Ecco il capolavoro della diplomazia italiana: tre mesi di attesa per rispondere a un’interrogazione parlamentare sulla crisi in Sudan, con un nulla di fatto. Il solito comunicato burocratico, infarcito di formule rituali, dati sconclusionati e promesse vaghe. Intanto, il paese africano sprofonda in una guerra devastante, con massacri, fame e milioni di sfollati. Ma a Roma tutto tace. E non per distrazione, ma per calcolo. Perché l’Italia, in questa guerra, un ruolo ce l’ha eccome. E ha pure qualche vecchio amico da proteggere.
La domanda
era chiara: cosa sta facendo il governo italiano, oltre a “esprimere sostegno”
alla popolazione sudanese? Quali iniziative diplomatiche ha messo in campo,
quali pressioni internazionali ha esercitato, quali risorse ha destinato alla
crisi? La risposta è un elegante giro di parole per dire: niente. Si
riconosce che il conflitto è una catastrofe, si citano i soliti
“segnali positivi” che nessuno ha mai visto, si elencano i milioni già spesi in Sudan anni fa – perché tirare fuori altri
soldi, adesso, sarebbe troppo faticoso. E poi, la perla finale: il Sudan non è
tra i paesi destinatari del “Piano Mattei” perché lì c’è la guerra. Tradotto:
se sei abbastanza sfortunato da essere sotto le bombe, non sei una priorità.
Ma la farsa
non finisce qui. Perché quando la deputata Lia Quartapelle accusa il governo di
aver relegato il Sudan tra i “conflitti dimenticati” e di aver spostato i
programmi di cooperazione in Ciad ed Etiopia, arriva il colpo di scena. In mezzo
a tanto immobilismo, spunta un’azione concreta del governo italiano. Peccato
che non sia un’azione diplomatica, ma un accordo con le Rapid Support
Forces, le RSF di Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemeti. Quelle
stesse milizie che Antony Blinken, non proprio un pericoloso estremista, ha
accusato di genocidio.
La relazione
tra Roma e Hemeti non nasce con la guerra del 2023. È una storia di vecchia
data, che affonda le radici nella solita ossessione italiana: bloccare i
migranti prima che arrivino in Libia e poi sulle nostre coste. Il 12 gennaio
2022, quando il Sudan era ancora formalmente un paese stabile, il colonnello
Antonio Colella incontra Hemeti a Khartoum per discutere di cooperazione
militare. L’obiettivo è addestrare le sue milizie nel controllo delle
frontiere, con training a Khartoum, El Obeid e anche in Italia. Perché per il
governo italiano, ieri come oggi, le forze paramilitari sudanesi non sono un
problema: sono un argine.
Lui stesso,
Hemeti, lo rivendica apertamente. Dopo l’incontro con i vertici militari
italiani, appare in tv in Libia e dichiara che “gli italiani ci sostengono, li
ringraziamo. La loro formazione ci ha aiutato molto nella lotta al terrorismo e
alla migrazione clandestina”. In altre parole, l’Italia – e l’Europa – hanno
finanziato, addestrato e legittimato un gruppo di tagliagole, sperando che
bastassero a fermare i flussi migratori. Quando poi Hemeti ha deciso di
prendersi tutto il Sudan con la forza, è diventato improvvisamente scomodo. Ma
non abbastanza da farci rompere con lui.
La conferma
arriva durante l’evacuazione dei cittadini italiani da Khartoum, nell’aprile
2023. È guerra aperta tra le RSF di Hemeti e le SAF di Burhan, il paese brucia.
Ma il 23 aprile, le RSF annunciano con grande enfasi di aver aiutato gli
italiani a mettersi in salvo, scortandoli fino all’aeroporto. Hemeti stesso ne
parla con Tajani, e il nostro ministro degli Esteri lo ringrazia pubblicamente
per lo sforzo. Un’accoglienza calorosa per un leader accusato di crimini di
guerra, massacri etnici e violenze sistematiche.
E il governo
che fa? Finge di niente. Evita di menzionare il Sudan, ignora le domande, non
risponde sulla natura dei rapporti con Hemeti. Meglio il silenzio che dover
ammettere l’imbarazzo. Eppure, già nel 2016, due europarlamentari – Barbara
Spinelli e Marie-Christine Vergiat – avevano chiesto chiarimenti sui rapporti
tra Italia e milizie sudanesi. A loro nessuno rispose. Né il governo Gentiloni,
né quello Renzi, né i successivi. Perché dire la verità su Hemeti
significherebbe ammettere che l’Italia, come l’Europa, ha speso anni a
foraggiare milizie brutali pur di chiudere un occhio su torture, deportazioni e
crimini di guerra.
A questo
punto, almeno una spiegazione sarebbe dovuta. La sottosegretaria
Tripodi avrebbe potuto dire: sì, l’Italia ha collaborato con le RSF in passato,
ma oggi prende le distanze. Oppure: sì, abbiamo ancora rapporti con Hemeti
e riteniamo che possa avere un ruolo nel futuro del Sudan. Invece, nulla. Solo
la speranza che nessuno noti le contraddizioni, che nessuno chieda
conto di questa relazione imbarazzante, che nessuno colleghi il
sostegno militare dato ai janjaweed con il silenzio imbarazzato di oggi.
Roma non è
un attore neutrale nella crisi sudanese. Ha giocato un ruolo, ha stretto
alleanze, ha fatto scelte. Eppure, quando si tratta di assumersi le proprie
responsabilità, la strategia è sempre la stessa: far finta di niente. Chiudere
gli occhi, evitare il tema, sperare che la prossima crisi sposti l’attenzione
altrove. Ma il Sudan non è scomparso. Hemeti è ancora lì, e con lui le macerie
di un paese che l’Italia ha contribuito, nel suo piccolo, a rendere ancora più
instabile. A Roma dovrebbero almeno avere il coraggio di dirlo.
Nessun commento:
Posta un commento