La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
lunedì 30 settembre 2024
La finanziarizzazione della natura - Paolo Cacciari
L’obbligo di sottoscrivere una
polizza contro rischi naturali è da tempo una richiesta delle classi dirigenti
globali. La natura, già ridotta a capitale nella contabilità di imprese e
stati, diventa sempre di più merce di scambio intermediata dalla finanza.
Intanto cresce il mercato “al dettaglio” per assicurarsi i clienti finali e
quello “all’ingrosso”, tra le grandi compagnie di assicurazione, gran parte
delle quali si divertono da tempo a giocare in borsa tra loro. Abbiamo bisogno
di rilanciare una nuova stagione di finanza critica che reinventi i principi e
le pratiche del mutualismo, per costruire relazioni solidali e pratiche
cooperative fuori mercato in grado di affrontare le fragilità delle nostre
vite. La cura e la manutenzione del territorio, scrive Paolo Cacciari, fanno
parte di queste attività non lucrative.
Con la
assicurazione obbligatoria dei rischi ambientali il cerchio della
finanziarizzazione della natura si chiude. La natura, già ridotta a “capitale
naturale” nella contabilità nazionale, ovvero stock di servizi
ecosistemici da includere negli asset patrimoniali delle
imprese, diventa a tutti gli effetti merce di scambio intermediata dalla
finanza. La shock
economy (già ben descritta da Naomi Klein al tempo dell’uragano
Katrina a New Orleans) è un potente mezzo per drenare denaro dai “risparmiatori”,
ricavare profitti e far crescere il Pil.
Perché
preoccuparsi di prevenire i danni alle cose e alle case se poi, con gli
indennizzi, le si possono riavere più belle di prima? È questa la logica che
muove l’economia della crescita. Se manca l’acqua desalinizziamo quella del mare.
Se è inquinata beviamo quella minerale. Se c’è troppa CO2 in atmosfera
catturiamola e rimettiamola nel sottosuolo. Se manca il gas russo costruiamo
centrali nucleari. Se non ci basta il sole che abbiamo sulla nostra testa andiamo
a costruire centrali a concentrazione nel Sahara. Se il mare inonda le coste
facciamo come Giacarta (Indonesia) costruiamo una nuova capitale più in alto
(per la cronaca, si chiama Nusantara). Se ad andare sotto acqua è Venezia, val
la pena costruire un Mose da sei miliardi di euro e centodieci milioni l’anno
di manutenzione. E così via, nel nome dell’innovazione scientifica e del
progresso.
Ma per
“ricostruire” bisogna che il sistema accumuli prima le risorse finanziarie
necessarie. È questo il compito assegnato alle compagnie di assicurazione. La cinica privatizzazione dei
rischi è un fenomeno crescente che l’economista Luigino Bruni tempo fa definì
«ipertrofia assicurativa, “assicurarizzazione” del mondo, e cioè il progressivo
e veloce allargamento dell’area della vita sociale (sanità, scuola, welfare…)
coperta da contratti assicurativi». Con il risultato di spaccare ancora
di più la popolazione tra chi si può permettere assicurazioni “integrative” e
chi no, e di mandare in frantumi quel poco che rimane della mutualità
disinteressata comunitaria e pubblica (garantita dallo stato e da un sistema
fiscale equo e proporzionale).
La
assicurazione contro le “calamità naturali” è stata incoraggiata anche dall’Onu
(vedi i Principles for Sustainable Insurance) e dall’Unione Europea nell’ambito
delle strategie di “resilienza” e “adattamento” delle aziende e dei territori
ai cambiamenti climatici. I nostri ministri sovranisti Musumeci e
Giorgetti non si inventano nulla che non sia già stato richiesto dalle classi dirigenti
globali.
Ma, fino ad
ora, le raccomandazioni lanciate dai decisori politici in fuga dalle loro
responsabilità non hanno avuto grande ascolto. Infatti, le compagnie di
assicurazione sono state molto “prudenti” di fronte al crescere degli eventi estremi
metereologici (alluvioni, frane, incendi, ecc.), nonché dei contenziosi che
inevitabilmente si aprono sulle responsabilità umane nella gestione delle
infrastrutture e nell’uso scellerato del territorio, che non hanno nulla a che
fare con la “violenza” della natura. Da qui polizze alte e premi che non
indennizzano determinati rischi. Ora la obbligatorietà per legge (come avviene
per gli incidenti automobilistici) porterà sicuramente maggiore serenità e
“coraggio” nei consigli di amministrazione delle compagnie di assicurazione.
Esse, comunque, sono da tempo corse ai ripari ri-assicurandosi a loro
volta. Si è così formato un doppio mercato: uno “al dettaglio” per i
clienti finali, l’altro “all’ingrosso”, per le stesse compagnie di
assicurazione (pensiamo a Axa, Allianz, Aviva, Legal & General, Generali).
Inoltre, le grandi compagnie sono quotate in borsa e hanno imparato a “giocare”
su sé stesse. Da tempo circolano titoli di risparmio detti “Catastrophe
bond” (Cat bond, “obbligazioni catastrofe”, indice del settore lo Swiss Re
Global Cat Bond). La Banca Mondiale ha insegnato come si fa ad usarli durante
il Coronavirus finanziando in questo modo il progetto Pandemic Emergency
Financing Facilithy. Nel casinò delle borse, con i titoli “derivati” (che sono
forme sofisticate di assicurazioni) si guadagna anche sulle sciagure altrui. Si
può scommettere (tanto al ribasso quanto al rialzo) sull’eventualità che si
verifichino determinati eventi catastrofici (epidemie, uragani, terremoti,
maremoti, crisi idriche, ecc.) in determinati luoghi. Se non accade nulla, chi
ha comprato i bond partecipa all’extraprofitto realizzato dalle compagnie di
assicurazione e riceve una cedola monetaria oltre al premio assicurativo –
spiega il Sole 24Ore – se invece l’evento si verifica proverà la prossima volta
(sempre che io abbia capito bene). Rosso o nero; rien ne va plus.
«Che fare
allora? – si chiedeva Luigino Bruni, su Avvenire qualche anno fa – Vedo due
strade, una interna e una esterna al mondo assicurativo. Le assicurazioni, non
dobbiamo dimenticarlo, sono nate come strumenti a garanzia soprattutto dei più
fragili e dei più vulnerabili: all’origine è stato così. Oggi c’è
bisogno di rilanciare una nuova stagione di assicurazione etica, sulla scia
del Nobel M. Yunus, che sta inventando assicurazioni per i poveri, con premi di
pochi dollari. Le società assicurative sarebbero per natura imprese civili,
cioè non a scopo di lucro, proprio perché i contratti che vendono hanno a che
fare con un bene primario, proteggersi contro la vulnerabilità cattiva
devastante, e renderla più sostenibile; un bene che è un diritto fondamentale
di ogni persona, e non si dovrebbe speculare sui diritti fondamentali
dell’uomo. Ciò non è fantascienza (come verrebbe da dire oggi pensando a chi ha
in mano le grandi imprese assicurative), ma democrazia e libertà». La seconda
strada – complementare – consiste nel non illudersi che possa esistere una vita a “rischio zero”. Le nostre
fragilità e vulnerabilità vanno affrontate costruendo relazioni sociali
solidali, pratiche mutuali, azioni cooperative “fuori mercato”. La cura e la
manutenzione del territorio fanno parte di queste attività non lucrative.
domenica 29 settembre 2024
Imperialismi e rivalità economica - Costas Lapavitsas
Il crescente conflitto tra blocchi diversi conferma che non esiste un'unica classe capitalista mondiale. E non c'è motivo di considerare migliori i capitalismi di Russia, Cina o India
La geopolitica mondiale è
attualmente segnata da straordinarie tensioni e conflitti armati che fanno
temere una guerra mondiale, soprattutto in Ucraina, Medio Oriente e Taiwan.
