E’ stato reso pubblico poche ore fa il comunicato scritto dal collegio difensivo del “processo Sovrano”, alle ultime battute (la sentenza è prevista a fine febbraio). Un atto di accusa molto forte che denuncia ingerenze non legittime sul Tribunale che è chiamato ad esprimersi sull’accusa di associazione a delinquere ed altri reati di cui sono accusati attivisti del Movimento No Tav e del centro Sociale Askatasuna. Come movimento No Tav da tempo denunciamo la propaganda di parte contro la nostra esperienza di lotta, alimentata oggi dai partiti al governo e dalla lobby dei sindacati di polizia, ospiti in tv e sui giornali un giorno sì e l’altro pure, per lamentare l’assenza di vendetta da parte dello Stato nei confronti di chi pratica il conflitto sociale nelle piazze e non porge i fiori ai reparti antisommossa. La magistratura Torinese da anni ha indossato l’elemetto facendosi portavoce degli interessi di Telt, dei partiti delle Grandi Opere e dei dirigenti e funzionari della Questura, solo ieri sera l’ex pubblico ministero Rinaudo lo si poteva vedere sulle reti Mediaset a raccontare la sua esperienza in trincea (scusate se ci scappa una risata). Inebriati dal potere, servi dei grandi interessi, tutti questi personaggi senza arte nè parte continuano a voler riscrivere la storia, cercando un epilogo (loro sperano) nelle aule di tribunale, oltre che nei talk show televisivi. La nuova Procuratrice Generale presso la Corte d’Appello per il Piemonte e la Val D’Aosta nel suo discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 ha sollecitato la condanna da parte del Tribunale mentre un mebro laico del CSM plaude alla richiesta milionaria di risarcimento a dei cittadini per i costi dell’imposizione del Tav in valle. Alla faccia della presunzione di non colpevolezza e buona notte alla giustizia che, scrivono loro, dovrebbe essere uguale per tutti.
Che qui qualcosa non torna è per noi chiaro da molto tempo. Forse da oggi,
con un uso così spregiudicato e illegittimo dei poteri e delle funzioni
statali, lo sarà ad un più ampio numero di persone. Non ci resta che esprimere
solidarietà a tutt* imputat* e al collegio difensivo che si trova a svolgere il
proprio lavoro in un contesto, evidentemente, pregiudizievole.
Qui di seguito riportiamo il comunicato:
Siamo i difensori di alcuni attivisti del centro sociale Askatasuna e del
movimento No Tav, imputati in un processo attualmente in corso avanti alla
prima sezione del Tribunale di Torino. Tra le tante imputazioni formulate dalla
Procura (sono 72 i reati contestati), spicca quella per il reato associativo –
originariamente qualificato come associazione sovversiva e poi derubricato nel
delitto di associazione per delinquere aggravata rivolto a 16 militanti del
centro sociale Askatasuna. Il processo è ormai alle ultime battute, si sono
quasi del tutto esaurite le discussioni delle diverse parti processuali, ma si
sono verificati in questi giorni alcuni fatti che meritano di essere segnalati.
Sono stati trasmessi in data 20 e 27 gennaio, sul canale televisivo di
Retequattro, dei servizi giornalistici, nell’ambito della trasmissione Quarta
Repubblica, fortemente ostili nei confronti di Askatasuna e del suo ruolo
nell’ambito del conflitto sociale torinese e valsusino, con evidenti richiami
al processo in corso. Si tratta di servizi che accostano disinvoltamente le
vicende che riguardano il centro sociale con filmati che poco o nulla c’entrano
con lo stesso, che utilizzano e mostrano, in contrasto con una specifica
previsione legislativa, del materiale
prodotto dalla Digos nel corso delle indagini.
