Quando sei giovane, neppure ti sfiora il pensiero. E' sempre stato così.
La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
mercoledì 31 luglio 2024
I DIPENDENTI PUBBLICI SONO BESTIE - DANILO TOSARELLI
martedì 30 luglio 2024
Spiagge, fuori luogo parlare di ‘concessione dei servizi balneari’: il popolo ne è il proprietario – Paolo Maddalena
La politica insensata dei nostri
governanti che, a partire dal 1990 in poi, si è accanita nel distruggere il
nostro invidiabile patrimonio industriale con le micidiali e
incostituzionali privatizzazioni si sta ancor
più evidenziando nel non saper trovare una soluzione per evitare che le
cosiddette concessioni balneari scadute
siano poste “a gara europea”, come richiesto dall’Ue e come dichiarato da
talune nostre decisioni giurisprudenziali; in modo che, anche in questo
settore, i “profitti” vadano agli stranieri e a noi resti qualche lavoro
precario o molto malpagato.
Si tratta di un vistoso equivoco, dovuto al fatto che i nostri governanti
continuano a ragionare come se le spiagge fossero proprietà della Pubblica
Amministrazione e che per renderle in uso pubblico fosse necessario far ricorso
all’istituto della concessione di servizi, senza tener conto che la nostra
Costituzione, all’articolo 42, sancisce che “la proprietà è pubblica o
privata”, dovendosi intendere come “proprietà pubblica”, ma, come
immediatamente osservò il grande amministrativista Massimo Severo Giannini, la “proprietà collettiva
demaniale” del popolo. Sicché deve inequivocabilmente ritenersi che non è più
lo Stato amministrazione, il quale, con un atto di concessione a privati,
attrezza e destìna a uso pubblico le spiagge, ma che queste di per sé sono già in uso pubblico, in quanto
oggetto di detta “proprietà collettiva demaniale”.
In altri termini, continuare a parlare di
“concessione dei servizi balneari” è fuori luogo, specialmente se si pensa che,
secondo la giurisprudenza amministrativa (sentenza del Consiglio di Stato n.
3910 del 4 maggio 2020), la “concessione di un servizio pubblico” implica che
il concessionario, avendo pattuito una remunerazione con l’Amministrazione
pubblica, assuma su di sé il rischio imprenditoriale legato all’esecuzione dei
servizi di cui si tratta. Nel caso di specie non c’è alcun rischio da
affrontare e quello che serve è semplicemente una attività che
consista nella pulitura della spiaggia, nella fornitura di sedie a sdraio e
ombrelloni, nell’allestimento di uno spogliatoio amovibile, nella costituzione
di un punto di ristoro, nella sorveglianza dei bagnini e così via dicendo. Si
tratta di attività che evidentemente possono essere consentite a privati,
mediante i più vari tipi di contratti, con i quali, in pratica, si autorizzano
le predette attività. In sostanza, l’unico tipo di spiaggia consentito dalla
Costituzione è la “spiaggia libera attrezzata”, per
il cui accesso non occorre pagare un biglietto, mentre poi ci si può servire di
varie comodità nel modo che ho appena esposto.
In questo quadro è semplicemente impensabile che una legge promossa dal governo
Meloni abbia addirittura riconosciuto al “concessionario” il diritto a una
indennità di esproprio per le costruzioni effettuate sulla spiaggia e lasciate
allo Stato, al termine della concessione, secondo quanto dispone l’art. 49 del
codice della navigazione. La questione è stata rimessa dal Consiglio di Stato
alla Corte di giustizia europea, la quale, giustamente, ha risposto che
l’attuazione o la non attuazione dell’articolo 49 del nostro codice della
navigazione non incide sul diritto
europeo. E allora qualcuno, con una nuova proposta di legge, ha pensato di
risolvere il problema abrogando l’articolo
49 del Codice della navigazione, senza tener presente che le costruzioni su
suolo altrui appartengono per “accessione” al proprietario del suolo (nel caso
il proprietario della spiaggia, cioè il popolo).
Se i nostri governanti conoscessero e
facessero valere la Costituzione, certamente non sarebbe stato possibile
neppure pensare di mettere “a gara europea” le concessioni scadute riguardanti
le nostre spiagge.
Se sei povero… Lettera aperta - Giovanni Scavazza
Abbiamo ricevuto una lettera scritta a mano con una calligrafia elegante e una sintassi impeccabile, dove ogni parola è stata scelta con cura. Quando si ragiona di poveri, il rischio di essere astratti o di diventare, per dirla con Galeano, poverologi, gli esperti che parlano per loro, ci raccontano che non lavorano, che mangiano poco o male, quello che non hanno, quello a cui non pensano, è altissimo. E spesso accompagnato da ipocrisia. Questa lettera, con tutto la sua asprezza, costringe a pensare. “Se sei povero sai cos’è veramente la povertà… La povertà vera non è nulla di commovente… Vi parlo di povertà perché sono povero… La povertà è denti rotti e mancanti (a me ne mancano 16), cure negate…, il lasciar scorrere su di te la prepotenza del sistema. La povertà è alienazione, esclusione… a tratti follia e disperazione… I poveri nessuno li ascolta davvero… Non parlate di povertà, non irridete con la vostra patetica e distratta attenzione qualcosa di cui non avete intenzione di scrutare la profondità…”
Se sei povero sai cos’è veramente la povertà. La dimostrazione di
questo assioma è quotidiana nell’egoismo diffuso del materialismo consumista,
nell’insensibilità incosciente di chi non ascolta o accoglie con fastidio le
dimostrazioni pratiche della povertà.
La povertà vera non è nulla di commovente, nulla che sia facile o piacevole da
descrivere. Fra le sue pieghe si può certamente trovare spiritualità e saggezza
(io l’ho trovata) ma occorre essere predisposti, sin da prima che essa di
occupi di te, perché quando lo fa, si prende tutto: casa, possedimenti
materiali, salute, orgoglio, dignità, e riconquistarli ha il prezzo della tua
stessa vita.
Vi parlo di povertà perché sono povero ed io la capisco. La povertà è denti
rotti e mancanti (a me ne mancano 16), cure negate, malattie endemiche
trascurate e lasciate correre. La povertà è essere indifesi di fronte
all’abuso, il dover di chiedere quel che si sa verrà probabilmente negato, il
lasciar scorrere su di te la prepotenza del sistema. La povertà è alienazione,
esclusione… a tratti follia e disperazione, è un lungo cunicolo senza uscita…, un
tunnel dove la speranza muore e si azzera, dove le prospettive divengono piatte
e inutili, dove il futuro s’annulla e diventa paura.
La povertà quindi non è nulla di poetico e il trovare poesia deriva dalla
compassione che hai già, non quella che troverai intorno a te, perché nessuno
realmente te ne darà se non formalmente… per il semplice fatto che non
capiscono, non sanno davvero con che cosa hanno a che fare. Non lo sanno i
politici, non lo sanno gli ecclesiastici, non lo sanno i finti santoni, non lo
sanno gli sbirri, non lo sanno i giudici, non lo sanno i pietosi, pelosi,
perbenisti, non lo sanno i caritatevoli piccolo borghesi annoiati buonisti, ne
sanno poco e poco ne comprendono persino gli addetti ai lavori. Solo i poveri
capiscono realmente la povertà, perché bisogna provarla per sapere davvero cosa
sia, come essa divori morale, etica, dignità, come essa azzeri e annulli tutte
le chiacchiere inutili fatte intorno a lei.
I poveri nessuno li ascolta davvero, fingono i più, i compassionevoli sono
pochi, pochissimi, quelli che capiscono ancora meno, perché un povero non è
credibile, non potrebbe mai essere un intelligente, un saggio, uno scrittore
vero, un poeta o un artista, figlio d’arte come me.
