lunedì 30 settembre 2024

Tutta la Nuova Classe Dirigente Europea è a libro paga di BlackRock e soci - Giuliano Marrucci

 

La finanziarizzazione della natura - Paolo Cacciari

 

L’obbligo di sottoscrivere una polizza contro rischi naturali è da tempo una richiesta delle classi dirigenti globali. La natura, già ridotta a capitale nella contabilità di imprese e stati, diventa sempre di più merce di scambio intermediata dalla finanza. Intanto cresce il mercato “al dettaglio” per assicurarsi i clienti finali e quello “all’ingrosso”, tra le grandi compagnie di assicurazione, gran parte delle quali si divertono da tempo a giocare in borsa tra loro. Abbiamo bisogno di rilanciare una nuova stagione di finanza critica che reinventi i principi e le pratiche del mutualismo, per costruire relazioni solidali e pratiche cooperative fuori mercato in grado di affrontare le fragilità delle nostre vite. La cura e la manutenzione del territorio, scrive Paolo Cacciari, fanno parte di queste attività non lucrative.


 

Con la assicurazione obbligatoria dei rischi ambientali il cerchio della finanziarizzazione della natura si chiude. La natura, già ridotta a “capitale naturale” nella contabilità nazionale, ovvero stock di servizi ecosistemici da includere negli asset patrimoniali delle imprese, diventa a tutti gli effetti merce di scambio intermediata dalla finanza. La shock economy (già ben descritta da Naomi Klein al tempo dell’uragano Katrina a New Orleans) è un potente mezzo per drenare denaro dai “risparmiatori”, ricavare profitti e far crescere il Pil.

Perché preoccuparsi di prevenire i danni alle cose e alle case se poi, con gli indennizzi, le si possono riavere più belle di prima? È questa la logica che muove l’economia della crescita. Se manca l’acqua desalinizziamo quella del mare. Se è inquinata beviamo quella minerale. Se c’è troppa CO2 in atmosfera catturiamola e rimettiamola nel sottosuolo. Se manca il gas russo costruiamo centrali nucleari. Se non ci basta il sole che abbiamo sulla nostra testa andiamo a costruire centrali a concentrazione nel Sahara. Se il mare inonda le coste facciamo come Giacarta (Indonesia) costruiamo una nuova capitale più in alto (per la cronaca, si chiama Nusantara). Se ad andare sotto acqua è Venezia, val la pena costruire un Mose da sei miliardi di euro e centodieci milioni l’anno di manutenzione. E così via, nel nome dell’innovazione scientifica e del progresso.

Ma per “ricostruire” bisogna che il sistema accumuli prima le risorse finanziarie necessarie. È questo il compito assegnato alle compagnie di assicurazione. La cinica privatizzazione dei rischi è un fenomeno crescente che l’economista Luigino Bruni tempo fa definì «ipertrofia assicurativa, “assicurarizzazione” del mondo, e cioè il progressivo e veloce allargamento dell’area della vita sociale (sanità, scuola, welfare…) coperta da contratti assicurativi». Con il risultato di spaccare ancora di più la popolazione tra chi si può permettere assicurazioni “integrative” e chi no, e di mandare in frantumi quel poco che rimane della mutualità disinteressata comunitaria e pubblica (garantita dallo stato e da un sistema fiscale equo e proporzionale).

La assicurazione contro le “calamità naturali” è stata incoraggiata anche dall’Onu (vedi i Principles for Sustainable Insurance) e dall’Unione Europea nell’ambito delle strategie di “resilienza” e “adattamento” delle aziende e dei territori ai cambiamenti climatici. I nostri ministri sovranisti Musumeci e Giorgetti non si inventano nulla che non sia già stato richiesto dalle classi dirigenti globali.

Ma, fino ad ora, le raccomandazioni lanciate dai decisori politici in fuga dalle loro responsabilità non hanno avuto grande ascolto. Infatti, le compagnie di assicurazione sono state molto “prudenti” di fronte al crescere degli eventi estremi metereologici (alluvioni, frane, incendi, ecc.), nonché dei contenziosi che inevitabilmente si aprono sulle responsabilità umane nella gestione delle infrastrutture e nell’uso scellerato del territorio, che non hanno nulla a che fare con la “violenza” della natura. Da qui polizze alte e premi che non indennizzano determinati rischi. Ora la obbligatorietà per legge (come avviene per gli incidenti automobilistici) porterà sicuramente maggiore serenità e “coraggio” nei consigli di amministrazione delle compagnie di assicurazione. Esse, comunque, sono da tempo corse ai ripari ri-assicurandosi a loro volta. Si è così formato un doppio mercato: uno “al dettaglio” per i clienti finali, l’altro “all’ingrosso”, per le stesse compagnie di assicurazione (pensiamo a Axa, Allianz, Aviva, Legal & General, Generali). Inoltre, le grandi compagnie sono quotate in borsa e hanno imparato a “giocare” su sé stesse. Da tempo circolano titoli di risparmio detti “Catastrophe bond” (Cat bond, “obbligazioni catastrofe”, indice del settore lo Swiss Re Global Cat Bond). La Banca Mondiale ha insegnato come si fa ad usarli durante il Coronavirus finanziando in questo modo il progetto Pandemic Emergency Financing Facilithy. Nel casinò delle borse, con i titoli “derivati” (che sono forme sofisticate di assicurazioni) si guadagna anche sulle sciagure altrui. Si può scommettere (tanto al ribasso quanto al rialzo) sull’eventualità che si verifichino determinati eventi catastrofici (epidemie, uragani, terremoti, maremoti, crisi idriche, ecc.) in determinati luoghi. Se non accade nulla, chi ha comprato i bond partecipa all’extraprofitto realizzato dalle compagnie di assicurazione e riceve una cedola monetaria oltre al premio assicurativo – spiega il Sole 24Ore – se invece l’evento si verifica proverà la prossima volta (sempre che io abbia capito bene). Rosso o nero; rien ne va plus.

«Che fare allora? – si chiedeva Luigino Bruni, su Avvenire qualche anno fa – Vedo due strade, una interna e una esterna al mondo assicurativo. Le assicurazioni, non dobbiamo dimenticarlo, sono nate come strumenti a garanzia soprattutto dei più fragili e dei più vulnerabili: all’origine è stato così. Oggi c’è bisogno di rilanciare una nuova stagione di assicurazione etica, sulla scia del Nobel M. Yunus, che sta inventando assicurazioni per i poveri, con premi di pochi dollari. Le società assicurative sarebbero per natura imprese civili, cioè non a scopo di lucro, proprio perché i contratti che vendono hanno a che fare con un bene primario, proteggersi contro la vulnerabilità cattiva devastante, e renderla più sostenibile; un bene che è un diritto fondamentale di ogni persona, e non si dovrebbe speculare sui diritti fondamentali dell’uomo. Ciò non è fantascienza (come verrebbe da dire oggi pensando a chi ha in mano le grandi imprese assicurative), ma democrazia e libertà». La seconda strada – complementare – consiste nel non illudersi che possa esistere una vita a “rischio zero”. Le nostre fragilità e vulnerabilità vanno affrontate costruendo relazioni sociali solidali, pratiche mutuali, azioni cooperative “fuori mercato”. La cura e la manutenzione del territorio fanno parte di queste attività non lucrative.