Dall’inizio del 2010, la disposizione delle principali potenze statali ricorda
sempre più gli anni precedenti alla grande conflagrazione imperialista del
1914. Una simile svolta sarebbe stata difficilmente immaginabile negli anni
Novanta, quando l’ideologia della globalizzazione neoliberista dominava e gli
Stati uniti regnavano come unica superpotenza.
Gli Usa
restano senza dubbio il principale – e più aggressivo – attore sulla scena
internazionale, come dimostra la loro posizione nei confronti della Cina. È
importante notare che nessuno dei suoi potenziali sfidanti proviene dalle
«vecchie» potenze imperialiste, ma tutti sono nati da quello che una volta era
considerato il Secondo o il Terzo Mondo, con la Cina come principale
concorrente economico e la Russia come principale concorrente militare. Ciò
riflette la profonda trasformazione dell’economia mondiale negli ultimi
decenni.
L’inasprimento
delle tensioni avviene, inoltre, in un momento di storica performance negativa
del nucleo centrale dell’economia mondiale, in particolare dopo la Grande Crisi
del 2007-09. L’attività economica nelle aree centrali è notevolmente debole in
termini di crescita, investimenti, produttività e così via, e non ci sono
segnali evidenti di un nuovo rilancio. Il periodo successivo alla Grande Crisi
del 2007-09 è un classico interregno nel senso di Antonio Gramsci, cioè del
vecchio che muore e del nuovo che non nasce, solo che in questo contesto
segnala l’incapacità del nucleo dell’accumulazione capitalistica di
intraprendere una propria crescita sia a livello interno che internazionale.
La
drammatica ricomparsa delle contese imperialiste ed egemoniche e la necessità
di trarne conclusioni politiche sono questioni di primaria importanza per la
sinistra socialista, come sostenuto in un recente contributo su Jacobin. In questo articolo, mi propongo di contribuire con
alcuni punti chiave al dibattito, attingendo principalmente all’opera
collettiva di recente pubblicazione The State of Capitalism: Economy,
Society, and Hegemony.
L’economia politica marxista classica
dell’imperialismo
La teoria
marxista ha sempre cercato di collegare l’imperialismo all’economia politica
del capitalismo. Ciò è evidente soprattutto nell’analisi canonica di Vladimir
Lenin, costruita sulla base del Capitale finanziario di Rudolf
Hilferding. L’attuale riapparizione delle contese imperialiste ed egemoniche
può essere analizzata al meglio seguendo il percorso aperto da questi autori.
Gli approcci
che si basano su spiegazioni non economiche, o che cercano addirittura di
staccare l’imperialismo dal capitalismo, come quello di Joseph Schumpeter,
hanno un potere esplicativo limitato. Tuttavia, la teoria di Hilferding e di
Lenin dev’essere trattata con grande cautela. Le attuali prospettive
geopolitiche del mondo potrebbero ricordare quelle precedenti al 1914, ma le
apparenze possono ingannare.
Per entrambi
gli autori, il motore principale dell’imperialismo è stata la trasformazione
delle unità fondamentali del capitale nelle aree centrali dell’economia
mondiale, che ha portato all’emergere del capitale finanziario. In poche
parole, il capitale industriale e bancario monopolistico si è amalgamato nel
capitale finanziario, che ha cercato di espandersi all’estero in due modi: in
primo luogo, attraverso la vendita di merci e, in secondo luogo, attraverso
l’esportazione di capitale monetario prestato.
In breve,
l’imperialismo classico è stato guidato dall’accelerazione
dell’internazionalizzazione del capitale monetario e delle merci sotto l’egida
dell’amalgama dei capitali monopolistici industriali e finanziari.
Naturalmente,
i capitali finanziari dei diversi paesi erano in competizione tra loro sul
mercato mondiale, e a tal fine cercavano il sostegno – specificamente, ma non
esclusivamente – dei propri Stati. Ne seguì la creazione di imperi coloniali
per assicurarsi l’esclusiva territoriale per l’esportazione di capitale di base
e per creare condizioni favorevoli all’esportazione di capitale di prestito.
I paesi
colonizzati erano in genere a uno stadio inferiore di sviluppo capitalistico o
non erano affatto capitalistici. Tale espansione coloniale sarebbe stata
impossibile senza il militarismo e quindi senza la spinta al confronto armato
tra i vari competitors.
In sintesi,
la spinta alla creazione di colonie è scaturita dalle operazioni aggressive dei
capitali finanziari che cercavano di assicurarsi dei profitti. A tal fine,
hanno cooptato i servizi dello Stato e questo ha creato una spinta verso la
guerra. Gli Stati non sono imprese capitalistiche e le loro relazioni non sono
determinate da un calcolo grossolano di profitti e perdite. Agiscono in base al
potere, alla storia, all’ideologia e a una serie di altri fattori non
economici. L’arbitro ultimo tra questi è la potenza militare.
L’espansione
imperialista era quindi guidata fondamentalmente dal capitale privato, ma
comportava inevitabilmente oppressione, sfruttamento e conflitti nazionali. I
flussi di valore verso la metropoli potevano derivare dai profitti delle
imprese, ma anche dalla tassazione dello sfruttamento, come in India. A questi
si contrapponevano le ingenti spese per l’acquisizione e il mantenimento delle
colonie.
In quest’ottica,
è fuorviante cercare di dimostrare l’esistenza dell’imperialismo attraverso un
modello economico che mostri eccedenze monetarie nette create e appropriate
dalle metropoli. L’imperialismo è una pratica geopolitica e una realtà
economica. È radicato nella condotta e nei profitti delle imprese
capitalistiche attive a livello globale, ma dà origine a politiche statali che
hanno risultati complessi e contraddittori. In senso profondo, l’imperialismo è
un risultato storico dell’accumulazione capitalistica matura.
L’imperialismo contemporaneo
A differenza
dai tempi di Hilferding e Lenin, la prima e decisiva caratteristica
dell’imperialismo contemporaneo è l’internazionalizzazione del capitale
produttivo, piuttosto che soltanto commerciale e del capitale monetario di
prestito.
Grandi
volumi di produzione capitalistica si realizzano oltre le frontiere tramite
filiere tipicamente guidate da multinazionali, che esercitano il controllo
direttamente attraverso i diritti di proprietà sulle filiali o indirettamente
attraverso contratti con i capitalisti locali. Il balzo quantitativo del volume
del commercio internazionale negli ultimi decenni è il risultato del commercio
all’interno di queste catene del valore.