La povertà è legata alla filosofia corrente, all’ignoranza, alla stoltezza,
all’alienazione, ed oggi più che mai essa viene vissuta e descritta dai più
come una forma di colposa e degenerante autoesclusione, quasi fosse scelta cosciente.
Non parlate di povertà se non sapete, non irridete con la vostra
patetica e distratta attenzione qualcosa di cui non avete intenzione di
scrutare la profondità…, che non vi interessa, che vi spaventa, che
rappresenta un peso inutile nel vostro risiko delle strategie.
[prof. Giovanni Scavazza]
lunedì 29 luglio 2024
I nuovi Potlach: il vicolo cieco dell’Occidente
L’Occidente a guida americana ha un interesse, inconfessabile ma imperativo, a creare in modo crescente ferite sistemiche, in modo che le forze produttive siano chiamate a lavorare a pieno ritmo e i margini di profitto si vitalizzino.
La parabola dell’Occidente e i nuovi
Potlatch
Nel quadro politico internazionale che caratterizza questa fase storica c’è
un fattore che trovo estremamente preoccupante. Si tratta della combinazione,
nel mondo Occidentale, di un fattore strutturale e un fattore culturale. Provo
a tratteggiarne in modo volutamente schematico gli aspetti di fondo.
Il retroterra strutturale
L’Occidente ha notoriamente acquisito una posizione
globalmente egemonica negli ultimi tre secoli. Lo ha fatto in grazia
di alcune innovazioni (europee) che gli hanno permesso di incrementare in modo
decisivo la produzione industriale e la tecnologia militare.
Nel corso dell’800 l’Occidente ha imposto le proprie leggi, o i propri
contratti, sostanzialmente a tutto il mondo. Alcune parti del mondo come il Nord-America e
l’Oceania hanno cambiato radicalmente configurazione etnica,
divenendo insediamenti stabili di popolazioni di origine europea.
Imperi asiatici millenari si sono trovato in condizione di protettorato,
colonia o comunque di sottomissione. L’Africa è diventata un cespite
cui attingere liberamente forza lavoro e materie prime.
Tutto ciò è avvenuto alla luce di un modello economico che aveva
strutturalmente bisogno di crescere costantemente per mantenere la propria
funzionalità, inclusa la pace interna. La dinamicità espansiva occidentale è
stata spinta in modo decisivo dal fatto che il sistema aveva bisogno di margini
costanti di profitto e le imprese estere garantivano cospicui ritorni
(rendendole perciò robustamente finanziabili).
Questo processo è continuato tra alti e bassi fino all’inizio del XXI
secolo. Più o meno con la crisi subprime (2007-2008) si segnala una difficoltà
rilevante nel mantenere il dominio su un sistema-mondo demograficamente,
politicamente, culturalmente troppo vasto.
Il sistema di sviluppo occidentale, ampiamente basato sulla libera
iniziativa decentrata, nella sua ricerca di margini di profitto ha commesso
alcuni errori imperdonabili per un potere imperiale, quale ne frattempo era
divenuto (prima come impero britannico, poi come impero americano).
Siccome la sfera finanziaria presenta maggiori margini di profitto rispetto
alla sfera industriale si è assistito in Occidente ad uno spostamento costante
delle manifatture in paesi remoti con salari bassi. Mentre quest’operazione è
riuscita in alcuni paesi con un’organizzazione interna fragile, che sono stati
e rimangono dei semplici produttori sussidiari, politicamente subordinati a
potenze occidentali, questo non è riuscito in alcuni paesi che offrivano per
ragioni culturali maggiore resistenza, Cina in testa.
L’emergere di alcuni contropoteri nel mondo è oramai un dato storico
incontrovertibile e inemendabile. Un Occidente che ha giocato per anni tutte le
sue carte sul predominio finanziario e tecnologico si ritrova sfidato da
contropoteri capaci di opporre efficace resistenza sia sul piano economico che
militare.
In questo senso la guerra russo-ucraina, con gli errori fatali commessi
dall’Occidente, rappresenta un momento di passaggio storico: aver spinto Russia e
Cina ad un’alleanza obbligata ha creato l’unico polo mondiale realmente
invincibile anche per l’Occidente unificato.
Gli USA erano così preoccupati di interrompere una possibile proficua
collaborazione tra Europa (Germania in particolare) e Russia
che hanno trascurato una collaborazione molto più potente e decisiva, quella
tra Russia e Cina appunto.
Ma cosa accade nel momento in cui un Occidente a guida americana si trova
di fronte ad un contropotere insuperabile? Molto semplicemente il modello –
sperimentato nell’ultima fase sotto il nome di “globalizzazione” – basato
sull’aspettativa di un’espansione incontrastata e di margini continuamente
dilatabili di profitto si arresta bruscamente.
Le catene di fornitura appaiono sovraestese e incontrollabili, nel momento
in cui gli USA non sono più l’unico pistolero del paese. Si profila l’incubo
sistemico del modello liberal-capitalistico: la perdita di un orizzonte di
espansione. Senza prospettive di espansione l’intero sistema, a partire dalla
sfera finanziaria, entra in una crisi senza sbocchi.
Il retroterra culturale
Ed è qui che subentra il secondo protagonista dello scenario corrente,
ovvero il fattore culturale. La cultura elaborata negli ultimi tre secoli in
Occidente è qualcosa di assai caratteristico. Si tratta di un approccio
culturale universalistico, astorico, naturalistico, che – anche grazie ai
successi ottenuti sul piano tecnoscientifico – ha finito per autointerpretarsi
come Ultima Verità, sul piano epistemico, politico ed esistenziale.
La cultura occidentale, che ha conquistato il mondo non per le capacità
persuasive delle proprie virtù morali, ma per quelle dei propri obici, ha però
immaginato che una cultura capace di costruire obici così efficienti non poteva
che essere intrinsecamente Vera.
L’universalismo naturalistico ci ha disabituato a valutare le differenze
storiche e culturali, assumendone il carattere contingente, di mero pregiudizio
che verrà superato.
Quest’impostazione culturale ha creato un danno devastante, che ha coinciso
in Europa con la galoppante americanizzazione delle proprie grandi tradizioni:
l’Occidente, divenuto il sistema di vassallaggio del potere americano, appare
oggi culturalmente del tutto incapace di comprendere il proprio carattere di
determinazione storica, non serenamente universalizzabile.
L’Occidente, pensandosi come incarnazione del Vero (la Liberaldemocrazia, i
Diritti Umani, la Scienza) non ha dunque gli strumenti culturali per pensare
che un altro mondo (e anzi più d’uno) sia possibile.
Il vicolo cieco della storia
occidentale
Ecco, se ora uniamo i due fattori, strutturale e culturale, che abbiamo
menzionato ci ritroviamo con il seguente quadro: l’Occidente a guida americana
non può mantenere il proprio statuto di potere, garantito dalla prospettiva
dell’espansione illimitata, e d’altro canto non può neppure immaginare alcun
modello alternativo, in quanto si concepisce come l’Ultima Verità. Quest’aporia
produce uno scenario epocale tragico.
L’Occidente a guida americana non è in grado di riconoscere alcun “Piano
B”, e d’altro canto comprende che il “Piano A” è reso fisicamente
impercorribile dall’esistenza di contropoteri innegabili. Questa situazione
produce un’unica pervicace tendenza, quella a lavorare affinché quei
contropoteri internazionali vengano meno.
Detto in termini semplificati: gli USA non hanno alcuna prospettiva diversa
in campo da quella di ricondurre in una condizione subordinata – come fu in
passato – i contropoteri euroasiatici (Russia, Cina, Iran-Persia; l’India è già
sostanzialmente sotto controllo). Ma questa sottomissione oggi non può che passare
attraverso un conflitto, o una guerra aperta o una sommatoria di guerre ibride
volte a destabilizzare il “nemico”.