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domenica 29 settembre 2024

Imperialismi e rivalità economica - Costas Lapavitsas

 

Il crescente conflitto tra blocchi diversi conferma che non esiste un'unica classe capitalista mondiale. E non c'è motivo di considerare migliori i capitalismi di Russia, Cina o India

La geopolitica mondiale è attualmente segnata da straordinarie tensioni e conflitti armati che fanno temere una guerra mondiale, soprattutto in Ucraina, Medio Oriente e Taiwan. Dall’inizio del 2010, la disposizione delle principali potenze statali ricorda sempre più gli anni precedenti alla grande conflagrazione imperialista del 1914. Una simile svolta sarebbe stata difficilmente immaginabile negli anni Novanta, quando l’ideologia della globalizzazione neoliberista dominava e gli Stati uniti regnavano come unica superpotenza.

Gli Usa restano senza dubbio il principale – e più aggressivo – attore sulla scena internazionale, come dimostra la loro posizione nei confronti della Cina. È importante notare che nessuno dei suoi potenziali sfidanti proviene dalle «vecchie» potenze imperialiste, ma tutti sono nati da quello che una volta era considerato il Secondo o il Terzo Mondo, con la Cina come principale concorrente economico e la Russia come principale concorrente militare. Ciò riflette la profonda trasformazione dell’economia mondiale negli ultimi decenni.

L’inasprimento delle tensioni avviene, inoltre, in un momento di storica performance negativa del nucleo centrale dell’economia mondiale, in particolare dopo la Grande Crisi del 2007-09. L’attività economica nelle aree centrali è notevolmente debole in termini di crescita, investimenti, produttività e così via, e non ci sono segnali evidenti di un nuovo rilancio. Il periodo successivo alla Grande Crisi del 2007-09 è un classico interregno nel senso di Antonio Gramsci, cioè del vecchio che muore e del nuovo che non nasce, solo che in questo contesto segnala l’incapacità del nucleo dell’accumulazione capitalistica di intraprendere una propria crescita sia a livello interno che internazionale.

La drammatica ricomparsa delle contese imperialiste ed egemoniche e la necessità di trarne conclusioni politiche sono questioni di primaria importanza per la sinistra socialista, come sostenuto in un recente contributo su Jacobin. In questo articolo, mi propongo di contribuire con alcuni punti chiave al dibattito, attingendo principalmente all’opera collettiva di recente pubblicazione The State of Capitalism: Economy, Society, and Hegemony.

 

L’economia politica marxista classica dell’imperialismo

La teoria marxista ha sempre cercato di collegare l’imperialismo all’economia politica del capitalismo. Ciò è evidente soprattutto nell’analisi canonica di Vladimir Lenin, costruita sulla base del Capitale finanziario di Rudolf Hilferding. L’attuale riapparizione delle contese imperialiste ed egemoniche può essere analizzata al meglio seguendo il percorso aperto da questi autori.

Gli approcci che si basano su spiegazioni non economiche, o che cercano addirittura di staccare l’imperialismo dal capitalismo, come quello di Joseph Schumpeter, hanno un potere esplicativo limitato. Tuttavia, la teoria di Hilferding e di Lenin dev’essere trattata con grande cautela. Le attuali prospettive geopolitiche del mondo potrebbero ricordare quelle precedenti al 1914, ma le apparenze possono ingannare.

Per entrambi gli autori, il motore principale dell’imperialismo è stata la trasformazione delle unità fondamentali del capitale nelle aree centrali dell’economia mondiale, che ha portato all’emergere del capitale finanziario. In poche parole, il capitale industriale e bancario monopolistico si è amalgamato nel capitale finanziario, che ha cercato di espandersi all’estero in due modi: in primo luogo, attraverso la vendita di merci e, in secondo luogo, attraverso l’esportazione di capitale monetario prestato.

In breve, l’imperialismo classico è stato guidato dall’accelerazione dell’internazionalizzazione del capitale monetario e delle merci sotto l’egida dell’amalgama dei capitali monopolistici industriali e finanziari.

Naturalmente, i capitali finanziari dei diversi paesi erano in competizione tra loro sul mercato mondiale, e a tal fine cercavano il sostegno – specificamente, ma non esclusivamente – dei propri Stati. Ne seguì la creazione di imperi coloniali per assicurarsi l’esclusiva territoriale per l’esportazione di capitale di base e per creare condizioni favorevoli all’esportazione di capitale di prestito.

I paesi colonizzati erano in genere a uno stadio inferiore di sviluppo capitalistico o non erano affatto capitalistici. Tale espansione coloniale sarebbe stata impossibile senza il militarismo e quindi senza la spinta al confronto armato tra i vari competitors.

In sintesi, la spinta alla creazione di colonie è scaturita dalle operazioni aggressive dei capitali finanziari che cercavano di assicurarsi dei profitti. A tal fine, hanno cooptato i servizi dello Stato e questo ha creato una spinta verso la guerra. Gli Stati non sono imprese capitalistiche e le loro relazioni non sono determinate da un calcolo grossolano di profitti e perdite. Agiscono in base al potere, alla storia, all’ideologia e a una serie di altri fattori non economici. L’arbitro ultimo tra questi è la potenza militare.

L’espansione imperialista era quindi guidata fondamentalmente dal capitale privato, ma comportava inevitabilmente oppressione, sfruttamento e conflitti nazionali. I flussi di valore verso la metropoli potevano derivare dai profitti delle imprese, ma anche dalla tassazione dello sfruttamento, come in India. A questi si contrapponevano le ingenti spese per l’acquisizione e il mantenimento delle colonie.

In quest’ottica, è fuorviante cercare di dimostrare l’esistenza dell’imperialismo attraverso un modello economico che mostri eccedenze monetarie nette create e appropriate dalle metropoli. L’imperialismo è una pratica geopolitica e una realtà economica. È radicato nella condotta e nei profitti delle imprese capitalistiche attive a livello globale, ma dà origine a politiche statali che hanno risultati complessi e contraddittori. In senso profondo, l’imperialismo è un risultato storico dell’accumulazione capitalistica matura.

 

L’imperialismo contemporaneo

A differenza dai tempi di Hilferding e Lenin, la prima e decisiva caratteristica dell’imperialismo contemporaneo è l’internazionalizzazione del capitale produttivo, piuttosto che soltanto commerciale e del capitale monetario di prestito.

Grandi volumi di produzione capitalistica si realizzano oltre le frontiere tramite filiere tipicamente guidate da multinazionali, che esercitano il controllo direttamente attraverso i diritti di proprietà sulle filiali o indirettamente attraverso contratti con i capitalisti locali. Il balzo quantitativo del volume del commercio internazionale negli ultimi decenni è il risultato del commercio all’interno di queste catene del valore.

