mercoledì 31 luglio 2024

I DIPENDENTI PUBBLICI SONO BESTIE - DANILO TOSARELLI

 Quando sei giovane, neppure ti sfiora il pensiero. E' sempre stato così. 

Quando lo sei un po' meno, la vedi ancora lontana, ma inizi a farci un pensierino.
Ma poi con il trascorrere degli anni, pensione e liquidazione diventano importanti.

Tratterò una questione che riguarda i dipendenti pubblici, ma non trascuriamola.
Il dipendente privato, ha sempre preso prima la sua liquidazione. Non è normale?
Dopo 45/60 giorni dalla fine del suo lavoro. Indiscutibili e sacrosanti. Sono soldi suoi. 

Perché allora non è così anche per il dipendente pubblico? Domanda persino banale.
Chiariamo. TFR per chi è stato assunto prima del 31/12/2000.
Si chiama TFS per chi è stato assunto successivamente. Ma la minestra è quella.
Non abbiate dubbi. Sempre di liquidazione stiamo parlando. Riguarda tutti.

Vai in pensione a 67 anni? Ti pagano la liquidazione dopo 12/24 mesi.
Se vai in pensione prima dei 67 anni, i tempi si allungano. Dai 36 mesi in su.
Il dipendente pubblico deve attendere queste tempistiche. Piaccia o no.

È il governo Prodi del 1997 ad aver preso questa decisione. Che vergogna.
Bisognava aiutare il Bilancio dello Stato. Ecco allora la scelta scellerata di stringere.
Prorogare nel tempo, la liquidazione dei dipendenti pubblici. Ma siamo davvero bestie?
Con il trascorrere degli anni, i tempi si sono allungati sempre più. Ma chi se ne frega.

Poi finalmente, dopo tanti anni di attesa, è intervenuta la Corte Costituzionale.
Sentenza numero 130 del 23/6/2023. L'organismo più autorevole che abbia lo Stato.
Basta differenze di trattamento tra lavoratore privato e pubblico. Stessi diritti. 
Liquidazione da fine lavoro? Deve essere erogata identica, come per i lavoratori privati.

La sentenza della Corte Costituzionale è stata dirompente. Finalmente un pò di giustizia.
Riguarda almeno 2 milioni di lavoratori pubblici che sono in attesa di liquidazione.
Quella data è rimasta scolpita nella mente di milioni di italiani. Adesso dovranno pagare.
Ma qualcuno già mise le mani avanti. Troppi soldi da sborsare e i soldi lo Stato non li ha.

Abbiamo atteso con speranza che questa sentenza diventasse realtà. Vedrai che arriverà.
Evidentemente, in questi 13 mesi di attesa Governo e Parlamento non hanno avuto tempo.
Ma adesso, il Ministero dell'Economia e delle Finanze hanno preso una decisione importante.
Finalmente, penserete voi. Ci daranno il dovuto, perchè la Corte Costituzionale ha deciso.

E invece no. La Ragioneria generale dello Stato ha espresso parere contrario al provvedimento.
Il 20 marzo 2024 la relazione tecnica predisposta dall'INPS, certifica l'impossibilità a farvi fronte.
Occorrerebbero 3,8 miliardi di euro solo nel 2024 per la copertura dell'onere in oggetto. Negativo.
Lo Stato in questo momento ha bisogno di quei soldi. I lavoratori pubblici dovranno attendere ancora.

Vi voglio però dire, che i lavoratori pubblici non verranno abbandonati. Il Ministro Giorgetti pensa a noi.
E' stato stilato un accordo quadro tra i Ministeri di Economia, Lavoro e Funzione Pubblica e l'ABI.
L'accordo può essere rinnovato ogni 2 anni e l'Associazione delle Banche Italiane lo ha sottoscritto.
Il lavoratore potrà continuare a chiedere alle banche l'anticipo della propria liquidazione. Ip Ip Urrà...

