Resoconto dell'assemblea online di coordinamento della campagna
Contro l'invio di armi in
Ucraina
Il Parlamento ha approvato l'invio di armi in Ucraina ma la campagna
prosegue e rilancia il tema della lotta all'aumento delle spese militari. La
campagna è una denuncia politica contro la partecipazione italiana alla guerra.
E vuole dare voce alla maggioranza dei cittadini italiani.
Coordinamento
della campagna contro l'invio di armi in Ucraina
L'assemblea
online di coordinamento della campagna contro l'invio di armi in Ucraina si è
svolta con la partecipazione di numerosi rappresentanti di associazioni e
movimenti pacifisti. Durante l'incontro sono stati affrontati diversi punti
cruciali per la prosecuzione della campagna, considerando la recente
conversione in legge, da parte del Senato e della Camera, del decreto
governativo per l'invio di armi in Ucraina.
Prosecuzione della campagna. Si è discusso su come
mantenere attiva ed efficace la campagna nonostante l'approvazione del decreto.
In alcuni
territori, come a Bari, si sta continuando con i banchetti di raccolta di firme
e di disponibilità di chi aderisce ad essere ricontattato per contribuire alla
campagna contro l’invio di armi, contro la cobelligeranza italiana, non più
come PETIZIONE RIVOLTA AI PARLAMENTARI perché non convertano in legge il
decreto 200/2024 (il 28 gennaio la Camera ha approvato a larga maggioranza con
l’opposizione dei deputati M5S e AVS) ma come APPELLO, rivolto, all’opinione
pubblica, ai media, al parlamento, alle forze politiche e sindacali, alle
associazioni – contro l’invio di armi. Il testo-documento della petizione,
sulla cui base si è costituito questo coordinamento nazionale, rimane
invariato, con le sole modifiche all’inizio e alla fine, che lo trasformano in
appello (cfr. documento allegato).
È emersa la
necessità di rilanciare l'opposizione non solo all'invio di armi, ma anche ai
nuovi programmi di riarmo e all'aumento della spesa militare. La crescente
pressione mediatica dei vertici NATO e di figure politiche internazionali, come
Donald Trump, rende necessario un rafforzamento della protesta popolare,
rendendola più visibile e incisiva.
Aggiornamento del materiale informativo. È stata proposta la
realizzazione di un nuovo volantino nazionale per aggiornare la campagna, con
l'obiettivo di informare e sensibilizzare l'opinione pubblica. La bozza del
volantino verrà condivisa con i partecipanti per eventuali modifiche prima
della sua approvazione definitiva.
Azioni politiche e istituzionali. Si è ribadita l'importanza di
una nuova petizione che porti alla richiesta di audizioni parlamentari. In
queste sedi, i portatori di interesse rappresentanti delle associazioni e dei
movimenti pacifisti potranno esprimere le proprie posizioni in merito ai
programmi che verranno discussi nelle commissioni difesa. Diversi interventi
hanno sottolineato l'importanza dell'autonomia del movimento dai partiti, pur
nella necessità del confronto.
Strategie comunicative e media. Un tema centrale
dell'assemblea è stato quello della censura mediatica nei confronti delle
iniziative pacifiste. È stato osservato come vi sia un forte sbarramento
informativo che rende difficoltoso far emergere il dissenso contro la politica
di riarmo. Per contrastare questa situazione, si è deciso di migliorare le
competenze comunicative dei gruppi locali. PeaceLink si è resa disponibile a
fornire supporto per la realizzazione di comunicati stampa e per la diffusione
delle informazioni pacifiste nei circuiti delle agenzie stampa. Multipopolare e
Ottolina TV sono disponibili a fare da cassa di risonanza delle iniziative
in programma.
Coinvolgimento del mondo culturale e artistico. Si è proposto un maggiore
coinvolgimento di intellettuali, artisti e figure del mondo dello spettacolo
sensibili alle ragioni della pace. La loro partecipazione potrebbe contribuire
a dare maggiore risonanza al messaggio pacifista, raggiungendo pubblici più
ampi.
Creazione di gruppi locali. È stata sottolineata
l'importanza di attivare fin da subito gruppi locali impegnati nelle attività
sopra descritte. L'organizzazione territoriale può facilitare la diffusione
delle iniziative e rafforzare la partecipazione della cittadinanza. E' stato
chiesto che venga realizzato un elenco delle associazioni che aderiscono e
animano questo movimento di promozione della campagna no armi Ucraina
aggiornata verso nuovi obiettivi di contestazione del riarmo. È fondamentale dotarsi di una struttura di referenti a livello
territoriale (regione, provincia, città).