Produrre all’estero ha requisiti molto più stringenti del semplice commercio di materie prime o del prestito di denaro. Il capitalista internazionale deve avere un’ampia conoscenza delle condizioni economiche locali nei paesi destinatari, diritti affidabili sulle risorse locali e, soprattutto, accesso a una forza lavoro capace. Tutto ciò rende necessarie relazioni dirette o indirette con lo Stato sia del paese di origine che di quello di destinazione.

Il secondo punto di differenza, altrettanto decisivo, è la forma caratteristica assunta dal capitale finanziario negli ultimi decenni, che è stato un fattore decisivo nella finanziarizzazione del capitalismo sia a livello nazionale che internazionale.

L’esportazione di capitale prestato è cresciuta enormemente, ma la maggior parte dei flussi è stata, e rimane, principalmente da nucleo centrale a nucleo centrale, piuttosto che da centro a periferia. La proporzione è stata di circa dieci a uno a favore del primo. Inoltre, caratteristica dell’interregno è la crescita sostanziale dei flussi dalla Cina alla periferia e di altri flussi da periferia a periferia.

Inoltre, fino alla Grande Crisi del 2007-09, sia la finanziarizzazione interna che quella internazionale erano guidate principalmente dalle banche commerciali. Durante l’interregno il centro di gravità si è spostato verso le varie componenti del «sistema bancario ombra», ossia le istituzioni finanziarie non bancarie, come i fondi di investimento, che traggono profitto dalla negoziazione e dalla detenzione di titoli. Tre di questi fondi – BlackRock, Vanguard e State Street – detengono attualmente nei loro portafogli una quota enorme dell’intero capitale azionario degli Stati uniti.

L’imperialismo contemporaneo è, insomma, caratterizzato dall’internazionalizzazione del capitale produttivo, merceologico e monetario, ancora una volta sotto l’egida dei capitali industriali e finanziari di monopolio. Tuttavia, sempre contrariamente all’epoca di Hilferding e Lenin, non c’è un amalgama tra capitale industriale e capitale finanziario, e certamente non c’è un amalgama in cui il secondo domini il primo.

La dominazione non è, dopotutto, un risultato del movimento essenziale del capitale, ma deriva dalle realtà concrete delle operazioni capitalistiche in specifici contesti storici. All’inizio del XX secolo, le banche potevano dominare i capitali industriali perché questi ultimi si affidavano pesantemente ai prestiti bancari per finanziare gli investimenti fissi a lungo termine. Tali prestiti hanno permesso e incoraggiato le banche a partecipare attivamente alla gestione delle grandi imprese.

Oggi, le imprese industriali dei paesi core sono caratterizzate da bassi investimenti e, allo stesso tempo, da enormi volumi di capitale monetario di riserva. Entrambe sono caratteristiche della finanziarizzazione delle imprese industriali e della scarsa performance delle economie centrali durante l’interregno. Inoltre, implicano che le grandi imprese internazionali sono molto meno dipendenti dal capitale finanziario rispetto ai tempi dell’imperialismo classico.

Le vaste partecipazioni azionarie delle «banche ombra» sono certamente importanti per quanto riguarda il potere di voto all’interno delle grandi imprese e svolgono quindi un ruolo nel processo decisionale delle società non finanziarie. Tuttavia, è esagerato affermare che le Tre Grandi dettino le condizioni alle società statunitensi. Esse sono titolari di azioni che appartengono ad altri – spesso altre «banche ombra» – e cercano di ottenere profitti gestendo i loro portafogli di titoli. La loro posizione ricorda quella di un rentier, che però cerca un equilibrio di coesistenza con l’industriale attraverso i mercati mobiliari.

La forza motrice dell’imperialismo contemporaneo scaturisce da questo binomio tra capitale industriale internazionalizzato e capitale finanziario internazionalizzato. Nessuno dei due domina l’altro e non c’è uno scontro fondamentale tra loro. Insieme costituiscono la forma di capitale più aggressiva che la storia conosca.

 

Requisiti economici dell’imperialismo contemporaneo

L’abbinamento di capitali che guida l’imperialismo contemporaneo non ha bisogno di esclusività territoriale e non cerca di formare imperi coloniali. Al contrario, prospera grazie all’accesso illimitato alle risorse naturali globali, alla manodopera a basso costo, alla bassa tassazione, agli standard ambientali poco rigorosi e ai mercati per le sue componenti industriali, commerciali e finanziarie.

Un punto da sottolineare a questo proposito è che non esiste una classe capitalista «mondiale». Si tratta di un’illusione che risale ai tempi del trionfo ideologico della globalizzazione e dell’unica egemonia statunitense. Esiste certamente una somiglianza di vedute tra i capitalisti attivi a livello internazionale, che riflette in ultima analisi il potere egemonico degli Stati uniti. Ma l’enorme escalation di tensioni degli ultimi anni dimostra che i capitalisti sono e rimarranno divisi in gruppi potenzialmente ostili a livello internazionale.

Tra l’altro, non esiste nemmeno una «aristocrazia del lavoro» nei paesi centrali, contrariamente a quanto sosteneva Lenin. La grande pressione esercitata sui lavoratori dei paesi centrali negli ultimi quarant’anni ha smentito quest’idea.

I capitali industriali e finanziari attivi a livello internazionale hanno due requisiti fondamentali. In primo luogo, devono esistere regole chiare e applicabili per i flussi di investimenti produttivi, di materie prime e di capitali monetari prestati. Non si tratta di un semplice accordo tra Stati, ma di qualcosa che deve essere garantito da istituzioni adeguatamente strutturate, come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Banca dei Regolamenti Internazionali e così via. In secondo luogo, deve esistere una forma affidabile di moneta mondiale che funga da unità di conto, mezzo di pagamento e riserva di valore.

Entrambi i requisiti – soprattutto il secondo – riflettono il carattere peculiare dell’economia mondiale che, a differenza di quella interna, manca intrinsecamente della presenza coordinatrice e organizzatrice di uno Stato nazionale. Ciononostante, i capitali industriali e finanziari hanno ancora bisogno del sostegno degli Stati nazionali per navigare tra le insidie del mercato mondiale.

Inevitabilmente, il sistema degli Stati nazionali – distinto dal sistema dei capitali in competizione internazionale – entra in gioco e porta le sue considerazioni non economiche.

 

Il ruolo dell’egemonia

La caratteristica del sistema degli Stati nazionali è l’egemonia e ci sono poche guide migliori di Gramsci per affrontare questo tema, come ha suggerito Robert Cox molto tempo fa. L’attenzione di Gramsci era rivolta all’equilibrio interno delle classi e ai risultati politici che ne derivano, piuttosto che alle relazioni statali internazionali. Il punto che conta ai nostri fini, tuttavia, è che per Gramsci l’egemonia implica sia la coercizione sia il consenso. Entrambi sono cruciali per il funzionamento dell’imperialismo contemporaneo.