Ma, a questo punto, la situazione è resa particolarmente drammatica da un
altro fattore strutturale. Per quanto gli USA sappiano di non poter affrontare
una guerra aperta senza esclusione di colpi (nucleare), hanno un fortissimo
incentivo a che la guerra non si mantenga sul piano ibrido “a basso voltaggio”.
Questo per la ragione strutturale vista in precedenza: c’è bisogno di una
prospettiva di incremento produttivo.
Ma come si può garantire una prospettiva di incremento produttivo in una
condizione in cui l’espansione fisica non è più possibile (o è troppo incerta)?
La riposta purtroppo è semplice: una prospettiva di incremento produttivo sotto
queste condizioni può essere garantita solo se simultaneamente vengono create
delle fornaci dove poter bruciare costantemente quanto prodotto.
C’è la necessità sistemica di inventarsi dei colossali, e sanguinosi, Potlatch,
che diversamente dai Potlatch dei nativi americani, non devono distruggere solo
oggetti materiali, ma anche esseri umani.
In altri termini, l’Occidente a guida americana ha un interesse,
inconfessabile ma imperativo, a creare in modo crescente ferite sistemiche da
cui far defluire il sangue, in modo che le forze produttive siano chiamate a
lavorare a pieno ritmo e i margini di profitto si vitalizzino.
E quali forme possono prendere queste ferite che distruggono ciclicamente,
e in modo poderoso, le risorse? Di primo acchito direi che ne vengono in mente
due: guerre e pandemie.
Solo un nuovo orizzonte di sacrifici umani può consentire alla Verità
Ultima dell’Occidente di rimanere in piedi, di continuare ad essere creduta e
venerata.
E se nulla cambia nella consapevolezza diffusa delle popolazioni europee –
i principali perdenti di questo gioco – credo che queste due carte distruttive
saranno giocate senza scrupoli, reiteratamente.
L’antisemitismo di Israele verso i Palestinesi - Lucio Garofalo
Chiunque abbia difeso finora il governo di Israele, si
arrampica sugli specchi in modo goffo e maldestro per avallare le assurde
“ragioni” di uno Stato rivelatosi terrorista e criminale. Ma è impensabile,
oltre che immorale, avallare una linea strategica priva di qualunque fondamento
razionale, per cui rischia di ritorcersi contro chi la sostiene.
Nessuno che davvero conti all’interno della “comunità
internazionale” ha osato condannare gli atti di terrorismo di Stato commessi da
Israele contro popolazioni inermi come quelle presenti nella striscia di Gaza.
Nemmeno l’attuale pontefice ha assunto una posizione di netta esecrazione
morale e politica nei riguardi dell’aggressiva e spregiudicata politica
israeliana che si è spinta davvero oltre ogni limite accettabile.
Quando si parla di “antisemitismo” ci si
riferisce ovviamente all’antisemitismo storico, convenzionalmente inteso, cioè
al classico razzismo contro gli Ebrei, vittime dell’Olocausto nazista. Ma
esiste anche un antisemitismo commesso contro il popolo palestinese, anch’esso
appartenente alla stirpe “semitica”, anch’esso vittima di una politica di
persecuzione e di aggressione imperialista, di atti ostili e terroristici, di
cui si conoscono i responsabili. Il peggior “antisemitismo”, non semplicemente
ideologico, ma brutalmente politico e militare, è quello messo in pratica da
coloro che rappresentano i veri assassini e terroristi, vale a dire il regime
sionista di Israele e i suoi soci anglo-americani. Altrimenti, come si potrebbe
definire la politica di persecuzione e sterminio portata avanti dallo Stato di
Israele con l’appoggio, più o meno tacito, degli USA e delle altre nazioni
occidentali, contro popolazioni inermi che vivono confinate nella striscia di
Gaza?
Occorre ricordare alcune cifre impressionanti che
indicano lo stato di grave miseria e disperazione in cui versa la popolazione
palestinese di Gaza. Secondo i dati ufficiali forniti dalla Banca Mondiale,
oltre il 40% dei bambini della Striscia di Gaza soffre di fame e di
malnutrizione, oltre il 70% degli abitanti giace sotto la soglia della povertà,
sopravvivendo a stento con meno di 2 dollari al giorno. Tali condizioni di vita
intollerabili sono la conseguenza diretta di un embargo economico disumano
imposto da Israele contro la gente di Gaza.
L’Occidente ha sempre decantato le virtù liberatorie
della propria democrazia, ma quando un popolo sceglie di autodeterminarsi,
com’è accaduto anche nel caso dei Palestinesi, e l’esito elettorale non è
gradito alle potenze occidentali, queste intraprendono immediatamente una serie
di manovre tese a vanificare qualsiasi fondamento di legalità. Non a caso, dopo
le elezioni legislative palestinesi vinte nel gennaio del 2006 da Hamas, la
comunità internazionale impose un ignobile embargo al fine di ricattare i
Palestinesi e costringerli a pentirsi di aver votato per Hamas.
La vittoria elettorale di Hamas venne ostacolata fin
dall’inizio dai paladini della tanto osannata “democrazia”, gli USA. I quali
ostentano una presunta superiorità di ordine morale nell’ambito dei diritti e
delle libertà democratiche, che non corrisponde nemmeno lontanamente alla
realtà dei fatti. Basti pensare solo che la pena capitale, vigente in vari
Stati della Confederazione USA, è un “nobile” esempio della civiltà giuridica e
politica statunitense, per cui gli USA presumono di avere le carte in regola
per “esportare la propria democrazia” nel mondo. A riguardo gli islamisti non
hanno torto quando accusano la cosiddetta “democrazia occidentale” di essere
una “foglia di fico” usata allo scopo di occultare la natura feroce e
sanguinaria ed i crimini dell’imperialismo made in USA. D’altronde, gli stessi
concetti sono formulati dai teorici marxisti, sia pure in termini differenti,
in chiave comunista, cioè su una base ideologica e un’impostazione ateistica e
storico-materialista. In particolare, Lenin e Rosa Luxemburg definirono la
democrazia parlamentare come un “involucro” dentro cui si annida la violenza
della dittatura di classe della borghesia imperialistica.
La logica manichea che oppone la “democrazia” liberale
borghese alla “teocrazia” islamistica è l’ennesima trappola propagandistica ed
ideologica escogitata dalle potenze imperialiste per mistificare la realtà ed
ingannare l’opinione pubblica internazionale, distraendola dai problemi e dalle
emergenze reali e, in questo caso, dalle contraddizioni presenti in Medio
Oriente o in altre aree geo-strategiche del pianeta. Non c’è dubbio che Hamas
rappresenti un’organizzazione culturalmente retrograda e politicamente retriva
ed islamico-fascista.
Ma è altrettanto ineccepibile che la politica
praticata dal governo israeliano nei riguardi delle popolazioni palestinesi di
Gaza sia oggettivamente crudele ed aggressiva, criminale e terroristica. A
questo punto sorge spontanea la seguente domanda: ma i Palestinesi, come le
altre popolazioni arabe, sono o no di origine “semitica”, come gli Ebrei?
Secondo l’antica narrazione biblica, il genere umano sarebbe suddivisibile in
tre filoni o in tre macro-gruppi etnici, discendenti dai tre figli del
patriarca Noè: Sem, da cui discenderebbero i popoli “semiti”, come gli Ebrei e
gli Arabi; Cam, da cui deriverebbero i popoli “camiti”, quali Egiziani ed altri
popoli africani; infine, Ar, da cui avrebbero avuto origine i popoli di stirpe
“ariana”, altrimenti noti come “indoeuropei”, incluse le popolazioni italiche e
via discorrendo.
