Dopo più di un anno di genocidio, le
nostre morti non sono più una tendenza. Non contano più. Non siamo più di moda
nelle notizie.
Nessuno mi chiede più come sto e io non
rispondo più come facevo prima: sto bene, ma la mia famiglia sta morendo. Tutto
è cambiato.
È come se Gaza si fosse trasferita
su un altro pianeta; da qui non escono più notizie: niente martiri, niente
scene dolorose o strazianti, nemmeno le parole angosciate che gli utenti dei
social media un tempo condividevano con il loro crudo dolore ed emozione: ”
Yousef, 7 anni. Ha i capelli ricci, è di carnagione chiara, è bellissimo”,
oppure “È l’anima della mia anima “, oppure “Quella è mia madre! È lei, giuro che
è lei! La riconosco dai suoi capelli”.
Sebbene continuiamo a morire sotto
la stessa violenza, morendo da soli e in gruppo, in rifugi, case, tende, strade
e lungo la spiaggia, e sebbene continuiamo a piangere i nostri cari con un
dolore insaziabile, qualcosa è cambiato. Dopo più di un anno di genocidio, le
nostre morti non sono più una tendenza. Non contano più. Non siamo più di moda
nelle notizie. Se non altro, siamo diventati fastidiosi come una mosca che si
rifiuta di andarsene.
Nessuno mi chiede più come sto
Nei primi mesi del genocidio, le
persone intorno a me mi chiedevano sempre: “Come stai? Come sta la tua
famiglia? Siete tutti al sicuro?” Ovviamente, queste domande mi addoloravano,
perché non sapevo come rispondere, ma la loro assenza ora mi ferisce in un modo
che non mi sarei mai aspettato.
Avrei dovuto accogliere a braccia
aperte ciascuna delle loro domande. Avrei dovuto conservarle nel mio cuore per
un momento successivo, quando le domande si sarebbero dissolte, come è successo
ora, nonostante l’abbondanza di risposte che ora ho. Oggi, nessuno mi chiede
come sto o come sta la mia famiglia. So che queste domande non farebbero nulla
per far pendere la bilancia contro un genocidio. Non porrebbero fine al
massacro o fermerebbero lo spargimento di sangue. Ma come minimo, potrebbero
consolarmi o darmi un po’ di conforto. Potrebbero permettermi di perdonare il
mondo, persino inventare bugie e inventare scuse per questo.
Potrebbero permettermi di ingannare
me stesso credendo che ci vedano, ci sentano e sentano il nostro dolore, di
credere che anche loro siano angosciati da ciò che ci sta accadendo. Potrei
convincermi che non possono fare nulla, che anche loro sono impotenti,
proprio come noi.
Ma ora che ho capito che non si è
mai trattato di noi, che Gaza era solo una moda, come posso continuare a
mentire a me stesso? E anche se me lo chiedessero di nuovo, chi mi darebbe le
risposte?
Il conduttore del telegiornale non
annuncia più nulla sulle nostre morti. Ciò che una volta veniva riportato nei
minimi dettagli (i nostri quartieri, le nostre strade, le nostre case, i nostri
nomi) è stato ora ridotto a numeri. “Cinque, dieci, cento uccisi in un attacco
aereo”, dice la voce, prima di passare alla storia successiva, come se nulla
fosse accaduto.
Il nostro annientamento si è
trasformato da una profonda tragedia in un altro evento ordinario. I dettagli
non compaiono più nei feed delle ultime notizie; al contrario, sono diventati
un breve segmento sepolto nel mezzo di un lungo bollettino. Quello che una volta
era il titolo, è diventato solo un altro resoconto di passaggio. Siamo stati
ridotti a un aggiornamento passivo delle notizie, mentre una volta eravamo la
storia principale.
Lo schermo televisivo non mostra più
condanne per il nostro sterminio. La carestia nel Nord non spinge le nazioni a
trasmettere dichiarazioni di indignazione, e i bombardamenti dei rifugi e gli
assedi degli ospedali non giustificano più proteste e denunce pubbliche. I
ripetuti massacri li hanno resi un evento di routine agli occhi del mondo.
Uccidere, morire di fame, sete e disperazione, sono diventati questioni
ordinarie che accadono quotidianamente.