Gli Stati uniti sono stati l’unico potere egemone per quasi tre decenni dopo il crollo dell’Unione sovietica; il suo potere derivava dalla predominanza economica che si rifletteva nelle dimensioni del Pil e dei relativi mercati, nel volume del commercio internazionale e nell’entità dei flussi di capitale in entrata e in uscita. Soprattutto, la sua posizione egemonica derivava dalla capacità unica di radicare la propria moneta nazionale come moneta mondiale.

Il potere coercitivo degli Stati uniti è in parte economico, come dimostra l’enorme gamma di sanzioni che impongono regolarmente agli altri. In primo luogo, però, è militare, con spese enormi che attualmente superano i 1.000 miliardi di dollari all’anno. Questa cifra è superiore a quella delle «vecchie» potenze imperialiste di almeno un ordine di grandezza e finanzia una vasta rete di basi militari in tutto il mondo. A differenza del periodo classico, la militarizzazione e l’enorme complesso militare-industriale sono caratteristiche permanenti e integrali dell’economia statunitense.

Il potere di consenso degli Stati uniti si basa sul loro ruolo dominante nell’ambito delle istituzioni internazionali che regolano l’attività economica internazionale. Questa forma di potere si avvale di università e think tank che producono l’ideologia prevalente nelle istituzioni internazionali. Si è rivelata fondamentale per generare una visione comune tra i capitalisti attivi a livello internazionale in tutto il mondo per diversi decenni.

Come unico egemone, gli Stati uniti hanno costantemente promosso gli interessi dei loro capitali attivi a livello globale. Così facendo, hanno creato le condizioni che consentono anche ai capitali di altri «vecchi» paesi imperialisti di operare con profitto, non da ultimo garantendo un accesso controllato al dollaro in momenti critici, come nel 2008 ma anche nel 2020. Anche sotto questo aspetto, l’imperialismo contemporaneo è drammaticamente diverso dalla versione classica.

Il problema egemonico per gli Stati uniti nasce dalla natura contraddittoria di queste tendenze.

Da un lato, favorire gli interessi dei capitali attivi a livello internazionale ha comportato costi sostanziali per alcuni settori dell’economia interna statunitense. La produzione è emigrata, lasciando dietro di sé una disoccupazione persistente, le imprese si sono registrate in paradisi fiscali per evitare le tasse, la capacità tecnica è andata persa e così via.

Dall’altro, la delocalizzazione della capacità produttiva ha favorito l’emergere di centri indipendenti di accumulazione capitalistica in quelli che prima erano considerati il Secondo e il Terzo Mondo. Il ruolo principale è stato svolto dagli Stati nazionali che hanno navigato nelle secche della produzione, del commercio e della finanza globalizzate. Ma anche la delocalizzazione della produzione è stata un fattore cruciale.

L’esempio principale è ovviamente la Cina, che è emersa come il più grande paese manifatturiero e commerciale del mondo. Certo, le gigantesche imprese industriali e finanziarie cinesi hanno caratteristiche e relazioni distintive rispetto alle loro equivalenti statunitensi, anche perché molte di esse sono di proprietà dello Stato. Ma anche i capitali finanziari dell’imperialismo classico presentavano differenze sostanziali tra loro, come ha sottolineato, ad esempio, Kozo Uno.

Ai nostri fini, le enormi imprese industriali e finanziarie cinesi, indiane, brasiliane, coreane, russe e di altro tipo operano sempre più su scala globale e cercano il sostegno dello Stato per influenzare le regole del gioco e per determinare la moneta mondiale. Ciò significa in primo luogo il proprio Stato, sebbene coltivino anche relazioni con altri Stati.

 

La spinta alla guerra

Le radici del costante inasprimento delle contese imperialiste si trovano in questa configurazione del capitalismo globale. Gli Stati uniti ovviamente non si sottometteranno alla sfida e attingeranno al loro vasto potere militare, politico e monetario per proteggere la loro egemonia. Ciò li rende la principale minaccia alla pace mondiale.

Le attuali contese, in altre parole, ricordano l’epoca precedente al 1914, nel senso fondamentale di essere guidate da motivazioni economiche di fondo. Questo non significa che dietro a ogni esplosione ci sia un rozzo calcolo economico, ma significa che le contese hanno profonde radici materiali. Sono quindi straordinariamente pericolose e difficili da affrontare.

Inoltre, le contese sono qualitativamente diverse dall’opposizione tra Stati uniti e Unione sovietica, che era principalmente politica e ideologica. Durante l’interregno, gli Stati uniti hanno contato sul sostegno delle «vecchie» potenze imperialiste, attingendo soprattutto al loro potere di consenso, che affonda le sue radici nell’epoca antisovietica. Nulla garantisce che potranno farlo per sempre.

La sinistra si trova quindi di fronte a una scelta difficile ma allo stesso tempo chiara. Il graduale emergere della «multipolarità», con la sfida all’egemonia statunitense da parte di altri Stati potenti, ha creato un certo spazio per i paesi più piccoli che possono difendere i propri interessi. Ma non c’è nulla di meritorio o di progressista nel capitalismo cinese, indiano, russo o di qualsiasi altro tipo. Inoltre, è fondamentale ricordare che nel 1914 il mondo era multipolare e il risultato fu una catastrofe. La risposta si trova ancora negli scritti di Lenin, anche se il mondo è molto cambiato.

La sinistra socialista deve opporsi all’imperialismo, pur riconoscendo che gli Stati uniti sono il principale aggressore. Ma bisogna farlo da una posizione indipendente, apertamente anticapitalista e che non si faccia illusioni su Cina, India, Russia e altri contendenti, tanto meno sui «vecchi» imperialisti. Il percorso dev’essere quello della trasformazione anticapitalista interna, basata sulla sovranità popolare e abbinata alla sovranità nazionale che cerca l’uguaglianza internazionale. Si tratterebbe di un vero internazionalismo, basato sul potere delle lavoratrici, dei lavoratori e dei poveri. Come possa tornare a essere una vera forza politica è il problema più profondo del nostro tempo.


*Costas Lapavitsas è professore di economia alla Soas, attualmente alla New School for Social Research. è stato deputato al parlamento greco. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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sabato 28 settembre 2024

Il 10 settembre i coloni israeliani sono diventati immigrati illegali - Thierry Meyssan

 

Siamo abituati a vedere Israele commettere atrocità prendendo a pretesto la propria sicurezza e gli anglosassoni prenderne le difese nel Consiglio di sicurezza. Siamo spettatori di crimini che non comportano alcuna conseguenza giudiziaria. Questa situazione sta per finire. La Corte internazionale di giustizia ha tolto di mezzo il paralogismo di Tel Aviv e ha riconosciuto lo Stato di Palestina membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Ormai non si potrà più fingere di non vedere la sofferenza dei palestinesi e costoro potranno perseguire i loro carnefici.

Il 10 settembre i coloni israeliani, che sostengono di adempiere a un piano divino insediandosi in Cisgiordania (per loro: Giudea-Samaria), sono passati dallo status di cittadini israeliani residenti in territori contesi, a quello d’immigrati illegali nello Stato sovrano di Palestina.