Quanto finora affermato, sarebbe accreditato dalla
stessa tradizione biblica. Da questo punto di vista, ciò che comunemente si
tende ad identificare come “antisemitismo”, ovverosia il razzismo e la
persecuzione contro gli Ebrei, dovrebbe ricevere un’estensione semantica, oltre
che storico-politica, nel senso che dovrebbe includere gli atti di ostilità e
di terrorismo perpetrati dal regime di Israele, con la complicità dei governi
anglo-americani, ai danni di un altro popolo di stirpe “semitica”, vale a dire
il popolo palestinese. I principali responsabili di questa nuova versione
dell’antisemitismo sono il governo israeliano, cioè il sionismo internazionale
e i suoi tradizionali alleati anglo-americani. In effetti, temo che il nuovo
“antisemitismo” consista proprio nella politica di sterminio, pulizia etnica e
persecuzione terroristica condotta da Israele e dall’intero establishment
sionista, che fa capo alle potenti lobbies ebraiche statunitensi, nonché al
Mossad, i servizi segreti israeliani, a discapito di un altro popolo di origine
“semitica”: i Palestinesi confinati all’interno di un enorme lager cinto da un
gigantesco muro, che è la Striscia di Gaza.
domenica 28 luglio 2024
Uno straordinario esempio di giornalismo d’inchiesta contro abusi e brutalità poliziesche - Camille Polloni
Un giornalista si è infiltrato nella polizia francese, descrivendone la violenza, il razzismo quasi quotidiano di alcuni agenti di polizia e l’assurdità delle missioni rispondenti alla politica dei numeri.
(traduzione
a cura di Salvatore Turi Palidda)
Il giornalista Valentin Gendrot ha spinto l’inchiesta
giornalistica sino all’infiltrazione nei ranghi della polizia realizzando
quindi un’etnografia esemplare perché efficace anche dal punto di vista
militante antirazzista e antifascista. Tutta la sua lunga, paziente, penosa e
molto pesante esperienza l’ha raccontata nel suo libro Flic pubblicato
quattro anni fa e che ora è diventato anche prova giudiziaria nel processo che
la Procura di Parigi ha intentato contro un poliziotto. Ma come vedremo la
procura non va molto oltre l’attitudine dell’ispezione interna dell’IGPN che da
sempre tende a confermare la garanzia di impunità accordata a quasi tutti gli
operatori delle polizie come avviene in Italia.
Per questa inchiesta giornalistica di tipo etnografico
Gendrot ha quindi scelto di farsi reclutare come “assistente di sicurezza” (il
primo stadio per entrare nella polizia francese come poliziotto semplice).
Già al corso di formazione scopre che il suo vicino di
branda è un giovane cattolico praticante che da tempo è collezionista di
oggetti che glorificano il Terzo Reich come un busto di Hitler e si scopre
anche che il collega Mick chiama gli arabi reietti o “monnezza
araba” [e dice] che li “rimanderebbe indietro i migranti con appositi charter”.
Finita la formazione percepisce uno stipendio di 1.340 euro al mese ed è
assegnato all’infermeria psichiatrica della questura di Parigi (I3P). In questo
servizio situato in una dependance dell’ospedale Sainte-Anne, la questura
trattiene in arresto, per un massimo di 48 ore, persone affette da disturbi
comportamentali e che rappresentano un “pericolo imminente per la sicurezza
delle persone”. Sebbene abbiano diritto a un avvocato, Valentin racconta che
non ne vede nessuno durante i suoi quindici mesi di presenza. “Sono dimenticati
dagli dei e dagli uomini”, gli disse un giorno un’infermiera. Persone in crisi,
tossicodipendenti, senzatetto, migranti.”
Il 9 marzo 2019, Valentin è infine trasferito alla
stazione di polizia del 19° arrondissement. Questo è l’incarico che auspicava
di più perché centrale per la sua inchiesta: “Era ciò che volevo ottenere e mi
ero prefissato: sei mesi di immersione in questo luogo”. Lì scopre gli arresti
di venditori ambulanti, le “operazioni meschine e vigliacche” che permettono di
“gonfiare artificialmente le statistiche” e il razzismo quasi quotidiano di
alcuni agenti di polizia contro quelli che chiamano “bastardi”, cioè ragazzi
per lo più neri o arabi”. “Nella mia stazione di polizia si sentono ogni giorno
parole razziste, omofobe e maciste. Sono tollerate o ignorate dagli altri.” Lì
vede agenti di polizia “sbattere un migrante nero contro la pensilina
dell’autobus e poi nel furgone della polizia, picchiare un altro marocchino […]
schiaffeggiare diverse persone in custodia, sempre arabe o nere.” “Andiamo a
caccia!” “Sangue chiama sangue”, sente dire dai suoi colleghi che “daranno la
caccia ai bastardi”. [L’espressione “caccia al negro” era usata da alcuni
agenti della polizia locale di Bologna già alla fine degli anni ’90 e anche da
altri agenti di altre polizie locali e nazionali -vedi Polizia
postmoderna e Polizie
sicurezza e insicurezze].
Un giorno è costretto a redigere una falsa denuncia
per insabbiare il caso di un suo collega che aveva preso a pugni un giovane.
“Dal punto di vista giornalistico è oro. Ho elementi dalla A alla Z. Ma come
cittadino ovviamente non posso accettarlo. So che scrivendo questo libro posso
denunciare i fatti e posso anche convincere altri a farlo. Il falso in atti
pubblici è punito con quindici anni di carcere, è peggio che colpire un
minorenne. Tornerò ovviamente sulla mia testimonianza riguardo a questo
minore”. L’immersione di Gendrot gli permette quindi di raccogliere prove del
razzismo sistemico e della violenza impunita da parte della polizia. “Nel giro
di sei mesi mi sono reso conto che il mio livello di umanità ed empatia era
diminuito. Come se questo lavoro mi vaccinasse contro la sensibilità”.
Quattro anni dopo la pubblicazione del suo libro Flic la
Procura ha aperto il processo contro un poliziotto per abusi e violenze.
Nella requisitoria definitiva del 10 luglio 2024,
consultato da Médiapart, la procura del tribunale di Parigi chiede che solo un
poliziotto sia inquisito per tale vicenda. Questi contesta l’accusa e il suo
avocato non ha ancora reagito. La vicenda si svolse il 12 aprile 2019: una
pattuglia di quattro poliziotti, fra i quali il giornalista infiltrato,
controlla dei giovani che ascoltano della musica sotto un edificio. Un
adolescente di 17 anni è arrestato per oltraggio e minacce a pubblici
ufficiali. Sin dal suo arresto afferma che l’agente Marc F. l’ha colpito a
pugni nell’auto della polizia, l’ha stretto al collo e insultato. Le violenze
sono confermate da Valentin Gendrot nel suo libro. Malgrado le ferite al
sopracciglio destro e a collo, constatate da un medico legale, il giovane A.
non ha beneficiato di alcuna interruzione di lavoro.
In una registrazione che Gendrot ha fornito al
giudice, il poliziotto Marc F. dice di aver dato “una patata” (un
colpo) all’adolescente “alla bocca”. Nel corso dell’inchiesta
giudiziaria ha invece detto che l’aveva solo “percosso” a mano
aperta. Nella stessa registrazione dice che ha dato “dei piccoli
schiaffi” al fratellino di A., che non si è mai presentato alle
convocazioni dell’Ispezione generale della polizia nazionale (IGPN). Per questi
colpi, la procura chiede un non-luogo a procedere. “per quanto inadatto
e famigliare che tale atto possa essere -scrive il magistrato- è
ancor più suscettibile di riguardare una sfera deontologica” passibile
di una sanzione disciplinare “sin d’ora e già pronunciata”, oltre
che penale.
Nessuna procedura per il falso: l’impunità è garantita
Il rapporto redatto dopo il fermo di A. non menziona
alcun colpo del poliziotto. Gli agenti indicavano semplicemente di aver
dovuto “tenerlo” su sedile nell’auto, per impedirgli di “scagliarsi
contro di loro”. Scrivono anche che avevano “usato in modo
proporzionato la coercizione” per farlo sedere e ammanettarlo.