Piattaforma di coordinamento e informazione. PeaceLink continuerà a
svolgere un ruolo di piattaforma di coordinamento e informazione, anche
mediante il settimanale Albert. Il calendario online delle iniziative di pace e
il database dei contatti dei firmatari rappresentano strumenti fondamentali per
l'organizzazione delle attività. I firmatari potranno essere avvisati,
provincia per provincia, delle iniziative in programma, facilitando così la
mobilitazione e la partecipazione alle azioni promosse.
L'assemblea
si è conclusa con l'impegno a proseguire con determinazione la campagna no armi
in Ucraina aggiornandola alla nuova situazione e rafforzando le strategie di
comunicazione, intensificando la pressione politica e promuovendo un'ampia
mobilitazione popolare contro l'invio di armi e i piani di riarmo.
Il prossimo
incontro è previsto per mercoledì 19 febbraio.
Manifesto per la diserzione civile
La diserzione civile comincia con l’impegno a smentire la propaganda e a
far circolare informazione veritiera. Contrastare i piani di riarmo vuol dire
pretendere il finanziamento della spesa sociale per la sanità, la scuola,
l’ambiente sottraendo fondi alla militarizzazione.
(Fonte:
Disertiamo https://www.facebook.com/groups/726688158530288)
I governi Draghi
e Meloni hanno coinvolto l’Italia in una guerra che la stragrande maggioranza
degli italiani non vuole. Seguendo le direttive degli Stati Uniti e della
Commissione europea, siamo diventati parte attiva nel conflitto USA-NATO che si
combatte in Ucraina e che rischia di infiammare l’Europa nei prossimi anni. Il
nostro Paese invia armi, il nostro esercito addestra soldati ucraini, il nostro
ministero della Difesa allestisce esercitazioni militari che danneggiano il
nostro ambiente, dalla base militare di Sigonella partono velivoli NATO di
ricognizione diretti in Ucraina.
Il governo e
i vertici militari vogliono potenziare l’industria bellica e aumentare di
almeno 10.000 unità gli effettivi delle forze armate aumentando le spese per la
guerra a detrimento della spesa sociale e dei bisogni fondamentali dei
cittadini.
Perché siamo in guerra
La
riorganizzazione degli apparati militari e l’aumento degli organici vengono
giustificati con la necessità di rafforzare il sistema di deterrenza contro
potenziali minacce ai confini nazionali o ai “valori occidentali” di libertà di
impresa, proprietà privata, primato dell’individuo e democrazia formale sui
quali si fondano le nostre istituzioni e il modello di sviluppo illimitato che
governa la nostra economia e le nostre relazioni politico-economiche con altri
Paesi. Un sistema di deterrenza che dovrebbe garantire la sicurezza delle
popolazioni occidentali da eventuali attacchi militari provenienti da Paesi non
“democratici”, quali Russia e Cina, intenzionati ad espandere il loro modello
politico al di fuori dei loro confini sovvertendo gli equilibri internazionali
tra gli Stati.
Questi
equilibri sono frutto di guerre di conquista combattute da Stati e potenze nei
secoli passati e di conflitti armati condotti principalmente dalle potenze
occidentali dopo la Seconda Guerra Mondiale per l’appropriazione delle risorse
naturali e il controllo degli approvvigionamenti energetici e della loro
circolazione. Le guerre condotte dalla NATO dagli anni ’90 in Iraq, Jugoslavia,
Afghanistan e Libia lo testimoniano.
La crisi
della “globalizzazione”, cioè del tentativo di imposizione planetaria
dell’egemonia del sistema economico-politico statunitense condivisa dal quello
che è considerato il “mondo occidentale”, ha permesso l’emergere di istanze di
crescita indipendente e l’affermarsi di nuove potenze d’area e globali sul
teatro della competizione internazionale decise a realizzare un proprio spazio
di influenza economica.
La scelta
conseguente della super-potenza americana è, in questa fase, quella di
promuovere la divisione in blocchi contrapposti di “alleanze” in conflitto tra
loro prefigurando per il futuro un confronto militare globale – con l’obiettivo
primario di colpire la Cina - che, nell’immediato e nel prossimo divenire, si
articola nell’innescare conflitti armati che depotenzino il fronte avverso e
cooptare altre nazioni dentro il proprio schieramento. La guerra in Ucraina fa
parte di questa strategia, pur non essendo estranea al proposito dell’apparato
di potere russo di mantenere una sua sfera di influenza sui Paesi ad esso
economicamente collegati. È una guerra che ha compromesso il relativo benessere
nei Paesi europei ed è destinata ad allargarsi ai Balcani e all’Europa
centrale. Il pericolo non è costituito da inesistenti minacce ai confini, ma
dal coinvolgimento nelle prossime avventure belliche alle quali i nostri
governi non hanno intenzione di sottrarsi.