In secondo luogo, a Torino, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario
del 25 gennaio scorso, Enrico Aimi, che interveniva in qualità di membro laico
e rappresentante del CSM, si è pubblicamente complimentato con l’Avvocatura
distrettuale dello Stato per la richiesta di risarcimento dei danni (avanzata
nei confronti degli imputati nell’interesse della presidenza del consiglio e
dei ministeri
dell’interno e della difesa), per oltre 6 milioni di euro, a fronte, sono le
sue parole, “delle devastazioni causate da alcuni centri sociali nei cantieri
TAV in Val di Susa”. Subito dopo, nella stessa occasione, la Procuratrice
Generale presso la Corte d’Appello ha rincarato la dose, richiamando
esplicitamente nel suo intervento le indagini svolte nel processo penale in
corso, che dimostrerebbero che i militanti del centro sociale “hanno
strutturato una progettualità volta ad innalzare il livello di conflittualità
contro le Istituzioni intercettando le tensioni sociali al fine di permearle
dentro un’apparente solidarietà, hanno assunto la regia della mobilitazione
violenta in Val di Susa, hanno realizzato una struttura organizzativa complessa
che consentisse loro di confidare anche sul consenso di una parte dell’opinione
pubblica”.
Si tratta di un resoconto abbondantemente ripreso dai giornali locali e
nazionali, con intere pagine dedicate alla questione e titoli come “Affondo di
Musti su Askatasuna. E’ loro la regia della violenza, Torino capitale
dell’eversione”. Tutto ciò ci inquieta profondamente come avvocati e come
cittadini.
Tale esposizione mediatica rischia di compromettere profondamente la necessaria
tranquillità e riservatezza, nonostante il suo carattere pubblico, che deve
circondare un processo penale. Per dirla con Hanna Arendt, la giustizia
“richiede isolamento, vuole più dolore che collera, prescrive che ci si astenga
il più possibile dal mettersi in vista”.
Al di là dei servizi televisivi, della cui correttezza risponderanno al più
gli autori nelle opportune sedi giudiziarie, che il rappresentante di un organo
di rilievo costituzionale approvi, senza nemmeno conoscerla (perché se avesse
avuto modo di leggerla forse avrebbe intuito le innumerevoli lacune e
incongruenze che, a nostro parere, la costellano), una richiesta vertiginosa di
danno nei confronti di alcuni cittadini è cosa che lascia stupiti.
Ma ancor di più stupiscono le parole di un’autorevole magistrata della
Procura Generale che, davanti ad una platea composta di giudici dello stesso
distretto in cui si svolge il processo, commenti lo stesso con accenti di
particolare perentorietà, in contrasto con il valore del dubbio e la prudenza
del giudizio, entrando nel merito di una concreta vicenda giudiziaria e
anticipandone quasi l’esito. Tutto ciò in contrasto con un principio
assiologico del nostro ordinamento, costituito dalla presunzione di non
colpevolezza degli imputati, con le regole di galateo istituzionale e anche di
specifiche norme di legge, che dovrebbero sconsigliare gli interventi pubblici
su un processo in via di definizione.
Torino, 28 gennaio 2025.
Valentina Colletta
Sara Gamba
Danilo Ghia
Valentina Groppo
Roberto Lamacchia
Claudio Novaro
Gianluca Vitale
Askatasuna, No Tav e le nuove frontiere della repressione - Luigi Ferrajoli
Ha senso
supporre che un gruppo di 16 persone, accomunato da anni di battaglie di
protesta nel
movimento No Tav e, a Torino, nel centro sociale Askatasuna, decida di
dar vita a una specifica associazione finalizzata a compiere atti di violenza e
resistenza a pubblici ufficiali? È questa l’accusa singolare ad esse
rivolta dalla Procura di Torino, ovviamente in aggiunta alle imputazioni di
violenza e resistenza ai medesimi pubblici ufficiali. Sarebbe accaduto, secondo
la pubblica accusa, che queste persone, “in Torino e altrove dal 2009” in poi,
si sarebbero associate “allo scopo” non già di esprimere le loro proteste,
bensì di opporre resistenza ai pubblici ufficiali che quelle espressioni di
dissenso avessero ostacolato. Di qui l’ulteriore imputazione, contro la logica
e il buon senso, di associazione a delinquere.
A queste
accuse l’Avvocatura di Stato, costituitasi in giudizio per conto della
Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero dell’interno e del
Ministero della difesa, ha aggiunto una spaventosa richiesta di
risarcimento dei danni, quantificandoli in svariati milioni di euro: 3.595.047
euro a titolo di danno patrimoniale in favore del Ministero dell’interno per il
“costo dell’attività investigativa svolta ai fini dell’individuazione dei
responsabili degli illeciti, nonché con riferimento alla spesa sostenuta a
titolo di straordinari, indennità accessorie ed indennità di ordine pubblico
corrisposte al personale impiegato per contenere e limitare i manifestanti e i
danni”; altri 3.208.230 euro a titolo di danno non patrimoniale, in
favore del Ministero dell’interno, del Ministero della difesa e della
Presidenza del consiglio per il danno alla loro “immagine” e precisamente al
loro “prestigio” e alla loro “credibilità”.