Solo Gendrot è tornato su tale versione dei fatti
ammettendo di aver dato una falsa testimonianza per “coprire” i
suoi colleghi e continuare la sua infiltrazione senza ostacoli. Malgrado le sue
dichiarazioni e quelle di Marc F., che riconosce delle omissioni in tale
rapporto ma invoca “la dimenticanza”, alcun poliziotto è mai stato
inquisito per falso in scrittura pubblica da parte di persona depositaria
dell’autorità pubblica inerente reati penali.
La giudice d’istruzione ha deciso di mettere il
poliziotto Marc F. e Gendrot come personalmente coinvolti nelle violenze e il
falso come “testimone assistito”. Quanto al poliziotto Gabriel S., redattore e
firmatario del rapporto sotto dettatura di Marc F., non è mai stato interrogato
dalla magistrata. Davanti all’IGPN, “le sembrava normale” che
i poliziotti “ne abbiano tutti discusso insieme come per qualsiasi
contravvenzione”, secondo la procura costretta a chiedere un non-luogo a
procedere per il falso in atto pubblico.
La requisitoria definitiva ricorda infine che il
libro Flic riporta “otto infrazioni” (violenze
e/o falso in atto pubblico) o, almeno, una “mancanza deontologica”.
In maggioranza commessi “a pregiudizio delle vittime non identificate” soprattutto
migranti particolarmente precari, ma tutti questi reati resteranno impuniti [la
polizia del regime Macron e del ministro dell’interno fascista Darmanin è da
tanto tempo protetta da tale impunità che come ben sappiamo in Italia è
corrente sin da dopo il G8 di Genova, vedi Polizie
sicurezza e insicurezze].
Un processo ridotto al minimo
L’avvocato di Valentin Gendrot, Romain Boulet,
commenta così:
“Chiaramente si profila un processo ridotto al minimo
… è una vera delusione constatare che la giustizia abbia sempre tante
difficoltà ad accertare le infrazioni commesse dai servizi di polizia. Non
possiamo non deplorare il velo pudico sulle derive eppure ampiamente
documentate da Valentin Gendrot e non interrogarsi sulle motivazioni reali
dell’istituzione, che rifiuta di condurre investigazioni approfondite su dei
fatti di natura criminale”.
E, come di prassi, l’avvocato invoca “una
polizia esemplare, che sia anche una polizia che riconosca le derive”.
Valentin Gendrot spiega nel suo libro che il suo
racconto era fedele ai fatti, anche se anonimizza i luoghi e gli agenti. Ha
sempre rifiutato di divulgare i veri nomi dei poliziotti coinvolti, ma ha poi
confermato la loro identità facilmente stabilita nell’indagine giudiziaria e ha
infine trasmesso alla giustizia i messaggi WhatsApp con i suoi ex-colleghi, e
le registrazioni che ebbe a fare all’insaputa di questi insieme alle sue note
di inchiesta. Valentin Gendrot non nasconde nulla. Racconta anche la precarietà
delle condizioni di lavoro, il suicidio di un collega del commissariato durante
la sua infiltrazione.
Il suo approccio ha sollevato un certo numero di
questioni deontologiche, sia sul piano
giornalistico – l’infiltrazione è una tecnica contestata [ma
praticata da diversi celebri giornalisti d’inchiesta nei paesi anglosassoni,
vedi fra altri l’esempio del giornalista
della BBC che fece l’indagine sullo sconcertante caso delle
guardie private persino immigrati irregolari nei luoghi del potere a Londra
compreso il ministero degli interni!]. Per legge un agente che assiste a dei
reati commessi da suoi colleghi ha il dovere di comunicarlo alla sua gerarchia
[ma come ben si sa quasi sempre la gerarchia vuole nascondere i reati del
personale per non “sporcare” l’immagine dell’istituzione e in molti casi è
anche complice o coinvolta direttamente in certi reati -vedi Polizie
sicurezza e insicurezze].
Ancora in servizio come poliziotto, Marc F. è
diventato pilota di droni per la questura di Parigi. Al termine dell’indagine
amministrativa, ha avuto solo tre giorni di sospensione in contumacia. Tre dei
suoi colleghi hanno avuto
un biasimo, cioè una sanzione disciplinare ridicola.
Le mie riflessioni sull'abbandono di Biden - Chris Hedges
Joe Biden è stato abbandonato dalla stessa classe di miliardari che ha assiduamente servito per tutta la sua carriera politica. A malapena in grado di inciampare nelle parole di un telepromptor e non sempre consapevole di ciò che accade intorno a lui, i suoi sostenitori miliardari gli hanno staccato la spina. Era la loro creatura - è stato in carica federale per 47 anni - dall'inizio alla fine.
È stato usato come esca per sconfiggere Bernie Sanders nelle primarie del
2020 ed è stato consacrato come candidato nel 2024 in una campagna di primarie
in stile sovietico. La classe miliardaria ora ungerà qualcun altro. Gli
elettori del Partito Democratico sono oggetti di scena in questa farsa
politica. Donald Trump, a differenza di Kamala Harris o di qualsiasi altro
apparatchik che la classe miliardaria sceglie come candidato alla presidenza,
ha una base genuina e impegnata, per quanto fascista.
In Hitler e i tedeschi, il filosofo politico Eric Vogelin respinge l'idea
che Hitler - dotato di oratoria e opportunismo politico, ma poco istruito e
volgare - abbia ipnotizzato e sedotto il popolo tedesco. I tedeschi, scrive,
hanno sostenuto Hitler e le “figure grottesche e marginali” che lo circondavano
perché egli incarnava le patologie di una società malata, afflitta dal collasso
economico e dalla disperazione. Voegelin definisce la stupidità come una
“perdita di realtà”. La perdita della realtà significa che una persona
“stupida” non può “orientare giustamente la sua azione nel mondo in cui vive”.
Il demagogo, che è sempre un idiota, non è un fenomeno da baraccone o una
mutazione sociale. Il demagogo esprime lo zeitgeist -spirito della società.
Biden e il Partito Democratico sono responsabili di questo Zeitgeist. Hanno
orchestrato la deindustrializzazione degli Stati Uniti, facendo in modo che 30
milioni di lavoratori perdessero il posto in licenziamenti di massa. Come
scrivo in America, The Farewell Tour, questo assalto alla classe operaia ha
creato una crisi che ha costretto le élite al potere a ideare un nuovo
paradigma politico. Sbandierato da media compiacenti, questo paradigma ha
spostato l'attenzione dal bene comune alla razza, al crimine, alla legge e
all'ordine. Biden è stato l'epicentro di questo cambiamento di paradigma.
A coloro che stavano subendo profondi cambiamenti economici e politici è
stato detto che la loro sofferenza non derivava dal militarismo dilagante e
dall'avidità delle aziende, ma da una minaccia all'integrità nazionale. Il
vecchio consenso che sosteneva i programmi del New Deal e lo stato sociale è
stato attaccato in quanto permetteva ai giovani neri dediti alla criminalità,
alle “regine del welfare” e ad altri presunti parassiti sociali. Questo ha
aperto le porte a un finto populismo, iniziato da Ronald Reagan e Margaret
Thatcher, che avrebbe dovuto difendere i valori della famiglia, la moralità
tradizionale, l'autonomia individuale, la legge e l'ordine, la fede cristiana e
il ritorno a un passato mitico, almeno per gli americani bianchi. Il Partito
Democratico, soprattutto sotto Bill Clinton e Biden, è diventato in gran parte
indistinguibile dall'establishment del Partito Repubblicano al quale è ora
alleato.