Produrre
all’estero ha requisiti molto più stringenti del semplice commercio di materie
prime o del prestito di denaro. Il capitalista internazionale deve avere
un’ampia conoscenza delle condizioni economiche locali nei paesi destinatari,
diritti affidabili sulle risorse locali e, soprattutto, accesso a una forza
lavoro capace. Tutto ciò rende necessarie relazioni dirette o indirette con lo
Stato sia del paese di origine che di quello di destinazione.
Il secondo
punto di differenza, altrettanto decisivo, è la forma caratteristica assunta
dal capitale finanziario negli ultimi decenni, che è stato un fattore decisivo
nella finanziarizzazione del capitalismo sia a livello nazionale che
internazionale.
L’esportazione
di capitale prestato è cresciuta enormemente, ma la maggior parte dei flussi è
stata, e rimane, principalmente da nucleo centrale a nucleo centrale, piuttosto
che da centro a periferia. La proporzione è stata di circa dieci a uno a favore
del primo. Inoltre, caratteristica dell’interregno è la crescita sostanziale
dei flussi dalla Cina alla periferia e di altri flussi da periferia a
periferia.
Inoltre,
fino alla Grande Crisi del 2007-09, sia la finanziarizzazione interna che
quella internazionale erano guidate principalmente dalle banche commerciali.
Durante l’interregno il centro di gravità si è spostato verso le varie
componenti del «sistema bancario ombra», ossia le istituzioni finanziarie non
bancarie, come i fondi di investimento, che traggono profitto dalla
negoziazione e dalla detenzione di titoli. Tre di questi fondi – BlackRock,
Vanguard e State Street – detengono attualmente nei loro portafogli una quota
enorme dell’intero capitale azionario degli Stati uniti.
L’imperialismo
contemporaneo è, insomma, caratterizzato dall’internazionalizzazione del
capitale produttivo, merceologico e monetario, ancora una volta sotto l’egida
dei capitali industriali e finanziari di monopolio. Tuttavia, sempre
contrariamente all’epoca di Hilferding e Lenin, non c’è un amalgama tra
capitale industriale e capitale finanziario, e certamente non c’è un amalgama in
cui il secondo domini il primo.
La
dominazione non è, dopotutto, un risultato del movimento essenziale del
capitale, ma deriva dalle realtà concrete delle operazioni capitalistiche in
specifici contesti storici. All’inizio del XX secolo, le banche potevano
dominare i capitali industriali perché questi ultimi si affidavano pesantemente
ai prestiti bancari per finanziare gli investimenti fissi a lungo termine. Tali
prestiti hanno permesso e incoraggiato le banche a partecipare attivamente alla
gestione delle grandi imprese.
Oggi, le
imprese industriali dei paesi core sono caratterizzate da
bassi investimenti e, allo stesso tempo, da enormi volumi di capitale monetario
di riserva. Entrambe sono caratteristiche della finanziarizzazione delle
imprese industriali e della scarsa performance delle economie centrali durante
l’interregno. Inoltre, implicano che le grandi imprese internazionali sono
molto meno dipendenti dal capitale finanziario rispetto ai tempi
dell’imperialismo classico.
Le vaste
partecipazioni azionarie delle «banche ombra» sono certamente importanti per
quanto riguarda il potere di voto all’interno delle grandi imprese e svolgono quindi un ruolo nel processo decisionale delle società non
finanziarie. Tuttavia, è esagerato affermare che le Tre Grandi dettino le
condizioni alle società statunitensi. Esse sono titolari di azioni che
appartengono ad altri – spesso altre «banche ombra» – e cercano di ottenere
profitti gestendo i loro portafogli di titoli. La loro posizione ricorda quella
di un rentier, che però cerca un equilibrio di coesistenza con
l’industriale attraverso i mercati mobiliari.
La forza
motrice dell’imperialismo contemporaneo scaturisce da questo binomio tra
capitale industriale internazionalizzato e capitale finanziario
internazionalizzato. Nessuno dei due domina l’altro e non c’è uno scontro
fondamentale tra loro. Insieme costituiscono la forma di capitale più
aggressiva che la storia conosca.
Requisiti economici dell’imperialismo contemporaneo
L’abbinamento
di capitali che guida l’imperialismo contemporaneo non ha bisogno di
esclusività territoriale e non cerca di formare imperi coloniali. Al contrario,
prospera grazie all’accesso illimitato alle risorse naturali globali, alla
manodopera a basso costo, alla bassa tassazione, agli standard ambientali poco
rigorosi e ai mercati per le sue componenti industriali, commerciali e
finanziarie.
Un punto da
sottolineare a questo proposito è che non esiste una classe capitalista
«mondiale». Si tratta di un’illusione che risale ai tempi del trionfo
ideologico della globalizzazione e dell’unica egemonia statunitense. Esiste
certamente una somiglianza di vedute tra i capitalisti attivi a livello internazionale,
che riflette in ultima analisi il potere egemonico degli Stati uniti. Ma
l’enorme escalation di tensioni degli ultimi anni dimostra che i capitalisti
sono e rimarranno divisi in gruppi potenzialmente ostili a livello
internazionale.
Tra l’altro,
non esiste nemmeno una «aristocrazia del lavoro» nei paesi centrali,
contrariamente a quanto sosteneva Lenin. La grande pressione esercitata sui
lavoratori dei paesi centrali negli ultimi quarant’anni ha smentito quest’idea.
I capitali
industriali e finanziari attivi a livello internazionale hanno due requisiti
fondamentali. In primo luogo, devono esistere regole chiare e applicabili per i
flussi di investimenti produttivi, di materie prime e di capitali monetari
prestati. Non si tratta di un semplice accordo tra Stati, ma di qualcosa che
deve essere garantito da istituzioni adeguatamente strutturate, come il Fondo
Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del
Commercio, la Banca dei Regolamenti Internazionali e così via. In secondo
luogo, deve esistere una forma affidabile di moneta mondiale che funga da unità
di conto, mezzo di pagamento e riserva di valore.
Entrambi i
requisiti – soprattutto il secondo – riflettono il carattere peculiare
dell’economia mondiale che, a differenza di quella interna, manca
intrinsecamente della presenza coordinatrice e organizzatrice di uno Stato
nazionale. Ciononostante, i capitali industriali e finanziari hanno ancora
bisogno del sostegno degli Stati nazionali per navigare tra le insidie del mercato
mondiale.
Inevitabilmente,
il sistema degli Stati nazionali – distinto dal sistema dei capitali in
competizione internazionale – entra in gioco e porta le sue considerazioni non
economiche.
Il ruolo dell’egemonia
La
caratteristica del sistema degli Stati nazionali è l’egemonia e ci sono poche
guide migliori di Gramsci per affrontare questo tema, come ha suggerito Robert Cox molto tempo fa. L’attenzione di Gramsci era
rivolta all’equilibrio interno delle classi e ai risultati politici che ne
derivano, piuttosto che alle relazioni statali internazionali. Il punto che
conta ai nostri fini, tuttavia, è che per Gramsci l’egemonia implica sia la
coercizione sia il consenso. Entrambi sono cruciali per il funzionamento
dell’imperialismo contemporaneo.
Gli Stati
uniti sono stati l’unico potere egemone per quasi tre decenni dopo il crollo
dell’Unione sovietica; il suo potere derivava dalla predominanza economica che
si rifletteva nelle dimensioni del Pil e dei relativi mercati, nel volume del
commercio internazionale e nell’entità dei flussi di capitale in entrata e in
uscita. Soprattutto, la sua posizione egemonica derivava dalla capacità unica
di radicare la propria moneta nazionale come moneta mondiale.