All’apertura della settantanovesima sessione, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha infatti reso esecutiva la risoluzione ES-10/23 dello scorso 10 maggio [1]. Così lo Stato di Palestina è diventato membro a pieno titolo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Nessuno quindi può più opporsi all’esercizio dei suoi diritti di Stato sovrano.

Il riconoscimento della Palestina come Stato sovrano modifica l’interpretazione dell’Accordo interinale sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza (il cosiddetto Accordo di Oslo II).

L’Autorità palestinese non è più l’amministrazione provvisoria di un periodo di transizione, ma un governo nel pieno senso del termine. I Territori palestinesi non sono più «aree contese», ma il territorio internazionalmente riconosciuto di uno Stato sovrano.

Dalla guerra del 1967, nota come Guerra dei Sei giorni, il movimento dei coloni ha guadagnato costantemente terreno. Oggi ci sono oltre 700 mila coloni in Cisgiordania, Gerusalemme Est e sulle alture del Golan.

Il 19 luglio la Corte internazionale di giustizia (CIG) - il tribunale interno delle Nazioni unite - consultato dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, ha definito le norme giuridiche relative alle politiche e alle pratiche di Israele nei Territori palestinesi occupati [2]. Il parere della CIG non ha ancora avuto seguito perché solo il Consiglio di sicurezza ha il potere di costringere Israele ad applicarlo.

Ricordiamo che il diritto internazionale, a differenza del diritto penale, non si basa su una forza di polizia e su un sistema carcerario. Impone semplicemente ai governi l’obbligo di rispettare la firma del loro Stato. Aderendo all’Onu, Israele ne ha sottoscritto lo Statuto [3] che, al capitolo XIV, impegna ogni Stato membro «a conformarsi alla decisione della Corte internazionale di giustizia in qualsiasi controversia di cui sia parte».

La Corte ha ritenuto (paragrafo 229) che le politiche e le pratiche di Israele nei Territori palestinesi occupati vìolino la Convenzione internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Secondo la CIG, Israele pratica una forma di apartheid (cfr. art. 3 della Convenzione). Questo è esattamente quanto proclamò l’Assemblea generale dell’Onu il 10 novembre 1975: «Il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale» (risoluzione 3379) [4]. Questo testo fu abrogato solo per facilitare la Conferenza di pace di Madrid del 1991 [5]. Tuttavia, non avendo Israele adempiuto agli impegni assunti all’epoca, anzi avendo esacerbato le sue politiche e le sue pratiche, questo testo dovrebbe essere ripristinato.

La Corte ha anche osservato (paragrafo 263) che «gli Accordi di Oslo non autorizzano Israele ad annettere parti dei Territori palestinesi occupati per soddisfare le proprie esigenze nonché gli obblighi in materia di sicurezza. Né lo autorizzano a mantenere allo stesso scopo una presenza permanente nei Territori palestinesi occupati». Ciò che era vero a luglio è ancor più vero ora che la Palestina è uno Stato sovrano, riconosciuto a livello internazionale.

Di conseguenza, la settimana scorsa - ossia dopo questa decisione e prima che la Palestina entrasse a far parte dell’Assemblea generale - le Forze di difesa israeliane (FDI) hanno improvvisamente evacuato le principali città della Cisgiordania che avevano occupato. Il 12 settembre il governo israeliano ha per contro dichiarato che non c’è ragione di aumentare gli aiuti umanitari a Gaza, poiché Israele non controlla questo territorio e quindi non vi ha alcuna responsabilità.

Ciò premesso, la Corte ha concluso che «Israele ha l’obbligo di risarcire pienamente i danni causati dai suoi atti internazionalmente illeciti [l’occupazione e l’apartheid] a ogni persona fisica o giuridica interessata» (paragrafo 269). Questo implica «l’obbligo per Israele di restituire terra e altre proprietà immobiliari, nonché tutti i beni confiscati, a qualsiasi persona fisica o giuridica dall’inizio dell’occupazione del 1967, e tutti i beni e gli edifici culturali sottratti ai palestinesi e alle loro istituzioni, compresi gli archivi e i documenti. Esige inoltre che tutti i coloni degli insediamenti esistenti siano evacuati, che le parti del muro costruito da Israele situate nei Territori palestinesi occupati siano smantellate e che tutti i palestinesi sfollati durante l’occupazione possano tornare al luogo di residenza originario» (paragrafo 270).

Si noti che la Corte non ha ordinato il risarcimento dei danni causati prima del 1967. Non era questo il quesito posto dall’Assemblea generale. Inoltre le armi hanno parlato e i palestinesi hanno perso diverse operazioni militari di cui devono sopportare le conseguenze. I torti sono da entrambe le parti, sebbene sia evidente che i danni subiti dai palestinesi sono sproporzionati rispetto a quelli subiti dagli israeliani.

La Corte si è pronunciata sulle conseguenze dell’occupazione dal 1967. Le sue decisioni non sono retroattive. Essa però prende atto che i danni hanno continuato ad aggravarsi dal 1967.

Rivolgendosi a tutti gli Stati membri delle Nazioni unite, la Corte ha notificato loro che «hanno l’obbligo di non riconoscere alcun cambiamento nel carattere fisico o nella composizione demografica, nella struttura istituzionale o nello status dei territori occupati da Israele il 5 giugno 1967, compresa Gerusalemme Est, se non quelli concordati con le parti attraverso negoziati, nonché di distinguere, nelle relazioni con Israele, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967. La Corte ritiene che nelle relazioni con Israele l’obbligo di distinguere tra il territorio proprio di tale Stato e i Territori occupati comprenda tra l’altro l’obbligo di non intrattenere relazioni convenzionali con Israele in tutti i casi in cui quest’ultimo pretenda di agire in nome dei Territori palestinesi occupati o di una parte di essi in questioni riguardanti tali territori; di non intrattenere, in ciò che concerne i Territori palestinesi occupati o parte di essi, relazioni economiche o commerciali con Israele, che fossero di natura tale da rafforzare la presenza illecita di Israele in questi territori; nello stabilire e mantenere missioni diplomatiche in Israele, devono astenersi dal riconoscere in qualsiasi modo la presenza illegale di quest’ultimo nei Territori palestinesi occupati; nonché dall’adottare misure per impedire il commercio o gli investimenti che contribuiscano al mantenimento della situazione illegale creata da Israele nei Territori palestinesi occupati» (paragrafo 278).

Per questo motivo, il 9 settembre Volker Turk, alto commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani, aprendo la 57^ sessione del Consiglio per i Diritti umani, ha dichiarato: «Nessuno Stato deve accettare la flagrante inosservanza del diritto internazionale, nonché delle decisioni vincolanti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e le ordinanze della Corte internazionale di giustizia, in questa situazione [l’occupazione israeliana della Palestina] o in qualsiasi altra».

