditori sono disincentivati a prendere a prestito denaro da
investire.
Quando parte
la deflazione e i prezzi scendono, le aspettative pessimistiche degli
imprenditori riguardo al futuro riducono ulteriormente gli investimenti.
Minori
investimenti significano meno occupazione.
Una disoccupazione
più elevata non soltanto riduce i salari dei lavoratori; garantisce anche la
“pace industriale” annientando la leva politica e la militanza del lavoro.
V. Dall’austerità industriale all’austerità fiscale
Una classe
lavoratrice debole e docile è tale per cui la pressione per ottenere misure
sociali, una tassazione progressiva e altre politiche redistributive viene
subordinata alle priorità dettate dall’austerità di spostare risorse a favore
delle classi dei risparmiatori-investitori.
I sindacati
rinviano le proposte e le pratiche radicali che sfidano la proprietà privata e
sono disposti a collaborare per aumentare l’efficienza della produzione in nome
della causa nazionale.
VI. Dall’austerità fiscale all’austerità industriale
I tagli al
bilancio significano diminuzione delle opere pubbliche e del pubblico impiego
più in generale, il che porta a un ampliamento dell’esercito di riserva del
lavoro (il bacino di coloro che desiderano un’occupazione) e dunque danneggia
il potere contrattuale dei sindacati, deprime i salari e accresce la
competizione tra i lavoratori.
[…]
Queste
dinamiche possono suonare tutt’ora famigliari, essendo precorritrici del
rapporto che gli esperti del Fondo Monetario Internazionale hanno stretto e
instaurato con gran parte dei Paesi periferici del mondo odierno, un rapporto
basato su: prestiti condizionati a politiche di austerità; focus sulla ‘libertà
economica’, più che politica; obbligo di aprire l’economia nazionale allo
scrutinio internazionale.
La storia
dell’Italia aiuta a leggere anche i casi di austerità più recenti con occhi
maggiormente smaliziati.
A un esame
ravvicinato, i programmi di aggiustamento strutturale del Fmi rivelano il
medesimo obiettivo di fondo: costringere le popolazioni a produrre di più e a
consumare di meno, al fine di salvaguardare l’accumulazione capitalistica.
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