Intervista a Luca Rondi, autore con Lorenzo Figoni di Gorgo CPR, libro sui
luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di
provvedimenti di espulsione edito da Altreconomia.
di Ettore Macchieraldo e Valentina Valle B.
Ettore: il libro è fatto molto bene, non posso dire che sia bello perché le
cose che ci sono scritte non lo sono. Mi è piaciuta molto la citazione finale
di Fenoglio, che è un po’ la chiave di lettura del libro.
Quello da cui volevo partire, però, è il fallimento totale della politica
dei rimpatri. La finalità dei CPR dovrebbe essere quella ma, in realtà, i dati
che riporti fanno emergere che solo il 16% delle persone che dovrebbero esserlo
vengono rimpatriate. E così?
Luca: Sì, assolutamente. In termini numerici nel 2023 su 28.347
persone destinatarie di un provvedimento di espulsione, dai CPR italiani ne
sono state rimpatriate “solo” 2.987, ovvero il 10%. Numeri irrilevanti, mentre
“pesa” la sofferenza patita dai pochi che subiscono un rimpatrio
forzato. Immaginate che cosa significa essere svegliati nella notte in una
stazione del CPR, essere scortati da tre poliziotti su un aereo e ritrovarsi
nel proprio paese di origine poche ore dopo.
La follia a mio avviso è pensare che una politica efficace di
rimpatrio possa essere, in primo luogo possibile e, in secondo, auspicabile. Pensiamo
al caso del Gambia: un terzo del Prodotto Interno Lordo è generato
dalle rimesse, ovvero i soldi che vengono mandati a casa dalle persone che
sono emigrate dal paese. Per un Presidente di un simile Stato accettare un
rimpatrio forzato di migliaia di cittadini dall’Europa significa mettere
ulteriormente in ginocchio un’economia che già fa fatica. E poi, aggiungo,
spesso i rimpatri possono trasformarsi in una brutta parentesi nelle
storie di immigrazione delle persone. Tantissimi cittadini tunisini, di cui ho
ascoltato le storie, sono stati rimpatriati e una volta rientrati nel
loro paese di origine hanno passato il loro tempo a mettere da parte i soldi
per ripartire e così tornare in Italia. In alcuni casi tentando anche
quattro o cinque volte.
Ettore: La questione del fallimento della politica dei rimpatri non è, in
realtà, funzionale a mantenere una quota di manodopera nel mercato del lavoro
illegale, in nero, da sfruttare? Non potrebbe essere molto funzionale avere
questo esercito di riserva di lavoratori?
Luca: L‘irregolarità è generata da un sistema che rende la richiesta
d’asilo l’unica via di regolarizzazione possibile nel nostro Paese. Il non
avere un documento, che spesso viene visto erroneamente come una colpa, spinge
le persone in situazione di vulnerabilità. Anche sul luogo di lavoro: se
non hai né un contratto né un permesso di soggiorno sei doppiamente
ricattabile. Si stimano 500 mila persone che sono in Italia ma
restano invisibili per lo Stato, spesso non per datori di lavoro
spregiudicati.
Ettore: Secondo te come sarebbe possibile ribaltare la narrazione che fa in
modo che cresca la paura e la richiesta di politiche securitarie?
Luca: E’ una domanda difficile. Qualcuno potrebbe chiederci perché ci
occupiamo di strutture che, in questo momento in Italia,
ospiteranno più o meno 300-400 persone
recluse. Qualcuno potrebbe dire che è una cosa piccola, una cosa poco
rilevante e invece per noi sono veramente un simbolo. Anche
chi ha una visione “chiusa” sull’immigrazione, anche chi è razzista,
dovrebbe essere di fatto contro i CPR, perché i CPR non raggiungono il loro
obiettivo, sono un enorme spreco di denaro pubblico e rendono le nostre città
più insicure.
Non è vero che il CPR garantisce maggiore sicurezza nelle città, perché delle
6mila persone che in un anno sono transitate in un CPR, circa la
metà poi tornano dalle nostre comunità dopo aver passato un mese, due
mesi, tre mesi –attualmente la legge ne prevede 18– in condizioni
disastrose. In un CPR non c’è alcuna attività, un giorno è uguale a quello
precedente e quello successivo, con un abuso di psicofarmaci in un limbo
infinito. Le terapie, all’uscita, vengono poi interrotte bruscamente, tanto
quando venivano somministrate non seguivano alcun piano terapeutico. Per di
più, quando si esce dal CPR, spesso si è gli ultimi, degli ultimi, degli
ultimi. Si ha molta più paura di tentare una via di regolarizzazione, è molto
più difficile ottenere un permesso di soggiorno etc, etc, etc. Quelle
3mila persone uscite e poi reimmesse nelle nostre comunità, perdonatemi la
semplificazione, ma sono ancora più vulnerabili di quando entrarono nel CPR.