Ognuno di noi deve esserne consapevole: le regole sono cambiate. L’occupazione dello Stato di Palestina da parte di Israele è illegale. Dal 10 settembre questo Stato è riconosciuto a livello internazionale, anche se diversi membri del Consiglio di sicurezza non lo hanno fatto a titolo personale. Ora lo Stato di Palestina dispone dei mezzi legali che gli mancavano. L’ombrello anglosassone dietro cui Tel Aviv si ripara non esiste più a livello giuridico. Stiamo entrando in un nuovo periodo in cui Washington e Londra dovranno usare la forza per mantenere questo sistema di oppressione.

Questa rivoluzione giuridica segna una vittoria per la strategia del presidente Mahmoud Abbas (89 anni). Paradossalmente arriva alla fine della sua vita, proprio in un momento in cui il suo governo è screditato dalla collaborazione con Israele e dalla corruzione.


Traduzione di Rachele Marmetti


Note

[1] « Admission de nouveaux Membres à l’Organisation des Nations Unies », Réseau Voltaire, 10 mai 2024.

[2] • English : Legal Consequences arising from the Policies and Practices of Israel in the Occupied Palestinian Territory, including East Jerusalem, International Court of Justice, July 19, 2024.

• Français : Avis consultatif du 19 juillet 2024. Conséquences juridiques découlant des politiques et pratiques d’Israël dans le Territoire palestinien occupé, y compris Jérusalem-Est, Cour internationale de Justice, 19 juillet 2024.

[3] « Charte des Nations unies », Réseau Voltaire, 26 juin 1945.

[4] « Qualification du sionisme », ONU (Assemblée générale) , Réseau Voltaire, 10 novembre 1975.

[5] « Retrait de la qualification du sionisme », ONU (Assemblée générale) , Réseau Voltaire, 16 décembre 1991.

 

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venerdì 27 settembre 2024

Non basta dire "guerra giusta" - Alessandro Marescotti

 

Sempre più soldati ucraini starebbero disertando, mentre i giovani del Paese scelgono la strada della renitenza per evitare il servizio militare. Le risorse materiali e umane si stanno rapidamente esaurendo, e il morale è ai minimi storici. Mentre si prepara la Caporetto di Zelensky.

 

La guerra in Ucraina, iniziata nel febbraio 2022, è stata a lungo presentata come una "guerra giusta" da parte dell'Occidente. La narrazione dominante ha giustificato l'aiuto militare, finanziario e politico a Kyiv come una difesa della sovranità nazionale e dei principi fondamentali dell'ordine internazionale. Tuttavia, ciò che è apparso sempre più evidente con il progredire dello scontro (e delle sconfitte dei soldati ucraini) è che la giustezza di una guerra non si misura solo in base ai principi che la sottendono, ma anche in base al suo esito. Una guerra "giusta", se persa, può trasformarsi in un incubo di devastazione senza alcun ritorno, innescando nuove instabilità e sofferenze.

Zelensky e la disfatta militare

Nel corso degli ultimi mesi, le notizie dal fronte ucraino sono state sempre meno incoraggianti. Il presidente Zelensky si trova ora a fronteggiare una realtà ben diversa da quella che immaginava. La controffensiva ucraina dello scorso anno, ampiamente annunciata e sostenuta dall'Occidente, non ha prodotto i risultati auspicati. Le linee russe sono rimaste intatte e le perdite sul campo sono state ingenti.

Quella scelta sbagliata militarmente è stata l'inizio di un ciclo di sconfitte per Zelensky.

Secondo varie fonti, sempre più soldati ucraini starebbero disertando, mentre i giovani del Paese scelgono la strada della renitenza per evitare il servizio militare. Le risorse materiali e umane si stanno rapidamente esaurendo, e il morale è ai minimi storici. La narrazione di Zelensky sulla possibile riconquista della Crimea e delle regioni orientali si è rivelata una chimera. Con il sostegno militare occidentale che inizia a vacillare, la possibilità di una vittoria totale dell'Ucraina appare sempre più irrealistica. Anzi. Quella che si prepara è la Caporetto di Zelensky.

Un'opportunità diplomatica mancata

A questo punto, è lecito chiedersi se la strada della diplomazia non avrebbe potuto evitare questo bagno di sangue. Gli accordi di Minsk, che prevedevano una maggiore autonomia per le regioni del Donbass, avrebbero potuto rappresentare una via per una pace negoziata. Escludere Kyiv dalla NATO e garantire una posizione di neutralità geopolitica, come molti avevano suggerito, avrebbe potuto scongiurare il conflitto. Invece, la linea dura scelta dal governo ucraino, fortemente influenzato dall’appoggio occidentale, ha portato a una guerra devastante che, a oggi, sembra lontana dall’avere un esito favorevole per Kyiv.

Il prezzo della guerra

Le cifre parlano chiaro: un milione di morti e feriti, città distrutte, milioni di sfollati. La guerra ha consumato enormi risorse, non solo per l'Ucraina, ma anche per i Paesi che la sostengono. Il sogno di Zelensky di una vittoria totale si è infranto contro la dura realtà della resistenza russa, e il suo obiettivo di riconquistare la Crimea sembra sempre più un’ossessione irrealizzabile, piuttosto che un piano strategico realistico.

Nel frattempo, l'Occidente inizia a interrogarsi sulla sostenibilità del suo sostegno a oltranza. Gli Stati Uniti, in particolare, stanno affrontando un dibattito interno su quanto ancora siano disposti a investire in una guerra che sembra non avere fine. Le risorse militari sono limitate, e con la crescente sfida cinese sullo scenario globale, Washington potrebbe decidere di concentrarsi su altre priorità.

Una guerra trasformata in incubo

Alla luce di tutto ciò, la domanda che emerge è: chi beneficerà davvero di questa guerra? Per ora, sembra che l'unico risultato concreto sia una devastazione senza precedenti, con poche prospettive di pace duratura. Una "guerra giusta", se combattuta senza una chiara strategia di vittoria o una via d'uscita negoziata, può trasformarsi rapidamente in una guerra che causa solo distruzione.

La storia è piena di esempi in cui la smania di vittoria ha portato al disastro, e l’Ucraina rischia di diventare l'ultimo tragico capitolo di questa lezione.

Note: Testo realizzato con l'ausilio di un LLM su input e revisione finale dell'autore.