Finalmente. I soldi non me li dà lo Stato ( vorrebbe, ma non può!), ma me li anticipa la Banca. Va bene..
Lo Stato non abbandona i suoi lavoratori. Se li è tenuti cari per tutta la vita e sente il dovere di sdebitarsi..
Perchè non vedere il bicchiere mezzo pieno? Possibile che si debba sempre pensare male? Ci voglio credere.
Dimenticavo però un particolare. Non vorrei deludervi. Le banche applicheranno un tasso di interesse del 4,1%.

Ho scelto di mantenere un tono scanzonato, per evitare che a qualcuno salga la pressione, ma c'è da incazzarsi.
Giova precisare, che la liquidazione maturata dal lavoratore non è soggetta ad adeguamento. E l'inflazione?
L'inflazione è per lo Stato un optional che non riguarda il lavoratore. Riguarda solo i mercati e le banche. E noi?
Per noi non aumenta il costo della vita. La mia liquidazione fra 3 anni non varrà allo stesso modo... Eppure è così.

Ci ha condannato il prode tortellino Prodi nel 1997, continua a non considerarci neppure il Governo Meloni.
Va riconosciuto con amarezza, che neppure le sentenze della Corte Costituzionale hanno più un valore. E' grave.
Se questo è lo stato delle nostre Istituzioni, davvero voglio esprimere tutta la mia sincera preoccupazione.

I dipendenti pubblici stanno subendo da quasi 30 anni una discriminazione inaccettabile. Quanti di voi lo sanno?     
Politici e media preferiscono tralasciare. L'argomento evidentemente non fa notizia. Siamo o no un paese civile? 
Con quale entusiasmo e quali motivazioni un dipendente pubblico dovrebbe aver voglia di continuare a lavorare?
Davvero qualcuno pensa, che I dipendenti pubblici siano bestie da maltrattare? 


martedì 30 luglio 2024

Spiagge, fuori luogo parlare di ‘concessione dei servizi balneari’: il popolo ne è il proprietario – Paolo Maddalena

 

 

La politica insensata dei nostri governanti che, a partire dal 1990 in poi, si è accanita nel distruggere il nostro invidiabile patrimonio industriale con le micidiali e incostituzionali privatizzazioni si sta ancor più evidenziando nel non saper trovare una soluzione per evitare che le cosiddette concessioni balneari scadute siano poste “a gara europea”, come richiesto dall’Ue e come dichiarato da talune nostre decisioni giurisprudenziali; in modo che, anche in questo settore, i “profitti” vadano agli stranieri e a noi resti qualche lavoro precario o molto malpagato.

Si tratta di un vistoso equivoco, dovuto al fatto che i nostri governanti continuano a ragionare come se le spiagge fossero proprietà della Pubblica Amministrazione e che per renderle in uso pubblico fosse necessario far ricorso all’istituto della concessione di servizi, senza tener conto che la nostra Costituzione, all’articolo 42, sancisce che “la proprietà è pubblica o privata”, dovendosi intendere come “proprietà pubblica”, ma, come immediatamente osservò il grande amministrativista Massimo Severo Giannini, la “proprietà collettiva demaniale” del popolo. Sicché deve inequivocabilmente ritenersi che non è più lo Stato amministrazione, il quale, con un atto di concessione a privati, attrezza e destìna a uso pubblico le spiagge, ma che queste di per sé sono già in uso pubblico, in quanto oggetto di detta “proprietà collettiva demaniale”.

