«La
Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
nazione». Il secondo comma dell’articolo 9 della Costituzione ha schierato la
Repubblica dalla parte (sempre minoritaria) di coloro che, lungo tutta la
storia del nostro Paese, hanno lottato perché la forma dell’Italia, cioè il
suo «ambiente passato attraverso l’uomo» (Cesare Brandi), fosse considerata un
bene pubblico sovraordinato agli interessi privati, e alla stessa proprietà
privata: opponendo all’idea di possesso quella di custodia, in nome di
tutta l’umanità presente e futura. Come dimostrò il dibattito nella stessa
Costituente, non era un esito per nulla scontato: perché anche lì era evidente
il conflitto tra i fautori del possesso e quelli della custodia. Questa
polarizzazione è capace di raccontare anche tutta la storia della Repubblica,
tessuta di continui tradimenti di quel comma, e di una eroica resistenza da
parte di una minoranza attiva e soprattutto delle soprintendenze, questa sorta
di povera e sempre vilipesa “magistratura del paesaggio e del patrimonio”.
Nel novembre
del 2016, nello
studio dell’eterno accolito del potere di turno Bruno Vespa, Matteo
Salvini diceva in chiaro che le soprintendenze andavano abolite, ottenendo
un consenso in linea di principio dalla sua interlocutrice televisiva, Maria Elena
Boschi. Non si era mai arrivati a tanto, nemmeno nei sogni più proibiti
dei palazzinari, ma il potere di tutela aveva, e avrebbe, visto una progressiva
erosione: andava in questa direzione lo “Sblocca Italia” di Matteo
Renzi, così come prima la Legge Obiettivo di Berlusconi, poi
la “riforma Franceschini” e oggi il cosiddetto “Salva Milano”
voluto fortemente da Beppe Sala, votato in prima lettura da tutta la Destra e
anche dal Pd e oggi in attesa di essere discusso dal Senato.
Nel
frattempo, il deputato leghista Gianangelo Bof ha presentato un emendamento al
disegno di legge Cultura che cambierebbe ben sette procedure previste dal
Codice dei Beni culturali derubricando il parere obbligatorio e
vincolante delle Soprintendenze a solo obbligatorio. Non la soppressione
voluta da Salvini, ma un passo decisivo in quel senso. Ove fosse approvato, la
tutela imposta dalla Costituzione verrebbe meno negli interventi da eseguirsi
nell’ambito dei beni paesaggistici (articolo 143, comma 3) e
nell’autorizzazione paesaggistica (articolo 146, comma 5); nel prescrivere
distanze, misure e varianti per aperture di strade e cave, posa di condotte per
impianti industriali e civili e palificazioni visibili da o vicine a cose
immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale, singolarità
geologica o memoria storica, ivi compresi gli alberi monumentali; le ville, i
giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della Parte seconda del
presente codice, che si distinguono per la loro non comune bellezza; posa in opera
di cartelli pubblicitari in prossimità di immobili e aree di valore
paesaggistico e aree tutelate come coste, laghi, fiumi, torrenti, parchi e
riserve nazionali e regionali, foreste e boschi, zone umide e vulcani, zone di
interesse archeologico (articolo 153, comma 1); tinteggiatura di fabbricati in
aree tutelate o interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei
luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici in centri storici, bellezze
panoramiche e zone archeologiche (articolo 154, comma 1); ordine di ripristino
o sanzione nell’ambito della verifica della compatibilità paesaggistica
(articolo 167, comma 5); autorizzazione paesaggistica per interventi senza o in
difformità dall’autorizzazione paesaggistica senza aumento di superfici e
volumi e interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria (articolo 181,
comma 1-quater). Non è ancora la soppressione delle
soprintendenze, ma quasi.
Il Pd si è
opposto frontalmente all’emendamento, trovando questa volta le parole giuste:
«Le Soprintendenze sono un presidio fondamentale per garantire la tutela e uno
sviluppo rispettoso della storia e dell’identità dei territori». D’altra parte,
il ministro Alessandro Giuli ha dato parere negativo (eterogenesi dei fini: la
legge Bottai del 1939, cardine della tutela, è comunque un vanto della destra
postfascista…), e l’emendamento è stato ritirato: ma la Lega ha
annunciato la presentazione di un disegno di legge interamente dedicato alla
distruzione della tutela.
Non è ozioso
chiedersi: quale sorte avrebbe un simile provvedimento eversivo? La
prova generale sarà la discussione al Senato del “Salva Milano”. Quattro
urbanisti del Politecnico di Milano (Elena Granata, Arturo Lanzani, Antonio
Longo e Alessandro Coppola) hanno spiegato con esemplare chiarezza quale sia
l’origine di questa norma: «A Milano, da dieci anni era divenuta prassi
che si realizzassero importanti trasformazioni di isolati e parti di città con
la stessa procedura di certificazione con effetto immediato (SCIA) – sebbene
nella forma rafforzata “alternativa al permesso di costruire” – con cui si
autorizza normalmente una modifica interna di un appartamento o un inizio o
conclusione di attività produttive. Questi interventi, il più delle volte di
demolizione di un edificio preesistente e di ricostruzione di un nuovo e
diverso edificio, erano considerati ristrutturazioni edilizie, con il vantaggio
di ottenere una riduzione fino al 60% degli oneri di urbanizzazione altrimenti
dovuti, e una sostanziale riduzione dei tempi delle procedure. […] Milano
ha visto spuntare grattacieli all’interno degli isolati, a ridosso di edifici e
giardini esistenti, al posto di piccoli capannoni industriali». Una
manna per la speculazione edilizia, e un formidabile volano per uno sviluppo
selvaggio della città: una prassi in cui la collettività perde, in un colpo
solo, la possibilità di governare la crescita urbana secondo criteri di equità
e sostenibilità, e gli introiti che permettano di compiere quelle opere di
urbanizzazione (per esempio, il verde pubblico) che trasformano una somma di
architetture private in una città. Di fronte alle inchieste della Procura, la
reazione è stata improntata al paradigma berlusconiano: cambiamo la
legge, e facciamo lecito l’illecito.
La
convergenza su questa prospettiva sconcertante è bipartisan. Da una parte, la Destra ha fiutato
immediatamente l’affinità culturale della proposta: «Serve una risposta
urgente, al di là di ogni colore politico, per sbloccare questa paralisi. Come
Noi Moderati -Centro Popolare – ha detto Mariastella Gelmini –, non abbiamo
dubbi sul fatto che si debba fare presto. Noi ci siamo». Dall’altra, il
presidente dell’Anci e sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, Pd, ha proposto un
“Salva Milano transitorio”, e subito dopo l’approvazione di una
legge quadro di riforma dell’intero comparto dell’urbanistica. Ma quanto
sarebbero convergenti questa legge quadro prospettata da un pezzo del Pd e il
disegno di legge annunciato dalla Lega? La risposta sta nell’eterna
trasversalità del partito delle mani libere e del cemento: un partito che
può interamente contare su Lega, Forza Italia e Italia viva, ma anche su una
parte consistente di Pd e di Fratelli d’Italia, e perfino su alcuni
ammiccamenti passati (vedi Stadio della Roma) del Movimento 5 Stelle, la forza
politica comunque più oppositiva rispetto a una prospettiva del genere.
In un
intervento al comitato centrale del Partito Comunista, il 4 giugno 1974, il
segretario Enrico Berlinguer sottolineava la necessità di mettere fine
«al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la
salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo
urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi
privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere».
Una necessità che si rinnova di generazione in generazione: mentre la voce
dell’articolo 9 appare sempre più flebile, e il potere degli interessi privati
sempre più incontenibile.
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