 

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Beirut, i dottori della luce fra le sadiche sevizie d’Israele - Enrico Campofreda

  

Ha pianto il dottor Elias Jaradeh nel vedere cosa aveva sotto gli occhi. Occhi sgusciati, frantumati, prosciugati. Buchi neri su volti insanguinati dalla perfidia di chi vuole lasciare l’indelebile segno d’una violenza studiata e suggellata da orrendo sadismo, definito dai taluni servili cantori del mainstream mediatico: “deterrenza strategica”. Tanti dei bulbi oculari dei miliziani di Hezbollah erano esplosi dietro i beeper dove il Mossad aveva celato microcariche assassine fatte brillare all’unisono. Lui e la sua équipe osservavano sgomenti quegli squarci e su tale disastro hanno dovuto agire. L’esperienza, le qualità professionali di questi oftalmologi libanesi dovevano tamponare la dote tormentatrice dell’Intelligence di Tel Aviv che, col lugubre gesto di occultare la morte o la più lacerante ferita, s’è sentita ancora una volta invincibile. Il successo dei vili ha colpito ignari nemici e incolpevoli civili che gli vivono accanto o li incrociavano casualmente. Così Elias, che è medico e dal 2022 anche deputato per la formazione indipendente Change, confessa d’aver agito in maniera ‘robotica’ per poter continuare a lavorare davanti a tanto orrore. Il dottor Jaradeh conferma quanto le prime confuse informazioni avevano annunciato: i feriti sono in maggioranza civili, magari familiari dei miliziani, ma non esclusivamente loro. “Coi colleghi abbiamo dovuto separare lo sconcerto e la rabbia e immergerci nel dramma perché a essere colpita era gente comune, e per noi un’intera nazione. Si trattava di civili con le loro famiglie, non persone sul campo di battaglia. Ho estratto più occhi lacerati di quanto non avessi fatto in anni di chirurgia oftalmologica”. Gli fanno eco le testimonianze di altri due oculisti intervenuti sui feriti, diffuse su Instagram: 

 

Dice Alaa Bou Ghannam: “Nel nostro centro abbiamo ricevuto circa 200 feriti, il 75% colpiti agli occhi, occhi devastati da frammenti metallici e plasticiNella mia vita professionale non mi ero mai attivato per un’emergenza simile, soprattutto tanto ampia, né penso sia accaduto ad altri colleghi al mondo. Siamo stati quasi due giorni a suturare la sclera e cucire la cornea di ciascun occhio. Molti dei colpiti resteranno ciechi o monchi di una o due mani”. Per Ama Sadaka: “Fra i feriti agli occhi più della metà ha perso l’occhio sinistro e siamo stati costretti a rimuoverlo, non a curarlo. Tutti i tessuti erano penetrati da frammenti metallici o di plastica oppure erano bruciati e la materia organica che osservavamo era disciolta, comprese le palpebre. La palpebra è essenziale quando si deve intervenire sull’occhio. Un occhio artificiale può sostituire quello perduto ma sarà molto difficile inserire una protesi se manca il sostegno della palpebra. Taluni dei colpiti hanno avuto entrambi gli occhi rimossi”. E ora sentite: “L’esplosione a distanza dei cercapersone di Hezbollah vede l’impiego di una miscela (sic) di Intelligence e alta tecnologia per esercitare deterrenza nei confronti dei singoli combattenti nemici, al fine d’indebolire dal di dentro l’organizzazione paramilitare. Colpire personalmente, nell’arco di poche ore, migliaia di miliziani Hezbollah significa aver messo a segno la più estesa operazione di antiterrorismo finora conosciuta...” E’ questo uno dei passaggi dell’editoriale di Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica, (Medio Oriente, come cambia il volto della deterrenza) che per amor di professione non commentiamo. Invitiamo a leggerlo per comprendere quale sia il livello di un giornale – visto che quel quotidiano di tradizione liberal-progressista è tuttora considerato un organo d’informazione – che tradisce il suo ruolo trasformandosi in voce di propaganda. Neppure di uno Stato, bensì d’una sua branca addirittura peggiore del mortifero passato delle sue origini legato ai crimini della banda Stern.

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giovedì 26 settembre 2024

Bombe nei giocattoli: Breve storia delle trappole esplosive israeliane in Libano - Alex MacDonald

 

 

Il Libano è ancora scosso da due ondate di esplosioni di cercapersone e walkie-talkie, attribuite a Israele, che hanno ucciso 32 persone e ne hanno ferite altre migliaia.

Sebbene Israele non abbia rivendicato la responsabilità degli attacchi, le voci pro-Israele si sono affrettate a lodare l'attacco come un ottimo esempio dell'abilità del Paese nel condurre attacchi chirurgici che colpiscono i suoi nemici senza infliggere danni collaterali.

Questo nonostante il fatto che negli attacchi siano stati uccisi due bambini e feriti numerosi civili, con conseguente condanna da parte dei gruppi per i diritti che sostengono che la natura indiscriminata delle armi potrebbe violare le leggi di guerra.

Una fonte vicina a Hezbollah ha dichiarato a Middle East Eye che i cercapersone sono stati utilizzati da una “vasta rete di persone, tra cui amministratori, operatori medici, paramedici, operatori dei media e altri membri civili”.

“Di solito vengono utilizzati per impartire direttive, convocare riunioni, per le emergenze o per lo stato di allerta”, ha spiegato la fonte. 

Ma questa non è certo la prima volta che Israele usa metodi poco ortodossi in stile trappola esplosiva per colpire il Libano, né è il primo esempio di civili e bambini mutilati e uccisi con tali armi.

MEE analizza questa storia controversa. 

Bombe a grappolo e mine terrestri

Più di un milione di bombe a grappolo sono state disseminate nel Libano meridionale a seguito degli assalti israeliani al territorio nel corso degli anni.

Dal conflitto del 2006 tra Israele e Hezbollah, che ha visto un uso senza precedenti di queste armi ampiamente vietate, molte persone sono state uccise in Libano dopo averle ritrovate.

Molti bambini che giocano nella regione hanno trovato queste munizioni inesplose.

“Sembrano innocue, soprattutto per la mente curiosa di un bambino”, spiegò nel 2006 Chris Clark del Centro di coordinamento dell'azione antimine delle Nazioni Unite (UNMACC) in Libano.

“Sono piccoli, si nascondono facilmente tra le macerie o i detriti dei bombardamenti. Ci accorgiamo che i bambini le raccolgono inconsapevolmente e poi, purtroppo, ne subiscono le ferite”. 

Sia il Libano che Israele sono tra i 33 Paesi che non hanno firmato la Convenzione per la messa al bando delle mine antiuomo (APMBC).

Israele ha occupato il Libano meridionale tra il 1982 e il 2000 e in quel periodo ha piazzato centinaia di migliaia di mine.

Quando se ne andò, si ritiene che circa 37.000 acri del Libano fossero contaminati da mine inesplose ed esplosivi improvvisati piantati dalle diverse parti coinvolte nella guerra civile libanese.

Nel 2023, le attività di sminamento avevano liberato circa l'80% di quest'area dagli esplosivi.

La necessità di proteggere i bambini del Libano meridionale dalle mine e dalle bombe a grappolo ha portato ad alcune soluzioni innovative, tra cui il coinvolgimento di gruppi di clown per educarli ai pericoli degli ordigni inesplosi.

Tuttavia, secondo Mine Action Review, il lavoro di rimozione delle mine è stato sospeso a causa dello scoppio delle ostilità tra Israele e Libano da ottobre.

“Di conseguenza, il Libano non è in grado di rispettare la scadenza per la bonifica dell'articolo 4 della Convenzione sulle munizioni a grappolo (CCM), prevista per il 1° maggio 2026, e alla capacità attuale prevede che non rispetterà i suoi obblighi fino al 2030”, si legge nel sito.