L’Italia,
aderente alla NATO, è immediatamente coinvolta in una guerra che non riguarda
né la sua “sicurezza” e integrità come nazione né, tantomeno, il benessere dei
suoi cittadini. Sicurezza è reddito, casa, salute, istruzione, tutela
dell’ambiente, non la salvaguardia di un regime guerrafondaio. Sicurezza è la
pace.
Quanto costa la guerra?
Ogni
italiano ha speso ingenti somme per finanziare la macchina bellica.
Secondo il
Documento Programmatico Pluriennale della Difesa per il 2023-2025, i fondi
destinati alla Difesa per il 2023 ammontano a circa 27,75 miliardi di
euro l’anno, vale a dire circa 482 euro pro capite.
Fonti NATO
informano che ciascun italiano, nel 2022, ha speso 498 dollari di contribuzione
al bilancio dell’Alleanza Atlantica.
L’Italia è
impegnata in più di 40 missioni nel 2024, è il primo contributore per le
operazioni dell’Ue, il secondo contributore della Nato dopo gli Usa – quindi
primo tra gli europei – e primo tra i contributori occidentali alle missioni
delle Nazioni Unite.
L’aumento
delle spese militari comporta considerevoli tagli ai servizi essenziali per i
cittadini come sanità, istruzione, tutela dell’ambiente, assistenza sociale.
Gli investimenti statali vengono, infatti, dirottati verso le grandi imprese
del comparto militare-industriale e dei settori a tecnologia avanzata,
trasferendo ricchezza pubblica ai privati.
Con
l’economia di guerra, la prosperità e la pace sono un sogno che non possiamo
permetterci.
Riprendiamoci la Pace
La
diserzione civile non è solo un'idea, ma una pratica attiva.
La
diserzione civile comincia con l’impegno a smentire la propaganda e a far
circolare informazione veritiera, ma deve articolarsi in una serie di azioni
coordinate che possano far emergere, nel tempo, una partecipazione di massa.
Non delegare
l’espressione del dissenso e la pratica della resistenza impone di sostenere,
con tutti i mezzi, tutte quelle frazioni sociali che difendono il territorio
dall’espansione delle basi militari, che ostacolano la movimentazione delle
armi via nave e ferrovia, che difendono il suolo e l’ambiente dalla
contaminazione, che non si subordinano alle politiche securitarie ma praticano
il diritto alla libera mobilità e occupazione del suolo pubblico, che lottano
contro le restrizioni salariali e i tagli alla spesa sanitaria, che si
organizzano per impedire la chiusura delle frontiere ai migranti. Ricordando
che la battaglia per i diritti sociali e contro la guerra sono interconnesse.
Non
sottostare all’imposizione del silenzio significa prendersi la responsabilità
anche individuale di manifestare il proprio pensiero pubblicamente senza lo
schermo dei social e disattendendo le politiche securitarie che vogliono
ingabbiare in spazi protetti poliziescamente ogni espressione di dissenso.
Produrre una
cultura della pace vuol dire intercettare e bloccare la penetrazione della
propaganda militarista e la presenza dell’esercito nelle scuole, screditare e
contrastare la scuola-caserma che promuove la partecipazione dei giovani a
esperienze militari quali la mini naja e l’alternanza scuola lavoro falsamente
“professionalizzante” presso istituti militari e aziende del comparto militare-industriale.
Vuol dire pretendere il finanziamento pubblico della ricerca di base nelle
università in opposizione agli accordi accademia-industria della guerra.
Contrastare
i piani di riarmo vuol dire pretendere il finanziamento della spesa sociale per
la sanità, la scuola, l’ambiente sottraendo fondi alla militarizzazione. Vuol
dire riprendere le battaglie collettive per la difesa del reddito e la
diminuzione dell’orario lavorativo.
Opporsi alla
guerra vuol dire aprire una vertenza diretta con lo Stato per imporre la
de-secretazione dei trattati militari e per porre vincoli legislativi che
impediscano l’insediamento di nuove basi militari USA e NATO e l’ampliamento di
quelli esistenti. Vuol dire avviare una campagna per l’obiezione di coscienza
preventiva come patto collettivo.
Il governo che prepara la guerra non è un
interlocutore, è la nostra controparte.
Negare la delega allo Stato rifiutando la
subordinazione all’economia di guerra e alle politiche belliciste è esercitare
un diritto. E la diserzione civile è una forma di autotutela collettiva.
Note: Logo e testo a cura di Valeria Poletti (valeria.poletti014@gmail.com)
Allegati
·
Guida operativa alla
diserzione civile
Valeria Poletti
Fonte: Redazione PeaceLink
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Obiettivi: rendere visibile la dimensione della contrarietà
popolare alle politiche belliciste; rendere di senso comune l’aspirazione della
base sociale alla pace e la legittimità dell’opposizione alla guerra.
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