Il Partito Democratico rifiuta di accettare la propria responsabilità per
la conquista delle istituzioni democratiche da parte di un'oligarchia rapace,
per la grottesca disuguaglianza sociale, per la crudeltà delle corporazioni
predatrici e per un militarismo incontrollato. I Democratici ungeranno un altro
politico amorale, probabilmente Harris, da usare come maschera per l'avidità
delle aziende, la follia della guerra infinita, la facilitazione del genocidio
e l'assalto alle nostre libertà civili più elementari. I Democratici, strumenti
di Wall Street, ci hanno dato Trump e i 74 milioni di persone che hanno votato
per lui nel 2020. Sembrano pronti a darci di nuovo Trump. Che Dio ci aiuti.
sabato 27 luglio 2024
Capitalismo, morte e politica - Gian Andrea Franchi
Il dominio del denaro si è affermato con la crisi delle religioni che per secoli hanno offerto alcune risposte all’angoscia per la morte. Ma una società del denaro è necessariamente una società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, l’unico modo di accogliere la morte. Per mettere in discussione quel dominio abbiamo bisogno di una nuova cultura politica, abbiamo bisogno cioè di luoghi nei quali la capacità di muoversi come collettivi che riscoprono l’azione politica si interseca con l’esperienza del singolo che viene riconosciuto come tale. Appunti dalla “Piazza del Mondo” di Trieste, abitata ogni giorno dai migranti della Rotta balcanica.
Tre punti di partenza ineludibili mi sembrano i seguenti: tutte le
rivoluzioni sono fallite; tutti i processi di trasformazione radicale, sono in
crisi, anche nell’ambito di culture non occidentali (anche lo zapatismo, ad
esempio, vive difficoltà e trasformazioni); il capitalismo, con un passo di
morte, ci sta portando verso il disastro sociale e biologico. In questo
scenario ci sono lotte e anche tentativi di alternative, ma non
sembrano in grado di produrre un cambiamento significativo in una
macchina di potere globale nella quale le questioni di egemonia, come tra Stati
Uniti e Cina, rendono ancora più devastanti le dinamiche politico-economiche.
Di certo, la cultura del capitale, nata in Europa fra il XV° e il
XVII° secolo, diffusa ovunque con violenza estrema, ha infranto il nesso vitale
tra riproduzione della vita e produzione degli elementi vitali necessari alla
riproduzione; detto con concetti più pregnanti, il capitale ha spezzato il
nesso fra cura e bisogno. Ha ridotto la cura, indispensabile alla nascita e al
lungo processo di crescita dell’essere umano, al minimo, confinandola nel
genere femminile e facendo della produzione del necessario per i bisogni vitali
un oggetto di compravendita, una merce. Il sorgere e la potente affermazione di
questa dinamica storica hanno rotto il vincolo vitale dei bisogni con l’effetto
di spingerli all’eccesso, moltiplicandone illimitatamente la produzione. Lo
scopo, infatti, non è più la necessaria soddisfazione del bisogno, ma la
produzione tendenzialmente illimitata dello scambio, cioè del valore di scambio,
del denaro.
Questa frattura fra cura (riproduzione) e bisogno (produzione) si manifesta
come una ferita irreparabile all’equilibrio della vita: una ferita mortale.
Il capitalismo ha trasformato il valore d’uso in valore di scambio, ovvero
in qualcosa di quantificabile, che vuol dire di controllabile, anche se
paradossalmente – un paradosso che vorrei chiamare ontologico – è proprio
questo esasperato bisogno di controllo che provoca il suo contrario: la perdita
di ogni controllo, siamo su una nave nel mare in tempesta.
Mi chiedo e chiedo: come mai il valore di scambio è diventato così
importante da costituire lo scopo dominante, se non unico, della civiltà che
negli ultimi secoli si è imposta in tutto il mondo, al punto di mettere a
rischio la vita stessa? La risposta – nella misura in cui è possibile
rispondere a questa domanda – si può cercare nella crisi europea della visione
religiosa della società e della vita, fra XV° e XVII° secolo, in cui è
apparsa e si è sviluppata una variante che ha aperto prima un sentiero poi
un’autostrada in grado di rimuovere il problema fondamentale di tutte le
società, di tutte le culture: la questione della morte.
L’essere umano è il vivente consapevole della morte: questo produce
un’angoscia che deve essere elaborata o rimossa. Le religioni, in senso lato,
servono appunto ad elaborare l’angoscia per la morte, attraverso rituali
in cui gestire il transito dalla vita alla morte mediante l’accoglienza
comunitaria del lascito del defunto.
In questa nuova cultura, che da Marx in poi chiamiamo correntemente
capitalismo, la forma fondamentale dell’organizzazione della società è ciò che,
con nome di origine greca, chiamiamo economia: il nomos dell’oikos (casa o
luogo della vita quotidiana), che invece dovremmo chiamare polinomìa, il nomos
della polis. Questa cultura è caratterizzata dalla tendenza a ridurre i
rapporti sociali a rapporti tenuti insieme da un criterio quantitativo,
misurabile attraverso uno strumento di calcolo: il denaro, per cui il valore e
il potere individuali, e quindi il potere sociale, si misurano essenzialmente
con il possesso o il controllo del denaro diventato la forma fondamentale di
relazione sociale. Il potere della ricchezza è sempre stato notevole,
soprattutto nelle società più grandi e complesse, ma con il capitalismo è
diventato la forma stessa del vivere sociale, non solo: della vita intera,
trasformata in un magazzino di merci.
Una società caratterizzata da una forma valoriale e organizzativa
misurabile quantitativamente è risultata molto efficace proprio per il potere
dell’astrazione nel rimuovere l’angoscia per la morte, eliminando nel contempo
ogni forma rituale. Una società del denaro è necessariamente una
società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, ma la
comunità è l’unico modo di accogliere la morte.
C’è una notissima riflessione storica che può aiutare a comprendere in
Europa il passaggio dalla società precapitalistica, in cui il valore del denaro
era anche molto forte ma non totalizzante, alla società capitalistica. Mi
riferisco a Max Weber che individua la formazione di un’élite capitalistica a
partire dalla cultura calvinista, soprattutto nelle sue varianti anglosassoni,
in cui si elabora “l’adempimento del proprio dovere nelle professioni mondane
come il più alto contenuto che potesse assumere l’attività etica”1, una cultura emigrata anche in nord America. Di
questa cultura, inizialmente propria di una élite di origine borghese, Oliver
Cromwell in Gran Bretagna e Benjamin Franklin in America del nord sono due
figure esemplari: il primo con una terribile violenza coloniale contro gli
irlandesi nella feroce convinzione, su base religiosa, che vadano educati al
lavoro, analoga al “Manifest destiny” che ha guidato culturalmente
l’affermazione degli Stati Uniti; il secondo offrendo l’esempio concreto di una
quotidianità operosa tutta dedita all’onesto guadagno: “ricordati che il tempo
è denaro”, “ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo”, in
cui risulta evidente il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia
nell’operatività quotidiana. I due aspetti sono complementari: la violenza
estrema, giunta fino al genocidio e la serena operosità di ogni giorno e si
sono a lungo appoggiati reciprocamente. Oggi – possiamo dire che il primo è
scomparso a favore del secondo:
“un imprenditore, Elon Musk, CEO di Tesla, ha domandato e ottenuto una
remunerazione annuale di 56 miliardi di dollari. Nel vecchio capitalismo
industriale (ma ancora negli anni Cinquanta) il rapporto tra il salario
dell’operaio e il compenso del padrone era al massimo di 1 a 20. Negli anni 80,
di 1 a 42. Nel 2000, di 1 a 120 e via via aumentando fino all’1:56 miliardi di
dollari di oggi. […] la presidente di Tesla, Robyn Denholm, in una lettera ha
spiegato agli azionisti che lo «stipendio», serve «a mantenere l’attenzione di
Elon e a motivarlo a concentrarsi sul raggiungimento di una crescita
sorprendente per la nostra azienda». Musk «non è un manager tipico» e per
motivarlo «serve qualcosa di diverso»”2.