Bombe nei giocattoli 

Ma dagli anni '90 circola anche un'accusa molto più sinistra: quella di bombe sganciate dagli aerei israeliani nel Libano meridionale intenzionalmente nascoste nei giocattoli dei bambini.

Il quotidiano libanese L'Orient-Le Jour ha parlato del fenomeno nel 1997, citando una serie di esempi, tra cui quello di una bambina di nove anni che si è ritrovata con la mano destra distrutta dopo aver trovato una “grande jeep di plastica verde mela, con sei grandi ruote nere” che le è esplosa in mano dopo averla trovata vicino al suo villaggio.

Hanno anche citato l'esempio di un bambino che riportò gravi ustioni dopo aver trovato una torcia esplosiva e di un'altra bambina che rimase uccisa dopo aver esclamato “Ho trovato una bambola!” prima di saltare in aria.

Un ufficiale della Forza interinale delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) ha confermato all'AFP che gli oggetti sono stati lanciati principalmente da elicotteri.

“Può essere un giocattolo o avere la forma di una normale pietra”, ha precisato a condizione di anonimato.

Nel 1998, una lettera della Missione permanente del Libano presso le Nazioni Unite indirizzata al Segretario generale ha ripetuto l'affermazione che gli aerei da combattimento israeliani avevano “tentato di uccidere i bambini lanciando migliaia di giocattoli con trappole esplosive su villaggi e città libanesi”.

“Le forze di occupazione israeliane hanno utilizzato questo metodo nel corso degli anni e continuano a farlo, l'esempio più recente è stato quello del lancio di giocattoli con trappole esplosive sulla città di Nabatiyah, uccidendo e ferendo bambini e sfigurandone altri in modo permanente”, si aggiunse nella missiva.

Da parte loro, gli Hezbollah raccontarono che tra gli oggetti trovati c'erano un uovo d'oro, coni gialli fluorescenti, un cane Snoopy e una bambola parlante che, secondo loro, era destinata a esplodere quando veniva tirata la corda.

All'epoca Israele negò le accuse, definendole “spregevoli”.

Tuttavia, nel 2000, un rapporto del Comitato per gli Affari Esteri del Regno Unito ha messo in guardia dai pericoli delle bombe inesplose nel Libano meridionale, menzionando l'uso di “giocattoli con trappole esplosive, presumibilmente sganciati dall'aviazione israeliana nei pressi dei villaggi libanesi adiacenti alla cosiddetta zona di sicurezza”.

Parlando alle Nazioni Unite lo scorso mercoledì, il Segretario generale dell'ONU Antonio Guterres ha ribadito che “gli oggetti civili” non dovrebbero far parte della guerra.

“Penso che sia molto importante che ci sia un controllo effettivo degli oggetti civili, che non vengano armati - questa dovrebbe essere una regola che... i governi dovrebbero essere in grado di attuare”, ha ribadito.

“Quello che è successo è particolarmente grave, non solo per il numero di vittime che ha causato, ma per le indicazioni che esistono sul fatto che è stato innescato, direi, in anticipo rispetto a un modo normale di innescare queste cose, perché c'era il rischio che venisse scoperto”.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

*Alex MacDonald è un reporter di Middle East Eye e ha lavorato in Iraq, Turchia, Qatar e Bosnia, esaminando le lotte sociali e ideologiche della regione.

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Nessun dolore andrà perduto - Mauro Armanino

 

Per il dolore è come per l’ingiustizia. Non ci si dovrebbe mai abituare alla loro pervasiva presenza. Molto spesso il dolore è una conseguenza dell’ingiustizia. Entrambi sono a loro modo una rivelazione. Il dolore è una delle risposte, quella forse più immediata e drammatica, alla separazione tra la realtà e l’anelito alla pienezza di vita. Rivela un disagio, spesso incomunicabile, con se stessi, gli altri e il mondo. L’ingiustizia si esprime come un tradimento perpetrato alla persona che viene privata del primo e fondamentale diritto che è il riconoscimento della sua inalienabile dignità umana.

“Dov’è il dolore, là il suolo è sacro”, scrisse il drammaturgo e poeta di origine irlandese Oscar Wilde. Il Sahel è dunque un luogo sacro e come tale andrebbe accolto e rispettato. Il suolo di cui parla il poeta non è solo quello geologico o geopolitico. Il primo suolo sacro è costituito dalle persone, i corpi, le speranze e l’immaginario che caratterizzano ogni umana avventura. Il dolore che non trova parole per raccontarsi perché indicibile e prezioso come un pianto di madre. Il dolore che sembra arrivare ancora prima di nascere al mondo. Il dolore dei poveri che lo trasmettono, in silenzio, da padre a figlio.

Il dolore della morte per la fame che, secondo l’Ufficio di coordinazione delle azioni umanitarie, mette a rischio la vita di 33 milioni di persone nel Sahel. Questa carestia è la conseguenza di crisi che, come il deterioramento della sicurezza, l’instabilità e il clima, minacciano i mezzi di sussistenza delle famiglie. La violenza dei conflitti armati obbliga milioni di persone a fuggire dalla case e dalle terre per cercare un futuro precario altrove. Una vita passata scappando da un luogo all’altro e da una guerra alla seguente. Sembra difficile trovare un dolore che somigli a quello raccontato dagli scampati.

Perché il dolore è una maledizione, un mistero, un silenzio, parole che non bastano, un miracolo non accaduto e un grido inascoltato. C’è un dolore collettivo che non è la somma dei dolori individuali e che neppure i libri di storia riescono ad evidenziare. Il dolore lo si porta dentro come fanno i padri che la vita ha reso curvi e fieri per non aver pianto davanti ai figli. C’è il dolore del parto e quello che sembra del tutto irriverente e sterile. Il dolore tace perché difficilmente trova una riva dove approdare con la sicurezza di essere compreso. Come quello dei bambini che pochi sanno decifrare.

Il loro dolore, quello dei bambini, non ha ancora trovato un lessico capace di trasmetterlo alle generazioni che verranno. I bambini presi come ostaggi per farne mendicanti sulle strade delle città e per impietosire i distratti consumatori di beni. Obbligati a lavorare nei cunicoli scavati in terra in cerca di minerali preziosi per l’industria e il commercio dei grandi. Il dolore dei bambini strappati troppo in fretta dall’abbraccio delle madri e dal futuro che i consigli del padre non potrà più ascoltare. Un recente rapporto sul Sahel rivela che i bimbi costretti a fuggire da casa sono circa 1,8 milioni.

Il dolore del tradimento sofferto o perpetrato non ha ancora trovato un’unità di misura per stimarlo. Le conseguenze di scelte politiche funzionali alle ideologie dominanti aggiungono dolore ai poveri che il sistema di dominazione ha reso inutile periferia. Il dolore dei giovani a cui vengono espropriati, venduti e manipolati i sogni di un futuro possibile. L’accanimento globale contro i migranti che ne sono una delle espressioni più libere e pure, genera rivoli di dolore che come fiumi sotterranei prepara sorgenti nel deserto. Nessun dolore andrà perduto perché scritto sulla palma della mano, sacra, di una madre.

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