A cosa serve il CPR? Perché le persone che ci mettiamo dentro non sono
nostri fratelli, nostre sorelle, non sono bianche ma arrivano da altri paesi
-soprattutto alcuni- e ci permettiamo di fare a loro quello che non faremmo mai
a noi. Abbiamo creato questo mostruoso sistema parallelo di detenzione. Ha un
valore simbolico.
Ettore: Sì, è un messaggio…
Luca: Sì, dà un messaggio. Questa è, però, anche una grande bugia perché,
sicuramente, dà un messaggio alle persone che ci passano e che soffrono e se lo
portano dietro nella loro vita, ma non non ne manda nessuno alle
persone che devono decidere di partire o, peggio ancora, devono in qualche modo
valutare se lasciare posti come la Libia, oppure se lasciare la Tunisia. Di
fronte a quelle condizioni di violenza sistematica che vivono in
questi paesi, non è di certo un CPR, né in Italia né
in Albania, che cambia la tua volontà di proseguire nel viaggio. Mi piacerebbe
portare dei dati, purtroppo c’è solo uno studio che fa una
piccola indagine in Senegal, intervistando mille uomini tra i 18 e i
40 anni, chiedendo se le nuove regole stringenti sull’accoglienza del
governo tedesco siano quantomeno conosciute all’interno di questo villaggio:
l’11% riteneva che fosse rilevante l’ammontare dei sussidi statali per
scegliere il Paese di destinazione, meno della metà non sapeva neanche ci
fossero degli aiuti pubblici. Chissà quanti sanno che cos’è il Centro per migranti
in Albania. Io credo pochi. Quindi è anche una grande bugia raccontarci
che questo previene le partenze.
Ettore: però determina una sudditanza nel paese in cui si è ospiti. Il
messaggio è molto più questo che quello della deterrenza. Significa dire: sei in
un posto dove devi stare zitto, non essere nessuno, non avere diritti e così
via.
Il parallelismo con i manicomi che fate nel libro è molto azzeccato. I
manicomi erano dei luoghi in cui le persone non avevano un’identità, non
avevano neanche diritti finché non è arrivato Basaglia e la riforma che è stata
fatta alla fine degli anni ‘70
Luca: Sì assolutamente sono d’accordo ed è il motivo per cui noi forziamo anche
un po’ la mano in un titoletto di un paragrafo scriviamo proprio: chiusi i
manicomi, aperti i CPR.
Il tema dei CPR si inserisce in una deriva che comunque abbiamo in termini
di istituzionalizzazione. Una deriva manicomiale, lontana dal
pensiero Franco Basaglia che abbiamo festeggiato lo scorso anno per
i cent’anni dalla sua nascita, ma di cui ci troviamo a dover difendere le
conquiste, purtroppo.
Il CPR è un manicomio che si basa su una selezione che è appunto
etnico-razziale. L’Avvocato Veglio definisce l’esistenza dei CPR proprio un
rito di separazione su base etnica. Questo è un dato di fatto: in
queste strutture ci vanno solo le persone straniere. E poi c’è il tempo
sospeso, ci sono gli psicofarmaci, c’è l’impossibilità di avere tutelata la
propria salute, tantissimi punti di connessione con i manicomi. Anche
architettonicamente i CPR sono impressionanti.
Valentina: La mia più grande inquietudine è capire se se ne parla troppo
poco, se se ne parla nel modo sbagliato, se dall’altra parte non si vuole
ascoltare oppure se gli italiani vogliono i CPR. Come diceva prima Ettore, il
tuo è un bel libro, un’inchiesta fatta bene e che fa il suo dovere. Ma non è
l’unica, non è una voce isolata. Perché nessuno ascolta questa voce? Non sarà
che abbiamo raggiunto un tale livello di barbarie che ci porta a voler
assistere a uno spettacolo macabro in cui si fa male a qualcun altro per
sfogare le nostre frustrazioni? Parlando di simboli, di riti di separazione, di
apartheid: non è che i CPR sono diventati una sorta di nuovo Colosseo dove
diamo esseri umani in pasto a nuovi leoni? Riprendendo un po’ la domanda di Ettore
su come ribaltare la narrazione sui CPR io invece chiedo: è un problema di
narrazione o è un problema che qualunque narrazione utilizziamo, c’è dall’altra
parte un desiderio di punire e far soffrire?
Luca: Io non ho una risposta, io so che dei CPR negli ultimi 5-6 anni se ne
è parlato di più. E’ un’informazione che ha raggiunto, in qualche modo, molte
più persone. Ce lo dice una serie di elementi. Qualcuno forse ha scoperto
quantomeno che cos’è un CPR con il caso Albania. La quota di popolazione che conosce
questo tema, tuttavia, è ancora molto piccola ed è molto piccola rispetto a una
mobilitazione, a una pressione dell’opinione pubblica che potrebbe davvero
incidere sul tema.