Il potere
coercitivo degli Stati uniti è in parte economico, come dimostra l’enorme gamma
di sanzioni che impongono regolarmente agli altri. In primo luogo, però, è
militare, con spese enormi che attualmente superano i 1.000 miliardi di dollari
all’anno. Questa cifra è superiore a quella delle «vecchie» potenze
imperialiste di almeno un ordine di grandezza e finanzia una vasta rete di basi
militari in tutto il mondo. A differenza del periodo classico, la
militarizzazione e l’enorme complesso militare-industriale sono caratteristiche
permanenti e integrali dell’economia statunitense.
Il potere di
consenso degli Stati uniti si basa sul loro ruolo dominante nell’ambito delle
istituzioni internazionali che regolano l’attività economica internazionale.
Questa forma di potere si avvale di università e think tank che producono
l’ideologia prevalente nelle istituzioni internazionali. Si è rivelata
fondamentale per generare una visione comune tra i capitalisti attivi a livello
internazionale in tutto il mondo per diversi decenni.
Come unico
egemone, gli Stati uniti hanno costantemente promosso gli interessi dei loro
capitali attivi a livello globale. Così facendo, hanno creato le condizioni che
consentono anche ai capitali di altri «vecchi» paesi imperialisti di operare
con profitto, non da ultimo garantendo un accesso controllato al dollaro in
momenti critici, come nel 2008 ma anche nel 2020. Anche sotto questo aspetto,
l’imperialismo contemporaneo è drammaticamente diverso dalla versione classica.
Il problema
egemonico per gli Stati uniti nasce dalla natura contraddittoria di queste
tendenze.
Da un lato,
favorire gli interessi dei capitali attivi a livello internazionale ha
comportato costi sostanziali per alcuni settori dell’economia interna
statunitense. La produzione è emigrata, lasciando dietro di sé una
disoccupazione persistente, le imprese si sono registrate in paradisi fiscali
per evitare le tasse, la capacità tecnica è andata persa e così via.
Dall’altro,
la delocalizzazione della capacità produttiva ha favorito l’emergere di centri
indipendenti di accumulazione capitalistica in quelli che prima erano considerati
il Secondo e il Terzo Mondo. Il ruolo principale è stato svolto dagli Stati
nazionali che hanno navigato nelle secche della produzione, del commercio e
della finanza globalizzate. Ma anche la delocalizzazione della produzione è
stata un fattore cruciale.
L’esempio
principale è ovviamente la Cina, che è emersa come il più grande paese
manifatturiero e commerciale del mondo. Certo, le gigantesche imprese
industriali e finanziarie cinesi hanno caratteristiche e relazioni distintive
rispetto alle loro equivalenti statunitensi, anche perché molte di esse sono di
proprietà dello Stato. Ma anche i capitali finanziari dell’imperialismo
classico presentavano differenze sostanziali tra loro, come ha sottolineato, ad esempio, Kozo Uno.
Ai nostri
fini, le enormi imprese industriali e finanziarie cinesi, indiane, brasiliane,
coreane, russe e di altro tipo operano sempre più su scala globale e cercano il
sostegno dello Stato per influenzare le regole del gioco e per determinare la
moneta mondiale. Ciò significa in primo luogo il proprio Stato, sebbene
coltivino anche relazioni con altri Stati.
La spinta alla guerra
Le radici
del costante inasprimento delle contese imperialiste si trovano in questa
configurazione del capitalismo globale. Gli Stati uniti ovviamente non si
sottometteranno alla sfida e attingeranno al loro vasto potere militare,
politico e monetario per proteggere la loro egemonia. Ciò li rende la
principale minaccia alla pace mondiale.
Le attuali
contese, in altre parole, ricordano l’epoca precedente al 1914, nel senso
fondamentale di essere guidate da motivazioni economiche di fondo. Questo non
significa che dietro a ogni esplosione ci sia un rozzo calcolo economico, ma
significa che le contese hanno profonde radici materiali. Sono quindi
straordinariamente pericolose e difficili da affrontare.
Inoltre, le
contese sono qualitativamente diverse dall’opposizione tra Stati uniti e Unione
sovietica, che era principalmente politica e ideologica. Durante l’interregno,
gli Stati uniti hanno contato sul sostegno delle «vecchie» potenze
imperialiste, attingendo soprattutto al loro potere di consenso, che affonda le
sue radici nell’epoca antisovietica. Nulla garantisce che potranno farlo per
sempre.
La sinistra
si trova quindi di fronte a una scelta difficile ma allo stesso tempo chiara.
Il graduale emergere della «multipolarità», con la sfida all’egemonia
statunitense da parte di altri Stati potenti, ha creato un certo spazio per i
paesi più piccoli che possono difendere i propri interessi. Ma non c’è nulla di
meritorio o di progressista nel capitalismo cinese, indiano, russo o di
qualsiasi altro tipo. Inoltre, è fondamentale ricordare che nel 1914 il mondo
era multipolare e il risultato fu una catastrofe. La risposta si trova ancora
negli scritti di Lenin, anche se il mondo è molto cambiato.
La sinistra
socialista deve opporsi all’imperialismo, pur riconoscendo che gli Stati uniti
sono il principale aggressore. Ma bisogna farlo da una posizione indipendente,
apertamente anticapitalista e che non si faccia illusioni su Cina, India,
Russia e altri contendenti, tanto meno sui «vecchi» imperialisti. Il percorso
dev’essere quello della trasformazione anticapitalista interna, basata sulla
sovranità popolare e abbinata alla sovranità nazionale che cerca l’uguaglianza
internazionale. Si tratterebbe di un vero internazionalismo, basato sul potere
delle lavoratrici, dei lavoratori e dei poveri. Come possa tornare a essere una
vera forza politica è il problema più profondo del nostro tempo.
*Costas Lapavitsas è professore di economia alla Soas,
attualmente alla New School for Social Research. è stato deputato al parlamento
greco. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della
redazione.
sabato 28 settembre 2024
Il 10 settembre i coloni israeliani sono diventati immigrati illegali - Thierry Meyssan
Siamo abituati a vedere Israele commettere atrocità prendendo a pretesto la propria sicurezza e gli anglosassoni prenderne le difese nel Consiglio di sicurezza. Siamo spettatori di crimini che non comportano alcuna conseguenza giudiziaria. Questa situazione sta per finire. La Corte internazionale di giustizia ha tolto di mezzo il paralogismo di Tel Aviv e ha riconosciuto lo Stato di Palestina membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Ormai non si potrà più fingere di non vedere la sofferenza dei palestinesi e costoro potranno perseguire i loro carnefici.
Il 10
settembre i coloni israeliani, che sostengono di adempiere a un piano divino
insediandosi in Cisgiordania (per loro: Giudea-Samaria), sono passati dallo
status di cittadini israeliani residenti in territori contesi, a quello
d’immigrati illegali nello Stato sovrano di Palestina.
