con la cultura si mangia, dice lo studio qui sotto - franz
Nel 1990, mentre compulsavo i materiali per la tesi di laurea, mi imbattei in una pubblicazione che mi incuriosì parecchio: si trattava di un studio di Roger Vaughan, condotto nel 1976, sull’impatto economico del Festival di Edimburgo (Vaughan 1977 e 1980).
Incuriosito, appurai l’esistenza di una vasta letteratura internazionale... che muoveva da presupposti assai lontani dai temi che animavano il dibattito italiano sull’economia dei beni culturali dei primi anni Novanta del secolo scorso: pubblico-privato, l’oro nero del Belpaese, viva/oddio gli americani, ecc.
Il punto di partenza di tali studi era e rimane banale: le istituzioni e le manifestazioni culturali forniscono un contributo rilevante allo sviluppo economico e occupazionale dei territori su cui insistono, essendo capaci di attrarre centinaia di migliaia di facoltosi visitatori, deviare ingenti flussi turistici, sostenere diversi settori economici, frenare la migrazione intellettuale e favorire lo sviluppo del capitale umano locale, ecc. Tuttavia, le medesime istituzioni e manifestazioni possono provocare congestioni e danni al patrimonio culturale, incrementare i costi sostenuti dalle comunità e dagli enti locali, alterare gli equilibri dei mercati immobiliari
e stravolgere gli assetti delle attività commerciali favorendo la difesa di posizioni di rendita, esercitare impatti sociali negativi, ecc.
In tal senso, sebbene i nessi tra cultura, creatività e sviluppo economico siano da dieci anni oggetto di una tambureggiante e trionfalistica offensiva accademico-congressuale, non si può certo affermare che in Italia si sia sviluppato un vero dibattito metodologico sulla misurazione di tali impatti, sicché si riaffermano principi ideologici alla moda, scarsamente sostanziati da verifiche empiriche ancorate a un rigoroso dibattito teorico...
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