È lecito
domandarsi, di fronte a una simile furia persecutoria, quale altro senso, se
non la volontà di infierire sugli imputati, abbia l’aggiunta, alle accuse di
violenza e resistenza a pubblici ufficiali, di queste ulteriori richieste del
Pubblico ministero e dell’Avvocatura dello Stato. L’associazione a
delinquere “finalizzata” a commettere la resistenza è semplicemente un non
senso. Il danno patrimoniale consistente nel costo delle indagini è
un’assoluta novità, dato che dovrebbe ravvisarsi in qualunque reato. Quanto
al danno d’immagine alla Pubblica amministrazione lamentato dall’Avvocatura,
non si capisce in che cosa consista. Semmai un danno d’immagine proviene
proprio da questa abnorme richiesta risarcitoria.
Purtroppo questa
vicenda ci dice che la libertà di riunione in Italia non ha mai conosciuto, in
ottanta anni dalla Liberazione, un momento altrettanto buio. È precisamente
contro le manifestazioni pubbliche del dissenso che questo Governo si è
maggiormente accanito con il disegno di legge S.1236, cosiddetto “di
sicurezza”, già approvato dalla Camera e in discussione al Senato: dal blocco
stradale punito, se commesso da più persone, con la reclusione da sei mesi a
due anni, all’aggravante dei reati di violenza e resistenza se commessi “al
fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica”, come per esempio il
Tav in Val di Susa o il ponte sullo Stretto; dalle norme sulle rivolte
negli istituti penitenziari o nei centri di detenzione dei migranti, che
qualificano come “atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva”,
fino all’aumento delle pene per i reati di resistenza o lesioni in danno di
agenti di polizia nell’esercizio delle loro funzioni.
È triste che
taluni magistrati partecipino, con successo, a questa gara con il Governo
nell’aggressione alle libertà fondamentali. I magistrati, quando procedono per violenza o
resistenza nel corso di pubbliche manifestazioni, non dovrebbero mai
dimenticare che questi reati sono stati commessi simultaneamente all’esercizio
dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione. Queste manifestazioni di
piazza, infatti, consistono nell’esercizio non solo della libertà di riunione
ma anche della libertà di manifestazione del pensiero. Giacché la riunione e la
pubblica manifestazione sono il solo medium di cui dispongono i comuni
cittadini – che non pubblicano libri, non vanno in televisione e non scrivono
sui giornali – per esprimere il loro pensiero e il loro dissenso. Sta
invece accadendo un fenomeno di gravissima irresponsabilità civile e
politica. Giornalisti e perfino esponenti delle istituzioni hanno
associato queste manifestazioni di protesta all’eversione e al terrorismo. Hanno
confuso le lotte sociali con la lotta armata, l’impegno collettivo e le battaglie
civili in difesa dei più deboli con la sovversione, la cittadinanza attiva
con la violenza arbitraria. Stanno costruendo nemici, identificandoli
con i dissenzienti. Come avviene in tutti i regimi autoritari.
È un
capovolgimento della realtà. Contro il quale non dobbiamo stancarci di
ripetere che le formazioni sociali e le manifestazioni del dissenso devono
sempre essere considerate un valore, soprattutto da parte di chi,
magistrato o poliziotto, è chiamato ad applicare il diritto e a difendere i
diritti dei cittadini costituzionalmente stabiliti. Per questo la contestazione
dei reati di violenza e resistenza commessi in occasione di manifestazioni di
piazza dovrebbe sempre essere accompagnata da una specifica circostanza
attenuante – l’aver agito, dice il codice penale, per un motivo “di particolare
valore morale” quale è appunto la manifestazione del dissenso – e dalla
valutazione della sua prevalenza sulle circostanze aggravanti. Almeno se
ancora si ritiene che i principi costituzionali abbiano maggior valore del
codice fascista Rocco.
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