All’apertura
della settantanovesima sessione, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha
infatti reso esecutiva la risoluzione ES-10/23 dello scorso 10 maggio [1]. Così lo
Stato di Palestina è diventato membro a pieno titolo dell’Organizzazione delle
Nazioni Unite (Onu). Nessuno quindi può più opporsi all’esercizio dei suoi
diritti di Stato sovrano.
Il
riconoscimento della Palestina come Stato sovrano modifica l’interpretazione
dell’Accordo interinale sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza (il
cosiddetto Accordo di Oslo II).
L’Autorità
palestinese non è più l’amministrazione provvisoria di un periodo di
transizione, ma un governo nel pieno senso del termine. I Territori palestinesi
non sono più «aree contese», ma il territorio internazionalmente riconosciuto
di uno Stato sovrano.
Dalla guerra
del 1967, nota come Guerra dei Sei giorni, il movimento dei coloni ha
guadagnato costantemente terreno. Oggi ci sono oltre 700 mila coloni in
Cisgiordania, Gerusalemme Est e sulle alture del Golan.
Il 19 luglio
la Corte internazionale di giustizia (CIG) - il tribunale interno delle Nazioni
unite - consultato dall’Assemblea generale delle Nazioni
unite, ha definito le norme giuridiche relative alle politiche e alle pratiche
di Israele nei Territori palestinesi occupati [2]. Il parere
della CIG non ha ancora avuto seguito perché solo il Consiglio di sicurezza ha
il potere di costringere Israele ad applicarlo.
Ricordiamo
che il diritto internazionale, a differenza del diritto penale, non si basa su
una forza di polizia e su un sistema carcerario. Impone semplicemente ai
governi l’obbligo di rispettare la firma del loro Stato. Aderendo all’Onu,
Israele ne ha sottoscritto lo Statuto [3] che, al
capitolo XIV, impegna ogni Stato membro «a conformarsi alla decisione della
Corte internazionale di giustizia in qualsiasi controversia di cui sia parte».
La Corte ha
ritenuto (paragrafo 229) che le politiche e le pratiche di Israele nei
Territori palestinesi occupati vìolino la Convenzione internazionale
per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Secondo la
CIG, Israele pratica una forma di apartheid (cfr. art. 3 della Convenzione).
Questo è esattamente quanto proclamò l’Assemblea generale dell’Onu il 10
novembre 1975: «Il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione
razziale» (risoluzione 3379) [4]. Questo
testo fu abrogato solo per facilitare la Conferenza di pace di Madrid del 1991
[5]. Tuttavia,
non avendo Israele adempiuto agli impegni assunti all’epoca, anzi avendo
esacerbato le sue politiche e le sue pratiche, questo testo dovrebbe essere
ripristinato.
La Corte ha
anche osservato (paragrafo 263) che «gli Accordi di Oslo non autorizzano
Israele ad annettere parti dei Territori palestinesi occupati per soddisfare le
proprie esigenze nonché gli obblighi in materia di sicurezza. Né lo autorizzano
a mantenere allo stesso scopo una presenza permanente nei Territori palestinesi
occupati». Ciò che era vero a luglio è ancor più vero ora che la Palestina è
uno Stato sovrano, riconosciuto a livello internazionale.
Di
conseguenza, la settimana scorsa - ossia dopo questa decisione e prima
che la Palestina entrasse a far parte dell’Assemblea generale - le Forze di difesa israeliane (FDI) hanno improvvisamente
evacuato le principali città della Cisgiordania che avevano occupato. Il 12
settembre il governo israeliano ha per contro dichiarato che non c’è ragione di
aumentare gli aiuti umanitari a Gaza, poiché Israele non controlla questo
territorio e quindi non vi ha alcuna responsabilità.
Ciò
premesso, la Corte ha concluso che «Israele ha l’obbligo di risarcire
pienamente i danni causati dai suoi atti internazionalmente illeciti
[l’occupazione e l’apartheid] a ogni persona fisica o giuridica interessata»
(paragrafo 269). Questo implica «l’obbligo per Israele di restituire terra e
altre proprietà immobiliari, nonché tutti i beni confiscati, a qualsiasi
persona fisica o giuridica dall’inizio dell’occupazione del 1967, e tutti i
beni e gli edifici culturali sottratti ai palestinesi e alle loro istituzioni,
compresi gli archivi e i documenti. Esige inoltre che tutti i coloni degli
insediamenti esistenti siano evacuati, che le parti del muro costruito da
Israele situate nei Territori palestinesi occupati siano smantellate e che
tutti i palestinesi sfollati durante l’occupazione possano tornare al luogo di
residenza originario» (paragrafo 270).
Si noti che
la Corte non ha ordinato il risarcimento dei danni causati prima del 1967. Non
era questo il quesito posto dall’Assemblea generale. Inoltre le armi hanno
parlato e i palestinesi hanno perso diverse operazioni militari di cui devono
sopportare le conseguenze. I torti sono da entrambe le parti, sebbene sia
evidente che i danni subiti dai palestinesi sono sproporzionati rispetto a
quelli subiti dagli israeliani.
La Corte si
è pronunciata sulle conseguenze dell’occupazione dal 1967. Le sue decisioni non
sono retroattive. Essa però prende atto che i danni hanno continuato ad
aggravarsi dal 1967.
Rivolgendosi
a tutti gli Stati membri delle Nazioni unite, la Corte ha notificato loro che
«hanno l’obbligo di non riconoscere alcun cambiamento nel carattere fisico o
nella composizione demografica, nella struttura istituzionale o nello status
dei territori occupati da Israele il 5 giugno 1967, compresa Gerusalemme Est,
se non quelli concordati con le parti attraverso negoziati, nonché di
distinguere, nelle relazioni con Israele, tra il territorio dello Stato di
Israele e i territori occupati dal 1967. La Corte ritiene che nelle relazioni
con Israele l’obbligo di distinguere tra il territorio proprio di tale Stato e
i Territori occupati comprenda tra l’altro l’obbligo di non intrattenere
relazioni convenzionali con Israele in tutti i casi in cui quest’ultimo
pretenda di agire in nome dei Territori palestinesi occupati o di una parte di
essi in questioni riguardanti tali territori; di non intrattenere, in ciò che
concerne i Territori palestinesi occupati o parte di essi, relazioni economiche
o commerciali con Israele, che fossero di natura tale da rafforzare la presenza
illecita di Israele in questi territori; nello stabilire e mantenere missioni
diplomatiche in Israele, devono astenersi dal riconoscere in qualsiasi modo la
presenza illegale di quest’ultimo nei Territori palestinesi occupati; nonché
dall’adottare misure per impedire il commercio o gli investimenti che
contribuiscano al mantenimento della situazione illegale creata da Israele nei
Territori palestinesi occupati» (paragrafo 278).
Per questo
motivo, il 9 settembre Volker Turk, alto commissario delle Nazioni unite per i
Diritti umani, aprendo la 57^ sessione del Consiglio per i Diritti umani, ha
dichiarato: «Nessuno Stato deve accettare la flagrante inosservanza del diritto
internazionale, nonché delle decisioni vincolanti del Consiglio di sicurezza
dell’Onu e le ordinanze della Corte internazionale di giustizia, in questa
situazione [l’occupazione israeliana della Palestina] o in qualsiasi altra».