Un chiaro esempio di come il denaro ha acquistato una valenza insieme
simbolica, di altissimo status sociale, e di potere concreto.
Il denaro si è rivelato come il fondamentale strumento di rimozione
dell’angoscia per la morte nella misura in cui è uno strumento di potere in
grado di diffondersi nelle società attraverso la gestione della soddisfazione
dei bisogni vitali trasformata in produzione in merci: il denaro è
modernamente il diaframma tra il bisogno e la sua soddisfazione. Ciò ha
moltiplicato illimitatamente i bisogni, trasformando il cittadino in individuo
consumatore. Il denaro è penetrato alla radice del carattere
relazionale della soggettività.
Senza denaro siamo nudi in mezzo al deserto, come i migranti che
attraversano il Sahara – e anche in molti vi muoiono.
Con il denaro siamo chiusi in una gabbia dall’estensione illimitata.
Trasformare la vita intera in una produttrice di denaro – cioè di potere
dei pochissimi su tutti, su tutto – sta però avvelenando la vita: la morte
rimossa tracima dal pavimento della cella, delle innumerevoli celle della
terra. Con un paradosso, che ancora mi permetto di chiamare ontologico, la
morte è diventata il mercato più importante: la produzione di strumenti
direttamente o indirettamente legati alla produzione di morte, in tutte le sue
forme, con alto sviluppo tecnologico, come l’Intelligenza Artificiale, di cui
l’esercito di Israele si serve nel genocidio di Gaza.
In tale contesto, con un brusco salto storico ed esistenziale che contiene
un sofferto nesso biografico, è inevitabile la domanda “Che fare?”.
Colloco questa domanda nell’esperienza di vivere su un confine di Stato, di
fronte, quindi, a uno strumento caratteristico di produzione di quella
violenza. Arrivo allora al luogo che chiamiamo “Piazza del Mondo”: la
piazza alberata di fronte alla stazione di Trieste. I migranti in fuga e in
cerca che arrivano dalla Rotta balcanica mi danno – anzi: ci danno perché non
può che accadere in una dimensione collettiva – l’opportunità di produrre un
tentativo di risposta: il loro cammino mi spinge, ci spinge, lungo il
nostro cammino. La piazza del Mondo è un luogo in cui si manifesta il fondo
della soggettività: la ricerca di riconoscimento, sia come disperato bisogno di
autoaffermazione che come ricerca di sé nell’altro. È un luogo, quindi, in cui
traspare la prima matrice del gesto politico, che, nell’azione di massa tende a
confondersi nello slancio emotivo e corporeo della moltitudine, momento
necessario, di entusiasmo e di lotta, ma insufficiente – come dovremmo aver
dolorosamente compreso – se non accompagnato dall’esperienza del singolo.
Il tempo della singolarità e quello della moltitudine tendono a divaricarsi: il primo molto più
lento e complesso del secondo, che vive di slanci. Io credo che sia nata in
questa drammatica divaricazione la crisi dei periodi di azione politica
radicale, come quello a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Ma solo un rapporto tra le due dimensioni temporali può garantire la
continuità, collocando i momenti di massa lungo un cammino.
Nella Piazza del Mondo si agitano molto concretamente, nell’incontro fra
corpi, queste problematiche. I bisogni elementari, necessari, si
intersecano con i bisogni di riconoscimento, il dolore fisico e psichico con la
gioia, l’allegria, la frustrazione, come le lingue molteplici, la diversità di
culture…
1 Max Weber, Etica protestante e spirito del capitalismo,
Sansoni 1965 (1922), p. 145.
2 Maurizio Lazzarato, La “guerra civile” in Francia”, da
Machina rivista on line.
venerdì 26 luglio 2024
I 10 principi per la pace perpetua nel XXI secolo - Jeffrey Sachs
Le strutture basate sulle Nazioni Unite sono fragili e hanno bisogno di un aggiornamento urgente; dovremmo prendere in considerazione questo aspetto al Vertice del futuro delle Nazioni Unite di settembre.
L'anno prossimo ricorrerà il 230° anniversario del celebre saggio di Immanuel Kant sulla “Pace perpetua” (1795), nel quale il grande filosofo tedesco propose una serie di principi guida per raggiungere la pace tra le nazioni del suo tempo. Alle prese con un mondo in conflitto e con il rischio terribile dell'Armageddon nucleare, dovremmo applicare l'approccio kantiano al nostro tempo e proporre una serie di principi aggiornati per la pace perpetua al Vertice Onu del Futuro che si terrà a settembre.
Kant era pienamente consapevole che le sue proposte avrebbero incontrato lo scetticismo dei politici “pratici”:
Il politico pratico assume l'atteggiamento di guardare con grande autocompiacimento al teorico politico come a un pedante le cui idee vuote non minacciano in alcun modo la sicurezza dello Stato, in quanto lo Stato deve procedere su principi empirici; così al teorico è permesso di giocare il suo gioco senza interferenze da parte dello statista che sa come va il mondo.
Tuttavia, come ha notato lo storico Mark Mazower nel suo magistrale resoconto sulla governance globale, quello di Kant è stato un “testo che ha influenzato in modo costante generazioni di pensatori sul governo mondiale fino ai nostri giorni”, contribuendo a gettare le basi per le Nazioni Unite e il diritto internazionale sui diritti umani, la pratica di guerra e il controllo degli armamenti.
Le proposte principali di Kant erano incentrate su tre idee. In primo luogo, il diniego degli eserciti permanenti, che “minacciano incessantemente gli altri Stati con il loro apparire in ogni momento pronti alla guerra”. In questo modo, Kant ha anticipato di un secolo e mezzo il famoso avvertimento del Presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower sui pericoli di un complesso militare-industriale. In secondo luogo, Kant chiedeva di non interferire negli affari interni di altre nazioni. Da questo punto di vista, il filosofo tedesco anticipava la condanna di quelle operazioni segrete che gli Stati Uniti hanno usato senza sosta per rovesciare governi stranieri. In terzo luogo, Kant chiedeva una “federazione di Stati liberi”, che nel nostro tempo è diventata l'ONU, una “federazione” di 193 Stati che si impegnano a operare secondo la Carta delle Nazioni Unite.
Kant riponeva grandi speranze nel repubblicanesimo, in contrapposizione al governo di una sola persona, come freno alla creazione di guerre. Il filosofo Tedesco, infatti, ragionava sul fatto che un singolo governante avrebbe ceduto facilmente alla tentazione della guerra:
... una dichiarazione di guerra è la cosa più facile del mondo da decidere, perché la guerra non richiede al sovrano, che è il proprietario e non un membro dello Stato, il minimo sacrificio dei piaceri della sua tavola, della caccia, delle sue case di campagna, delle sue funzioni di corte e simili. Può quindi decidere di fare la guerra come una festa di piacere per i motivi più banali, e lasciare con perfetta indifferenza la giustificazione che la decenza richiede al corpo diplomatico che è sempre pronto a fornirla.
Al contrario, secondo Kant:
... se per decidere di dichiarare la guerra è necessario il consenso dei cittadini (e in questa costituzione [repubblicana] non può che essere così), non c'è nulla di più naturale che essi siano molto cauti nell'iniziare un gioco così povero, decretando per sé tutte le calamità della guerra.
Kant era troppo ottimista sulla capacità dell'opinione pubblica di limitare la guerra. Sia la repubblica ateniese che quella romana erano notoriamente bellicose. La Gran Bretagna è stata la principale democrazia del XIX secolo, ma forse la potenza più guerrafondaia. Per decenni, gli Stati Uniti si sono impegnati in guerre senza sosta e in rovesciamenti violenti di governi stranieri.