Il mondo ha capito che la condanna e
l’indignazione non fermano il genocidio. Lo sapevamo anche noi; abbiamo
maledetto coloro che hanno rilasciato dichiarazioni di indignazione senza
alcuna azione successiva. Dal bombardamento dell’ospedale battista di al-Ahli
al massacro di al-Mawasi e all’incendio delle tende dei rifugiati, abbiamo
presentato al mondo un anno di trionfi della morte in ogni forma immaginabile:
bombardati, bruciati, soffocati. Siamo stati uccisi interi e a pezzi, smembrati
in resti sparsi. Siamo stati uccisi nelle nostre case, nelle tende e negli
ospedali. Siamo stati uccisi davanti e dietro le telecamere. Siamo stati uccisi
in diretta e nel silenzio delle nostre case, davanti ai giornalisti e dietro di
loro, nelle ambulanze e alle porte degli ospedali. Siamo stati uccisi
lentamente sotto le macerie, nei campi e tra le braccia delle nostre madri.
Siamo morti affamati, terrorizzati, senza speranza, distrutti e completamente
impotenti.
Israele ha sperimentato ogni forma
di uccisione sui nostri corpi. Forse è per questo che le nostre morti non sono
più scioccanti. Perfino coloro che inizialmente vedevano il nostro sterminio
come una questione profondamente personale, ora non se ne preoccupano più
tanto. Siamo scomparsi dalle loro conversazioni quotidiane, le nostre suppliche
sono scomparse dai social media e le immagini del nostro massacro sono sbiadite
dalle loro menti.
Ma li scuso, in una certa misura. Si
sono stancati di vederci morire. I loro occhi sono saturi di sangue. E non
dimentichiamolo: hanno vite da vivere. Ma qualcuno ha pensato a noi? Anche noi
abbiamo vite che vogliamo vivere. Solo che ora siamo preoccupati, inzuppati di
sangue giorno dopo giorno: questa non è una metafora, ma una fredda, innegabile
verità.
Le nostre morti non sono più
scioccanti
Quindi, se dobbiamo morire,
facciamolo in silenzio, senza disturbare gli spettatori. Consideriamo, nei
nostri ultimi momenti, i giorni ordinari che gli altri hanno il diritto di
vivere, liberi dalla vista dei nostri corpi dilaniati sui loro schermi.
Risparmiamo loro il peso della nostra sofferenza, o il senso di colpa che
potrebbero provare, se ci vedono come una fonte di colpa. Lasciamo che le
nostre morti siano silenziose, senza grida di aiuto o richieste di salvataggio,
senza cercare solidarietà o condanna. Senza foto, video o urla di dolore. Senza
immagini di resti bruciati o cadaveri dilaniati.
Un anno di genocidio ha dimostrato
una cosa: la risposta del mondo alle nostre morti non è mai stata una questione
di vera empatia o solidarietà. È stata pura vergogna, vergogna che è svanita
non appena gli spettatori si sono abituati alla vista. Il sangue, per loro, è
diventato solo un’altra tonalità di rosso.
Hanno spento le loro televisioni,
hanno smesso di postare i nostri massacri e sono rimasti in silenzio. Che
viviamo o moriamo non ha più importanza. E per tutto questo, nessuno mi chiede
più: “Come stai?”
Ma ora abbiamo bisogno che tutti,
ovunque nel mondo, denuncino il nostro sterminio e condannino questo genocidio.
Se dobbiamo morire, almeno vogliamo sentire il mondo denunciare la nostra
morte mentre noiperiamo. Questo è tutto ciò che ci resta da sperare.
Ma vorrei che qualcuno me lo
chiedesse ora, così potrei rispondere: “Non sto bene. La mia famiglia è morta
di fame, crepacuore, missili e tradimenti. Ma non siamo più una ‘tendenza’,
quindi non lo saprai”.
Amer al-Masri Scrittore e narratore
palestinese. Ha pubblicato due raccolte di racconti nel 2018 e nel 2019. Ha
anche pubblicato un romanzo nel 2019
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti
gli esseri senzienti sono moralmente uguali – Invictapalestina.org
da qui
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