Ognuno di
noi deve esserne consapevole: le regole sono cambiate. L’occupazione dello
Stato di Palestina da parte di Israele è illegale. Dal 10 settembre questo
Stato è riconosciuto a livello internazionale, anche se diversi membri del
Consiglio di sicurezza non lo hanno fatto a titolo personale. Ora lo Stato di
Palestina dispone dei mezzi legali che gli mancavano. L’ombrello anglosassone
dietro cui Tel Aviv si ripara non esiste più a livello giuridico. Stiamo
entrando in un nuovo periodo in cui Washington e Londra dovranno usare la forza
per mantenere questo sistema di oppressione.
Questa
rivoluzione giuridica segna una vittoria per la strategia del presidente
Mahmoud Abbas (89 anni). Paradossalmente arriva alla fine della sua vita,
proprio in un momento in cui il suo governo è screditato dalla collaborazione
con Israele e dalla corruzione.
Traduzione di Rachele Marmetti
Note
[1] « Admission de nouveaux Membres à l’Organisation des
Nations Unies », Réseau Voltaire, 10 mai 2024.
[2] • English : Legal Consequences arising from the Policies and Practices of Israel in the
Occupied Palestinian Territory, including East Jerusalem, International Court
of Justice, July 19, 2024.
• Français : Avis consultatif du 19 juillet 2024. Conséquences juridiques découlant des
politiques et pratiques d’Israël dans le Territoire palestinien occupé, y
compris Jérusalem-Est, Cour internationale de Justice, 19
juillet 2024.
[3] « Charte des Nations unies », Réseau
Voltaire, 26 juin 1945.
[4] « Qualification du sionisme », ONU (Assemblée
générale) , Réseau Voltaire, 10 novembre 1975.
[5] « Retrait de la qualification du sionisme »,
ONU (Assemblée générale) , Réseau Voltaire, 16 décembre 1991.
venerdì 27 settembre 2024
Non basta dire "guerra giusta" - Alessandro Marescotti
Sempre più soldati ucraini starebbero disertando, mentre i giovani del
Paese scelgono la strada della renitenza per evitare il servizio militare. Le
risorse materiali e umane si stanno rapidamente esaurendo, e il morale è ai
minimi storici. Mentre si prepara la Caporetto di Zelensky.
La guerra in
Ucraina, iniziata nel febbraio 2022, è stata a lungo presentata come una
"guerra giusta" da parte dell'Occidente. La narrazione dominante ha
giustificato l'aiuto militare, finanziario e politico a Kyiv come una difesa
della sovranità nazionale e dei principi fondamentali dell'ordine
internazionale. Tuttavia, ciò che è apparso sempre più evidente con il
progredire dello scontro (e delle sconfitte dei soldati ucraini) è che la
giustezza di una guerra non si misura solo in base ai principi che la
sottendono, ma anche in base al suo esito. Una guerra "giusta", se
persa, può trasformarsi in un incubo di devastazione senza alcun ritorno,
innescando nuove instabilità e sofferenze.
Zelensky e la disfatta militare
Nel corso degli
ultimi mesi, le notizie dal fronte ucraino sono state sempre meno
incoraggianti. Il presidente Zelensky si trova ora a fronteggiare una realtà
ben diversa da quella che immaginava. La controffensiva ucraina dello scorso
anno, ampiamente annunciata e sostenuta dall'Occidente, non ha prodotto i
risultati auspicati. Le linee russe sono rimaste intatte e le perdite sul campo
sono state ingenti.
Quella
scelta sbagliata militarmente è stata l'inizio di un ciclo di sconfitte per
Zelensky.
Secondo
varie fonti, sempre più soldati ucraini starebbero disertando, mentre i giovani
del Paese scelgono la strada della renitenza per evitare il servizio militare.
Le risorse materiali e umane si stanno rapidamente esaurendo, e il morale è ai
minimi storici. La narrazione di Zelensky sulla possibile riconquista della
Crimea e delle regioni orientali si è rivelata una chimera. Con il sostegno
militare occidentale che inizia a vacillare, la possibilità di una vittoria
totale dell'Ucraina appare sempre più irrealistica. Anzi. Quella che si prepara
è la Caporetto di Zelensky.
Un'opportunità diplomatica mancata
A questo
punto, è lecito chiedersi se la strada della diplomazia non avrebbe potuto
evitare questo bagno di sangue. Gli accordi di Minsk, che prevedevano una
maggiore autonomia per le regioni del Donbass, avrebbero potuto rappresentare
una via per una pace negoziata. Escludere Kyiv dalla NATO e garantire una
posizione di neutralità geopolitica, come molti avevano suggerito, avrebbe
potuto scongiurare il conflitto. Invece, la linea dura scelta dal governo
ucraino, fortemente influenzato dall’appoggio occidentale, ha portato a una
guerra devastante che, a oggi, sembra lontana dall’avere un esito favorevole
per Kyiv.
Il prezzo della guerra
Le cifre
parlano chiaro: un milione di morti e
feriti, città
distrutte, milioni di sfollati. La guerra ha consumato enormi risorse, non solo
per l'Ucraina, ma anche per i Paesi che la sostengono. Il sogno di Zelensky di
una vittoria totale si è infranto contro la dura realtà della resistenza russa,
e il suo obiettivo di riconquistare la Crimea sembra sempre più un’ossessione
irrealizzabile, piuttosto che un piano strategico realistico.
Nel
frattempo, l'Occidente inizia a interrogarsi sulla sostenibilità del suo
sostegno a oltranza. Gli Stati Uniti, in particolare, stanno affrontando un
dibattito interno su quanto ancora siano disposti a investire in una guerra che
sembra non avere fine. Le risorse militari sono limitate, e con la crescente
sfida cinese sullo scenario globale, Washington potrebbe decidere di
concentrarsi su altre priorità.
Una guerra trasformata in incubo
Alla luce di
tutto ciò, la domanda che emerge è: chi beneficerà davvero di questa guerra?
Per ora, sembra che l'unico risultato concreto sia una devastazione senza
precedenti, con poche prospettive di pace duratura. Una "guerra
giusta", se combattuta senza una chiara strategia di vittoria o una via
d'uscita negoziata, può trasformarsi rapidamente in una guerra che causa solo
distruzione.
La storia è
piena di esempi in cui la smania di vittoria ha portato al disastro, e
l’Ucraina rischia di diventare l'ultimo tragico capitolo di questa lezione.
Note: Testo realizzato con l'ausilio di un LLM su input e revisione finale
dell'autore.
Beirut, i dottori della luce fra le sadiche sevizie d’Israele - Enrico Campofreda
Ha pianto il dottor Elias Jaradeh nel vedere cosa aveva sotto
gli occhi. Occhi sgusciati, frantumati, prosciugati. Buchi neri su volti
insanguinati dalla perfidia di chi vuole lasciare l’indelebile segno d’una
violenza studiata e suggellata da orrendo sadismo, definito dai taluni servili
cantori del mainstream mediatico: “deterrenza strategica”. Tanti dei bulbi
oculari dei miliziani di Hezbollah erano esplosi dietro i
beeper dove il Mossad aveva celato microcariche assassine
fatte brillare all’unisono. Lui e la sua équipe osservavano sgomenti quegli
squarci e su tale disastro hanno dovuto agire. L’esperienza, le qualità
professionali di questi oftalmologi libanesi dovevano tamponare la dote
tormentatrice dell’Intelligence di Tel Aviv che, col lugubre gesto di occultare
la morte o la più lacerante ferita, s’è sentita ancora una volta invincibile.