Ci sono almeno tre ragioni per cui Kant si è sbagliato. In primo luogo, anche nelle democrazie, la scelta di scatenare guerre spetta quasi sempre a un piccolo gruppo elitario, di fatto largamente isolato dall'opinione pubblica. In secondo luogo, e altrettanto importante, l'opinione pubblica è relativamente facile da manipolare attraverso la propaganda che riesce a portare le masse a sostenere il conflitto. In terzo luogo, l'opinione pubblica può essere isolata nel breve periodo dagli alti costi della guerra, finanziando la guerra con il debito piuttosto che con le tasse, e affidandosi ad appaltatori, a reclute pagate e mercenari piuttosto che alla coscrizione.
Le idee fondamentali di Kant sulla pace perpetua hanno contribuito a portare il mondo verso il diritto internazionale, i diritti umani e la condotta dignitosa in guerra (come le Convenzioni di Ginevra) nel XX secolo. Tuttavia, nonostante le innovazioni nelle istituzioni globali, il mondo rimane terribilmente lontano dalla pace. Secondo il Doomsday Clock del Bulletin of Atomic Scientists, mancano solo 90 secondi alla mezzanotte: siamo più vicini alla guerra nucleare che in qualsiasi altro momento dall'introduzione dell'orologio nel 1947.
L'apparato globale delle Nazioni Unite e il diritto internazionale hanno probabilmente impedito una terza guerra mondiale fino ad oggi. Il Segretario generale dell'ONU U Thant, ad esempio, ha svolto un ruolo fondamentale nella risoluzione pacifica della crisi dei missili di Cuba del 1962. Tuttavia, le strutture delle Nazioni Unite sono fragili e necessitano, con urgenza, di essere riformate.
A tal fine, invito a formulare e adottare una nuova serie di principi basati su quattro realtà geopolitiche chiave del nostro tempo.
In primo luogo, viviamo con la spada di Damocle nucleare sopra le nostre teste. Il Presidente John F. Kennedy lo disse in modo eloquente 60 anni fa nel suo famoso discorso sulla pace, quando dichiarò:
Parlo di pace a causa del nuovo volto della guerra. La guerra totale non ha senso in un'epoca in cui le grandi potenze possono mantenere grandi forze nucleari relativamente invulnerabili e rifiutarsi di arrendersi senza ricorrere a tali forze. Non ha senso in un'epoca in cui una sola arma nucleare contiene quasi 10 volte la forza esplosiva erogata da tutte le forze aeree alleate nella Seconda guerra mondiale.
In secondo luogo, siamo arrivati a un vero multipolarismo. Per la prima volta dal XIX secolo, l'Asia ha superato l'Occidente in termini di produzione economica. Abbiamo superato da tempo l'era della Guerra Fredda in cui dominavano gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, o il “momento unipolare” rivendicato dagli Stati Uniti dopo la scomparsa dell'Unione Sovietica nel 1991. Oggi gli Stati Uniti sono una delle diverse superpotenze, tra le quali annoveriamo Russia, Cina e India, oltre a diverse potenze regionali (tra cui Iran, Pakistan e Corea del Nord). Gli Stati Uniti e i loro alleati non possono imporre unilateralmente la loro volontà in Ucraina, in Medio Oriente o nella regione indopacifica. Gli Stati Uniti devono imparare a cooperare con le altre potenze.
In terzo luogo, oggi disponiamo di un insieme storicamente senza precedenti di istituzioni internazionali per la formulazione e l'adozione di obiettivi globali (ad esempio, in materia di clima, sviluppo sostenibile e disarmo nucleare), per l'applicazione del diritto internazionale e per l'espressione della volontà della comunità globale (ad esempio, nell'Assemblea generale e nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite). Certo, queste istituzioni internazionali sono ancora deboli quando le grandi potenze scelgono di ignorarle, ma offrono strumenti preziosi per costruire una vera federazione di nazioni nel senso kantiano del termine.
In quarto luogo, il destino dell'umanità è più strettamente interconnesso che mai. I beni pubblici globali - sviluppo sostenibile, disarmo nucleare, protezione della biodiversità della Terra, prevenzione della guerra, prevenzione e controllo delle pandemie - sono molto più centrali per il nostro destino comune che in qualsiasi altro momento della storia umana. Anche in questo caso, possiamo ricorrere alla saggezza di JFK, che vale oggi come allora:
Non siamo ciechi di fronte alle nostre differenze, ma concentriamoci anche sui nostri interessi comuni e sui mezzi con cui queste differenze possono essere risolte. E se non possiamo porre fine alle nostre differenze, almeno possiamo contribuire a rendere il mondo sicuro per la diversità. Perché, in ultima analisi, il nostro legame comune più fondamentale è che tutti noi abitiamo questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali.
Quali principi dovremmo adottare nel nostro tempo per contribuire alla pace perpetua?
Propongo 10 principi per la pace perpetua nel XXI secolo e invito gli altri a rivedere, modificare o creare il proprio elenco.
I primi cinque principi sono i Principi di coesistenza pacifica proposti dalla Cina 70 anni fa e successivamente adottati dai Paesi non allineati. Questi sono:
- Rispetto reciproco dell'integrità territoriale e la sovranità di tutte le nazioni;
- Non aggressione reciproca;
- Non interferenza reciproca di tutte le nazioni negli affari interni di altre nazioni (ad esempio attraverso guerre di scelta, operazioni di cambio di regime o sanzioni unilaterali);
- Uguaglianza e vantaggi reciproci nelle interazioni tra le nazioni.
- Coesistenza pacifica di tutte le nazioni.
Per attuare questi cinque principi fondamentali, ne raccomando altri cinque che richiedono azioni specifiche:
- La chiusura delle basi militari all'estero, di cui gli Stati Uniti e il Regno Unito ne hanno di gran lunga il maggior numero.
- La fine delle operazioni segrete di cambio di regime e delle misure economiche coercitive unilaterali, che sono gravi violazioni del principio di non interferenza negli affari interni di altre nazioni. (La politologa Lindsey O'Rourke ha documentato attentamente 64 operazioni segrete di cambio di regime da parte degli Stati Uniti nel periodo 1947-1969 e la pervasiva destabilizzazione causata da tali operazioni).
- Adesione di tutte le potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) all'articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare: “Tutte le Parti devono perseguire negoziati in buona fede su misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari e al disarmo nucleare, e su un trattato sul disarmo generale e completo sotto un rigoroso ed efficace controllo internazionale”.
- L'impegno di tutti i Paesi “a non rafforzare la propria sicurezza a scapito della sicurezza di altri Paesi” (come da Carta dell'OSCE). Gli Stati non stringeranno alleanze militari che minaccino i loro vicini e si impegneranno a risolvere le controversie attraverso negoziati pacifici e accordi di sicurezza sostenuti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
- L'impegno di tutte le nazioni a cooperare nella protezione dei beni comuni globali e nella fornitura di beni pubblici globali, compreso l'adempimento dell'accordo di Parigi sul clima, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile e la riforma delle istituzioni delle Nazioni Unite.
Gli attuali scontri tra grandi potenze, in particolare i conflitti degli Stati Uniti con la Russia, la Cina, l'Iran e la Corea del Nord, sono in gran parte dovuti al continuo perseguimento dell'unipolarismo da parte dell'America attraverso operazioni di cambio di regime, guerre di scelta, sanzioni coercitive unilaterali e la rete globale di basi e alleanze militari statunitensi. I 10 principi sopra elencati contribuirebbero a portare il mondo verso un multilateralismo pacifico governato dalla Carta delle Nazioni Unite e dallo Stato di diritto internazionale.
(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
Fonte: https://www.commondreams.org/opinion/10-principles-peace-21st-century