L’obbligo di sottoscrivere una
polizza contro rischi naturali è da tempo una richiesta delle classi dirigenti
globali. La natura, già ridotta a capitale nella contabilità di imprese e
stati, diventa sempre di più merce di scambio intermediata dalla finanza.
Intanto cresce il mercato “al dettaglio” per assicurarsi i clienti finali e
quello “all’ingrosso”, tra le grandi compagnie di assicurazione, gran parte
delle quali si divertono da tempo a giocare in borsa tra loro. Abbiamo bisogno
di rilanciare una nuova stagione di finanza critica che reinventi i principi e
le pratiche del mutualismo, per costruire relazioni solidali e pratiche
cooperative fuori mercato in grado di affrontare le fragilità delle nostre
vite. La cura e la manutenzione del territorio, scrive Paolo Cacciari, fanno
parte di queste attività non lucrative.
Con la
assicurazione obbligatoria dei rischi ambientali il cerchio della
finanziarizzazione della natura si chiude. La natura, già ridotta a “capitale
naturale” nella contabilità nazionale, ovvero stock di servizi
ecosistemici da includere negli asset patrimoniali delle
imprese, diventa a tutti gli effetti merce di scambio intermediata dalla
finanza. La shock
economy (già ben descritta da Naomi Klein al tempo dell’uragano
Katrina a New Orleans) è un potente mezzo per drenare denaro dai “risparmiatori”,
ricavare profitti e far crescere il Pil.
Perché
preoccuparsi di prevenire i danni alle cose e alle case se poi, con gli
indennizzi, le si possono riavere più belle di prima? È questa la logica che
muove l’economia della crescita. Se manca l’acqua desalinizziamo quella del mare.
Se è inquinata beviamo quella minerale. Se c’è troppa CO2 in atmosfera
catturiamola e rimettiamola nel sottosuolo. Se manca il gas russo costruiamo
centrali nucleari. Se non ci basta il sole che abbiamo sulla nostra testa andiamo
a costruire centrali a concentrazione nel Sahara. Se il mare inonda le coste
facciamo come Giacarta (Indonesia) costruiamo una nuova capitale più in alto
(per la cronaca, si chiama Nusantara). Se ad andare sotto acqua è Venezia, val
la pena costruire un Mose da sei miliardi di euro e centodieci milioni l’anno
di manutenzione. E così via, nel nome dell’innovazione scientifica e del
progresso.
Ma per
“ricostruire” bisogna che il sistema accumuli prima le risorse finanziarie
necessarie. È questo il compito assegnato alle compagnie di assicurazione. La cinica privatizzazione dei
rischi è un fenomeno crescente che l’economista Luigino Bruni tempo fa definì
«ipertrofia assicurativa, “assicurarizzazione” del mondo, e cioè il progressivo
e veloce allargamento dell’area della vita sociale (sanità, scuola, welfare…)
coperta da contratti assicurativi». Con il risultato di spaccare ancora
di più la popolazione tra chi si può permettere assicurazioni “integrative” e
chi no, e di mandare in frantumi quel poco che rimane della mutualità
disinteressata comunitaria e pubblica (garantita dallo stato e da un sistema
fiscale equo e proporzionale).
La
assicurazione contro le “calamità naturali” è stata incoraggiata anche dall’Onu
(vedi i Principles for Sustainable Insurance) e dall’Unione Europea nell’ambito
delle strategie di “resilienza” e “adattamento” delle aziende e dei territori
ai cambiamenti climatici. I nostri ministri sovranisti Musumeci e
Giorgetti non si inventano nulla che non sia già stato richiesto dalle classi dirigenti
globali.
Ma, fino ad
ora, le raccomandazioni lanciate dai decisori politici in fuga dalle loro
responsabilità non hanno avuto grande ascolto. Infatti, le compagnie di
assicurazione sono state molto “prudenti” di fronte al crescere degli eventi estremi
metereologici (alluvioni, frane, incendi, ecc.), nonché dei contenziosi che
inevitabilmente si aprono sulle responsabilità umane nella gestione delle
infrastrutture e nell’uso scellerato del territorio, che non hanno nulla a che
fare con la “violenza” della natura. Da qui polizze alte e premi che non
indennizzano determinati rischi. Ora la obbligatorietà per legge (come avviene
per gli incidenti automobilistici) porterà sicuramente maggiore serenità e
“coraggio” nei consigli di amministrazione delle compagnie di assicurazione.
Esse, comunque, sono da tempo corse ai ripari ri-assicurandosi a loro
volta. Si è così formato un doppio mercato: uno “al dettaglio” per i
clienti finali, l’altro “all’ingrosso”, per le stesse compagnie di
assicurazione (pensiamo a Axa, Allianz, Aviva, Legal & General, Generali).
Inoltre, le grandi compagnie sono quotate in borsa e hanno imparato a “giocare”
su sé stesse. Da tempo circolano titoli di risparmio detti “Catastrophe
bond” (Cat bond, “obbligazioni catastrofe”, indice del settore lo Swiss Re
Global Cat Bond). La Banca Mondiale ha insegnato come si fa ad usarli durante
il Coronavirus finanziando in questo modo il progetto Pandemic Emergency
Financing Facilithy. Nel casinò delle borse, con i titoli “derivati” (che sono
forme sofisticate di assicurazioni) si guadagna anche sulle sciagure altrui. Si
può scommettere (tanto al ribasso quanto al rialzo) sull’eventualità che si
verifichino determinati eventi catastrofici (epidemie, uragani, terremoti,
maremoti, crisi idriche, ecc.) in determinati luoghi. Se non accade nulla, chi
ha comprato i bond partecipa all’extraprofitto realizzato dalle compagnie di
assicurazione e riceve una cedola monetaria oltre al premio assicurativo –
spiega il Sole 24Ore – se invece l’evento si verifica proverà la prossima volta
(sempre che io abbia capito bene). Rosso o nero; rien ne va plus.
«Che fare
allora? – si chiedeva Luigino Bruni, su Avvenire qualche anno fa – Vedo due
strade, una interna e una esterna al mondo assicurativo. Le assicurazioni, non
dobbiamo dimenticarlo, sono nate come strumenti a garanzia soprattutto dei più
fragili e dei più vulnerabili: all’origine è stato così. Oggi c’è
bisogno di rilanciare una nuova stagione di assicurazione etica, sulla scia
del Nobel M. Yunus, che sta inventando assicurazioni per i poveri, con premi di
pochi dollari. Le società assicurative sarebbero per natura imprese civili,
cioè non a scopo di lucro, proprio perché i contratti che vendono hanno a che
fare con un bene primario, proteggersi contro la vulnerabilità cattiva
devastante, e renderla più sostenibile; un bene che è un diritto fondamentale
di ogni persona, e non si dovrebbe speculare sui diritti fondamentali
dell’uomo. Ciò non è fantascienza (come verrebbe da dire oggi pensando a chi ha
in mano le grandi imprese assicurative), ma democrazia e libertà». La seconda
strada – complementare – consiste nel non illudersi che possa esistere una vita a “rischio zero”. Le nostre
fragilità e vulnerabilità vanno affrontate costruendo relazioni sociali
solidali, pratiche mutuali, azioni cooperative “fuori mercato”. La cura e la
manutenzione del territorio fanno parte di queste attività non lucrative.
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