Il successo dei vili ha colpito ignari nemici e incolpevoli civili che gli
vivono accanto o li incrociavano casualmente. Così Elias, che è medico e dal
2022 anche deputato per la formazione indipendente Change, confessa
d’aver agito in maniera ‘robotica’ per poter continuare a lavorare davanti a
tanto orrore. Il dottor Jaradeh conferma quanto le prime confuse informazioni
avevano annunciato: i feriti sono in maggioranza civili, magari familiari dei
miliziani, ma non esclusivamente loro. “Coi colleghi abbiamo dovuto separare
lo sconcerto e la rabbia e immergerci nel dramma perché a essere colpita era
gente comune, e per noi un’intera nazione. Si trattava di civili con le loro
famiglie, non persone sul campo di battaglia. Ho estratto più occhi
lacerati di quanto non avessi fatto in anni di chirurgia oftalmologica”. Gli
fanno eco le testimonianze di altri due oculisti intervenuti sui feriti,
diffuse su Instagram:
Dice Alaa Bou Ghannam: “Nel nostro centro abbiamo
ricevuto circa 200 feriti, il 75% colpiti agli occhi, occhi devastati da
frammenti metallici e plastici. Nella mia vita professionale non mi
ero mai attivato per un’emergenza simile, soprattutto tanto ampia, né penso sia
accaduto ad altri colleghi al mondo. Siamo stati quasi due giorni a suturare la
sclera e cucire la cornea di ciascun occhio. Molti dei colpiti resteranno
ciechi o monchi di una o due mani”. Per Ama Sadaka: “Fra i
feriti agli occhi più della metà ha perso l’occhio sinistro e siamo stati
costretti a rimuoverlo, non a curarlo. Tutti i tessuti erano penetrati da
frammenti metallici o di plastica oppure erano bruciati e la materia organica
che osservavamo era disciolta, comprese le palpebre. La palpebra è essenziale
quando si deve intervenire sull’occhio. Un occhio artificiale può sostituire
quello perduto ma sarà molto difficile inserire una protesi se manca il
sostegno della palpebra. Taluni dei colpiti hanno avuto entrambi gli occhi
rimossi”. E ora sentite: “L’esplosione a distanza dei cercapersone
di Hezbollah vede l’impiego di una miscela (sic) di
Intelligence e alta tecnologia per esercitare deterrenza nei confronti dei
singoli combattenti nemici, al fine d’indebolire dal di dentro l’organizzazione
paramilitare. Colpire personalmente, nell’arco di poche ore, migliaia di
miliziani Hezbollah significa aver messo a segno la più estesa operazione di
antiterrorismo finora conosciuta...” E’ questo uno dei passaggi
dell’editoriale di Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica, (Medio
Oriente, come cambia il volto della deterrenza) che per amor di professione
non commentiamo. Invitiamo a leggerlo per comprendere quale sia il livello di
un giornale – visto che quel quotidiano di tradizione liberal-progressista è
tuttora considerato un organo d’informazione – che tradisce il suo ruolo
trasformandosi in voce di propaganda. Neppure di uno Stato, bensì d’una sua
branca addirittura peggiore del mortifero passato delle sue origini legato ai
crimini della banda Stern.
giovedì 26 settembre 2024
Bombe nei giocattoli: Breve storia delle trappole esplosive israeliane in Libano - Alex MacDonald
Il Libano è ancora scosso da due ondate di esplosioni di cercapersone e
walkie-talkie, attribuite a Israele, che hanno ucciso 32 persone e ne hanno
ferite altre migliaia.
Sebbene Israele non abbia rivendicato la responsabilità degli attacchi, le
voci pro-Israele si sono affrettate a lodare l'attacco come un ottimo esempio
dell'abilità del Paese nel condurre attacchi chirurgici che colpiscono i suoi
nemici senza infliggere danni collaterali.
Questo nonostante il fatto che negli attacchi siano stati uccisi due
bambini e feriti numerosi civili, con conseguente condanna da parte dei gruppi
per i diritti che sostengono che la natura indiscriminata delle armi potrebbe
violare le leggi di guerra.
Una fonte vicina a Hezbollah ha dichiarato a Middle East Eye che i
cercapersone sono stati utilizzati da una “vasta rete di persone, tra cui
amministratori, operatori medici, paramedici, operatori dei media e altri
membri civili”.
“Di solito vengono utilizzati per impartire direttive, convocare riunioni,
per le emergenze o per lo stato di allerta”, ha spiegato la fonte.
Ma questa non è certo la prima volta che Israele usa metodi poco ortodossi
in stile trappola esplosiva per colpire il Libano, né è il primo esempio di
civili e bambini mutilati e uccisi con tali armi.
MEE analizza questa storia controversa.
Bombe a grappolo e mine terrestri
Più di un milione di bombe a grappolo sono state disseminate nel Libano
meridionale a seguito degli assalti israeliani al territorio nel corso degli
anni.
Dal conflitto del 2006 tra Israele e Hezbollah, che ha visto un uso senza
precedenti di queste armi ampiamente vietate, molte persone sono state uccise
in Libano dopo averle ritrovate.
Molti bambini che giocano nella regione hanno trovato queste munizioni
inesplose.
“Sembrano innocue, soprattutto per la mente curiosa di un bambino”, spiegò
nel 2006 Chris Clark del Centro di coordinamento dell'azione antimine delle
Nazioni Unite (UNMACC) in Libano.
“Sono piccoli, si nascondono facilmente tra le macerie o i detriti dei
bombardamenti. Ci accorgiamo che i bambini le raccolgono inconsapevolmente e
poi, purtroppo, ne subiscono le ferite”.
Sia il Libano che Israele sono tra i 33 Paesi che non hanno firmato la Convenzione
per la messa al bando delle mine antiuomo (APMBC).
Israele ha occupato il Libano meridionale tra il 1982 e il 2000 e in quel
periodo ha piazzato centinaia di migliaia di mine.
Quando se ne andò, si ritiene che circa 37.000 acri del Libano fossero
contaminati da mine inesplose ed esplosivi improvvisati piantati dalle diverse
parti coinvolte nella guerra civile libanese.
Nel 2023, le attività di sminamento avevano liberato circa l'80% di
quest'area dagli esplosivi.
La necessità di proteggere i bambini del Libano meridionale dalle mine e
dalle bombe a grappolo ha portato ad alcune soluzioni innovative, tra cui il
coinvolgimento di gruppi di clown per educarli ai pericoli degli ordigni
inesplosi.
Tuttavia, secondo Mine Action Review, il lavoro di rimozione delle mine è
stato sospeso a causa dello scoppio delle ostilità tra Israele e Libano da
ottobre.
“Di conseguenza, il Libano non è in grado di rispettare la scadenza per la
bonifica dell'articolo 4 della Convenzione sulle munizioni a grappolo (CCM), prevista
per il 1° maggio 2026, e alla capacità attuale prevede che non rispetterà i
suoi obblighi fino al 2030”, si legge nel sito.