Ho l’impressione che, se io girassi per Biella e chiedessi ai passanti che cos’è
un CPR, la maggior parte mi risponderebbe che non lo sa. E’ vero che ci sono
tante informazioni, ma è anche vero che le mistificazioni su questo
tema sono enormi e vanno in prima serata per bocca dei rappresentanti del
governo: anche quando se ne parla, quindi, si rischia che non vengano
descritti come un problema così grave perché tutto viene edulcorato
dicendo cose false.
Sicuramente l’indifferenza è diffusa e anche l’accettazione di qualsiasi
rimedio per questo grosso problema dell’immigrazione. Il nostro lavoro è
smontare la narrazione che sta alla base di tutto questo.
Valentina: Sei ottimista e ne sono lieta. Anch’io preferisco pensare che
sia un problema di comunicazione e capillarità dell’informazione, anche non ne
sono poi così sicura.
Altre due questioni nel libro mi hanno molto colpita: la tua riflessione
sullo slittamento del concetto di “accoglienza”, di come un centro di
detenzione sia stato trasformato nel linguaggio comune in un “centro di
accoglienza”, conferendo a questa parola un significato estremamente
fuorviante, che con i CPR non c’entra niente. E poi la questione dei medici. È
un po’ che rifletto sullo scollamento enorme -e agghiacciante a mio avviso- in
atto tra medici e cittadini e che porta i secondi a considerare i primi come nemici,
persone di cui dubitare perché al servizio di case farmaceutiche o perché
collusi con poteri più o meno oscuri. Il Covid ha sicuramente dato una
grossissima mano nell’acuire questa percezione, ma poi si leggono inchieste
come la tua e davvero viene da chiedersi se siamo al punto di pensare a
Ippocrate come “questo sconosciuto”. Possibile che con un colpo di spugna sia
cancellato un giuramento vecchio di secoli? E possibile invece pensare ad
“altri medici”, eredi di Basaglia, come coloro che faranno la differenza nella
questione CPR?
Luca: Una delle più belle iniziative sui CPR è stata proprio lanciata dalla
rete Mai Più Lager-No ai Cpr, Asgi
e dalla società italiana Medici e Migrazioni. E’ stata lanciata una
campagna che ricorda il “E mi non firmo” di Basaglia che invita i
medici a non convalidare le richieste di idoneità per la vita ristretta
nei Cpr che permettono l’ingresso delle persone nelle strutture. Tra
i promotori c’è l’infettivologo Nicola Cocco rispondendo al ministro
Matteo Piantedosi che sostiene che nei Cpr la salute è rispettata, sottolinea
di avere una chiavetta con 3mila pagine per dimostrare l’affermazione che i Cpr
sono luoghi che generano malattia. Ed è anche l’Organizzazione mondiale della
sanità che sottolinea come le strutture di detenzione amministrativa
siano appunto patogene di per sé. Sicuramente sui medici c’è da
fare un grande lavoro anche di consapevolezza e informazione. Nel
libro facciamo l’esempio di una persona che arriva all’ospedale di Firenze e
deve essere portata in un CPR a migliaia di chilometri di distanza e di un
medico di pronto soccorso che la visita e probabilmente non sa nemmeno cos’è un
CPR, non ne ha uno nella sua regione e non sa che cosa sia, quindi fa
in buona fede un certificato generico di idoneità alla vita in comunità
ristretta. Lo può fare assolutamente in buona fede, per questo quella
campagna è così importante a mio avviso. E’ nostro compito spargere la
voce e il libro nasce per questo. Nasce per portare l’informazione sui
territori, per raccontare il più possibile che cosa succede soprattutto a
chi non sa che cosa sia un Cpr. E’ da lì che bisogna passare.
Ettore: Avete usato nel titolo “il gorgo,” richiamando il racconto di
Fenoglio in cui c’è un bambino che si accorge, mentre tutti gli altri non se ne
accorgono, che il genitore,vuole suicidarsi e lo salva. Secondo te la speranza
è nei giovani o la metafora la volevate usare in un altro senso?
C’è sicuramente la speranza nei più giovani. Mi auguro che il tema della
libertà di movimento sia una cosa molto più presente nelle nuove generazioni di
quelle un po’ più vecchie accompagnata dalla consapevolezza che oggi si può
viaggiare legalmente o meno solo se si nasce da un determinato posto. Abbiamo
scelto questo titolo anche riferendoci a diverse letture del testo di
Fenoglio che hanno individuato il padre come simbolo di quella classe
dirigenziale che aveva favorito la vittoria del fascismo e che non riusciva a
reggere il peso di quella colpa. E’ quindi il tema del collaborazionismo e
della necessità che tutti coloro che sono a vario titolo coinvolti nel sistema
CPR facciano la loro parte per porre fine a questo sistema. E’ vero che
sapere quello che succede nel CPR è molto difficile, lo abbiamo raccontato
anche nel libro quanto tempo c’è voluto, quanto sforzo in termini di richieste,
però grazie al lavoro di tante e tanti oggi quelle strutture non sono
più “buchi neri”: sappiamo quello che succede e dopo aver guardato nel
gorgo è necessario cambiare rotta.
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