domenica 2 febbraio 2025

Il ruolo dimenticato dell’Italia nella guerra in Sudan - Giuseppe Gagliano

 

Ecco il capolavoro della diplomazia italiana: tre mesi di attesa per rispondere a un’interrogazione parlamentare sulla crisi in Sudan, con un nulla di fatto. Il solito comunicato burocratico, infarcito di formule rituali, dati sconclusionati e promesse vaghe. Intanto, il paese africano sprofonda in una guerra devastante, con massacri, fame e milioni di sfollati. Ma a Roma tutto tace. E non per distrazione, ma per calcolo. Perché l’Italia, in questa guerra, un ruolo ce l’ha eccome. E ha pure qualche vecchio amico da proteggere.

La domanda era chiara: cosa sta facendo il governo italiano, oltre a “esprimere sostegno” alla popolazione sudanese? Quali iniziative diplomatiche ha messo in campo, quali pressioni internazionali ha esercitato, quali risorse ha destinato alla crisi? La risposta è un elegante giro di parole per dire: niente. Si riconosce che il conflitto è una catastrofe, si citano i soliti “segnali positivi” che nessuno ha mai visto, si elencano i milioni già spesi in Sudan anni fa – perché tirare fuori altri soldi, adesso, sarebbe troppo faticoso. E poi, la perla finale: il Sudan non è tra i paesi destinatari del “Piano Mattei” perché lì c’è la guerra. Tradotto: se sei abbastanza sfortunato da essere sotto le bombe, non sei una priorità.

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Ma la farsa non finisce qui. Perché quando la deputata Lia Quartapelle accusa il governo di aver relegato il Sudan tra i “conflitti dimenticati” e di aver spostato i programmi di cooperazione in Ciad ed Etiopia, arriva il colpo di scena. In mezzo a tanto immobilismo, spunta un’azione concreta del governo italiano. Peccato che non sia un’azione diplomatica, ma un accordo con le Rapid Support Forces, le RSF di Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemeti. Quelle stesse milizie che Antony Blinken, non proprio un pericoloso estremista, ha accusato di genocidio.

La relazione tra Roma e Hemeti non nasce con la guerra del 2023. È una storia di vecchia data, che affonda le radici nella solita ossessione italiana: bloccare i migranti prima che arrivino in Libia e poi sulle nostre coste. Il 12 gennaio 2022, quando il Sudan era ancora formalmente un paese stabile, il colonnello Antonio Colella incontra Hemeti a Khartoum per discutere di cooperazione militare. L’obiettivo è addestrare le sue milizie nel controllo delle frontiere, con training a Khartoum, El Obeid e anche in Italia. Perché per il governo italiano, ieri come oggi, le forze paramilitari sudanesi non sono un problema: sono un argine.

Lui stesso, Hemeti, lo rivendica apertamente. Dopo l’incontro con i vertici militari italiani, appare in tv in Libia e dichiara che “gli italiani ci sostengono, li ringraziamo. La loro formazione ci ha aiutato molto nella lotta al terrorismo e alla migrazione clandestina”. In altre parole, l’Italia – e l’Europa – hanno finanziato, addestrato e legittimato un gruppo di tagliagole, sperando che bastassero a fermare i flussi migratori. Quando poi Hemeti ha deciso di prendersi tutto il Sudan con la forza, è diventato improvvisamente scomodo. Ma non abbastanza da farci rompere con lui.

La conferma arriva durante l’evacuazione dei cittadini italiani da Khartoum, nell’aprile 2023. È guerra aperta tra le RSF di Hemeti e le SAF di Burhan, il paese brucia. Ma il 23 aprile, le RSF annunciano con grande enfasi di aver aiutato gli italiani a mettersi in salvo, scortandoli fino all’aeroporto. Hemeti stesso ne parla con Tajani, e il nostro ministro degli Esteri lo ringrazia pubblicamente per lo sforzo. Un’accoglienza calorosa per un leader accusato di crimini di guerra, massacri etnici e violenze sistematiche.

E il governo che fa? Finge di niente. Evita di menzionare il Sudan, ignora le domande, non risponde sulla natura dei rapporti con Hemeti. Meglio il silenzio che dover ammettere l’imbarazzo. Eppure, già nel 2016, due europarlamentari – Barbara Spinelli e Marie-Christine Vergiat – avevano chiesto chiarimenti sui rapporti tra Italia e milizie sudanesi. A loro nessuno rispose. Né il governo Gentiloni, né quello Renzi, né i successivi. Perché dire la verità su Hemeti significherebbe ammettere che l’Italia, come l’Europa, ha speso anni a foraggiare milizie brutali pur di chiudere un occhio su torture, deportazioni e crimini di guerra.

A questo punto, almeno una spiegazione sarebbe dovuta. La sottosegretaria Tripodi avrebbe potuto dire: sì, l’Italia ha collaborato con le RSF in passato, ma oggi prende le distanze. Oppure: sì, abbiamo ancora rapporti con Hemeti e riteniamo che possa avere un ruolo nel futuro del Sudan. Invece, nulla. Solo la speranza che nessuno noti le contraddizioni, che nessuno chieda conto di questa relazione imbarazzante, che nessuno colleghi il sostegno militare dato ai janjaweed con il silenzio imbarazzato di oggi.

Roma non è un attore neutrale nella crisi sudanese. Ha giocato un ruolo, ha stretto alleanze, ha fatto scelte. Eppure, quando si tratta di assumersi le proprie responsabilità, la strategia è sempre la stessa: far finta di niente. Chiudere gli occhi, evitare il tema, sperare che la prossima crisi sposti l’attenzione altrove. Ma il Sudan non è scomparso. Hemeti è ancora lì, e con lui le macerie di un paese che l’Italia ha contribuito, nel suo piccolo, a rendere ancora più instabile. A Roma dovrebbero almeno avere il coraggio di dirlo.

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