Bombe nei giocattoli
Ma dagli anni '90 circola anche un'accusa molto più sinistra: quella di
bombe sganciate dagli aerei israeliani nel Libano meridionale intenzionalmente
nascoste nei giocattoli dei bambini.
Il quotidiano libanese L'Orient-Le Jour ha
parlato del fenomeno nel 1997, citando una serie di esempi, tra cui quello di
una bambina di nove anni che si è ritrovata con la mano destra distrutta dopo
aver trovato una “grande jeep di plastica verde mela, con sei grandi ruote
nere” che le è esplosa in mano dopo averla trovata vicino al suo villaggio.
Hanno anche citato l'esempio di un bambino che riportò gravi ustioni dopo
aver trovato una torcia esplosiva e di un'altra bambina che rimase uccisa dopo
aver esclamato “Ho trovato una bambola!” prima di saltare in aria.
Un ufficiale della Forza interinale delle Nazioni Unite in Libano (Unifil)
ha confermato all'AFP che gli oggetti sono stati lanciati principalmente da
elicotteri.
“Può essere un giocattolo o avere la forma di una normale pietra”, ha
precisato a condizione di anonimato.
Nel 1998, una lettera della Missione permanente del Libano presso le
Nazioni Unite indirizzata al Segretario generale ha ripetuto l'affermazione che
gli aerei da combattimento israeliani avevano “tentato di uccidere i bambini
lanciando migliaia di giocattoli con trappole esplosive su villaggi e città
libanesi”.
“Le forze di occupazione israeliane hanno utilizzato questo metodo nel
corso degli anni e continuano a farlo, l'esempio più recente è stato quello del
lancio di giocattoli con trappole esplosive sulla città di Nabatiyah, uccidendo
e ferendo bambini e sfigurandone altri in modo permanente”, si aggiunse nella
missiva.
Da parte loro, gli Hezbollah raccontarono che tra gli oggetti trovati
c'erano un uovo d'oro, coni gialli fluorescenti, un cane Snoopy e una bambola
parlante che, secondo loro, era destinata a esplodere quando veniva tirata la
corda.
All'epoca Israele negò le accuse, definendole “spregevoli”.
Tuttavia, nel 2000, un rapporto del Comitato per gli Affari Esteri del
Regno Unito ha messo in guardia dai pericoli delle bombe inesplose nel Libano
meridionale, menzionando l'uso di “giocattoli con trappole esplosive,
presumibilmente sganciati dall'aviazione israeliana nei pressi dei villaggi
libanesi adiacenti alla cosiddetta zona di sicurezza”.
Parlando alle Nazioni Unite lo scorso mercoledì, il Segretario generale dell'ONU
Antonio Guterres ha ribadito che “gli oggetti civili” non dovrebbero far parte
della guerra.
“Penso che sia molto importante che ci sia un controllo effettivo degli
oggetti civili, che non vengano armati - questa dovrebbe essere una regola
che... i governi dovrebbero essere in grado di attuare”, ha ribadito.
“Quello che è successo è particolarmente grave, non solo per il numero di
vittime che ha causato, ma per le indicazioni che esistono sul fatto che è
stato innescato, direi, in anticipo rispetto a un modo normale di innescare
queste cose, perché c'era il rischio che venisse scoperto”.
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
*Alex MacDonald è un reporter di Middle East Eye e ha lavorato in Iraq,
Turchia, Qatar e Bosnia, esaminando le lotte sociali e ideologiche della
regione.
Nessun dolore andrà perduto - Mauro Armanino
Per il dolore è come per l’ingiustizia. Non ci si dovrebbe mai abituare
alla loro pervasiva presenza. Molto spesso il dolore è una conseguenza
dell’ingiustizia. Entrambi sono a loro modo una rivelazione. Il dolore
è una delle risposte, quella forse più immediata e drammatica, alla separazione
tra la realtà e l’anelito alla pienezza di vita. Rivela un disagio, spesso
incomunicabile, con se stessi, gli altri e il mondo. L’ingiustizia si
esprime come un tradimento perpetrato alla persona che viene privata del primo
e fondamentale diritto che è il riconoscimento della sua inalienabile dignità
umana.
“Dov’è il dolore, là il suolo è sacro”, scrisse il drammaturgo e poeta di
origine irlandese Oscar Wilde. Il Sahel è dunque un luogo sacro e come tale
andrebbe accolto e rispettato. Il suolo di cui parla il poeta non è solo quello
geologico o geopolitico. Il primo suolo sacro è costituito dalle persone, i
corpi, le speranze e l’immaginario che caratterizzano ogni umana
avventura. Il dolore che non trova parole per raccontarsi perché indicibile e prezioso
come un pianto di madre. Il dolore che sembra arrivare ancora prima di nascere
al mondo. Il dolore dei poveri che lo trasmettono, in
silenzio, da padre a figlio.
Il dolore della morte per la fame che, secondo l’Ufficio di coordinazione
delle azioni umanitarie, mette a rischio la vita di 33 milioni di persone nel
Sahel. Questa carestia è la conseguenza di crisi che, come il deterioramento
della sicurezza, l’instabilità e il clima, minacciano i mezzi di sussistenza
delle famiglie. La violenza dei conflitti armati obbliga milioni di
persone a fuggire dalla case e dalle terre per cercare un futuro precario
altrove. Una vita passata scappando da un luogo all’altro e da una guerra
alla seguente. Sembra difficile trovare un dolore che somigli a quello
raccontato dagli scampati.
Perché il dolore è una maledizione, un mistero, un silenzio, parole che non
bastano, un miracolo non accaduto e un grido inascoltato. C’è un dolore
collettivo che non è la somma dei dolori individuali e che neppure i libri di
storia riescono ad evidenziare. Il dolore lo si porta dentro come fanno i padri
che la vita ha reso curvi e fieri per non aver pianto davanti ai
figli. C’è il dolore del parto e quello che sembra del tutto irriverente e
sterile. Il dolore tace perché difficilmente trova una riva dove approdare con
la sicurezza di essere compreso. Come quello dei bambini che pochi sanno
decifrare.
Il loro dolore, quello dei bambini, non ha ancora trovato un
lessico capace di trasmetterlo alle generazioni che verranno. I
bambini presi come ostaggi per farne mendicanti sulle strade delle città e per
impietosire i distratti consumatori di beni. Obbligati a lavorare nei
cunicoli scavati in terra in cerca di minerali preziosi per l’industria e il
commercio dei grandi. Il dolore dei bambini strappati troppo in fretta
dall’abbraccio delle madri e dal futuro che i consigli del padre non potrà più
ascoltare. Un recente rapporto sul Sahel rivela che i bimbi costretti a fuggire
da casa sono circa 1,8 milioni.
Il dolore del tradimento sofferto o perpetrato non ha ancora trovato
un’unità di misura per stimarlo. Le conseguenze di scelte politiche funzionali
alle ideologie dominanti aggiungono dolore ai poveri che il sistema di
dominazione ha reso inutile periferia. Il dolore dei giovani a cui vengono
espropriati, venduti e manipolati i sogni di un futuro possibile. L’accanimento
globale contro i migranti che ne sono una delle espressioni più libere e pure,
genera rivoli di dolore che come fiumi sotterranei prepara sorgenti nel
deserto. Nessun dolore andrà perduto perché scritto sulla palma della mano,
sacra, di una madre.