In altri termini, continuare a parlare di “concessione dei servizi balneari” è fuori luogo, specialmente se si pensa che, secondo la giurisprudenza amministrativa (sentenza del Consiglio di Stato n. 3910 del 4 maggio 2020), la “concessione di un servizio pubblico” implica che il concessionario, avendo pattuito una remunerazione con l’Amministrazione pubblica, assuma su di sé il rischio imprenditoriale legato all’esecuzione dei servizi di cui si tratta. Nel caso di specie non c’è alcun rischio da affrontare e quello che serve è semplicemente una attività che consista nella pulitura della spiaggia, nella fornitura di sedie a sdraio e ombrelloni, nell’allestimento di uno spogliatoio amovibile, nella costituzione di un punto di ristoro, nella sorveglianza dei bagnini e così via dicendo. Si tratta di attività che evidentemente possono essere consentite a privati, mediante i più vari tipi di contratti, con i quali, in pratica, si autorizzano le predette attività. In sostanza, l’unico tipo di spiaggia consentito dalla Costituzione è la “spiaggia libera attrezzata”, per il cui accesso non occorre pagare un biglietto, mentre poi ci si può servire di varie comodità nel modo che ho appena esposto.

In questo quadro è semplicemente impensabile che una legge promossa dal governo Meloni abbia addirittura riconosciuto al “concessionario” il diritto a una indennità di esproprio per le costruzioni effettuate sulla spiaggia e lasciate allo Stato, al termine della concessione, secondo quanto dispone l’art. 49 del codice della navigazione. La questione è stata rimessa dal Consiglio di Stato alla Corte di giustizia europea, la quale, giustamente, ha risposto che l’attuazione o la non attuazione dell’articolo 49 del nostro codice della navigazione non incide sul diritto europeo. E allora qualcuno, con una nuova proposta di legge, ha pensato di risolvere il problema abrogando l’articolo 49 del Codice della navigazione, senza tener presente che le costruzioni su suolo altrui appartengono per “accessione” al proprietario del suolo (nel caso il proprietario della spiaggia, cioè il popolo).

Se i nostri governanti conoscessero e facessero valere la Costituzione, certamente non sarebbe stato possibile neppure pensare di mettere “a gara europea” le concessioni scadute riguardanti le nostre spiagge.

da qui

Se sei povero… Lettera aperta - Giovanni Scavazza

Abbiamo ricevuto una lettera scritta a mano con una calligrafia elegante e una sintassi impeccabile, dove ogni parola è stata scelta con cura. Quando si ragiona di poveri, il rischio di essere astratti o di diventare, per dirla con Galeano, poverologi, gli esperti che parlano per loro, ci raccontano che non lavorano, che mangiano poco o male, quello che non hanno, quello a cui non pensano, è altissimo. E spesso accompagnato da ipocrisia. Questa lettera, con tutto la sua asprezza, costringe a pensare. “Se sei povero sai cos’è veramente la povertà… La povertà vera non è nulla di commovente… Vi parlo di povertà perché sono povero… La povertà è denti rotti e mancanti (a me ne mancano 16), cure negate…, il lasciar scorrere su di te la prepotenza del sistema. La povertà è alienazione, esclusione… a tratti follia e disperazione… I poveri nessuno li ascolta davvero… Non parlate di povertà, non irridete con la vostra patetica e distratta attenzione qualcosa di cui non avete intenzione di scrutare la profondità…”

 

Se sei povero sai cos’è veramente la povertà. La dimostrazione di questo assioma è quotidiana nell’egoismo diffuso del materialismo consumista, nell’insensibilità incosciente di chi non ascolta o accoglie con fastidio le dimostrazioni pratiche della povertà.

La povertà vera non è nulla di commovente, nulla che sia facile o piacevole da descrivere. Fra le sue pieghe si può certamente trovare spiritualità e saggezza (io l’ho trovata) ma occorre essere predisposti, sin da prima che essa di occupi di te, perché quando lo fa, si prende tutto: casa, possedimenti materiali, salute, orgoglio, dignità, e riconquistarli ha il prezzo della tua stessa vita.

Vi parlo di povertà perché sono povero ed io la capisco. La povertà è denti rotti e mancanti (a me ne mancano 16), cure negate, malattie endemiche trascurate e lasciate correre. La povertà è essere indifesi di fronte all’abuso, il dover di chiedere quel che si sa verrà probabilmente negato, il lasciar scorrere su di te la prepotenza del sistema. La povertà è alienazione, esclusione… a tratti follia e disperazione, è un lungo cunicolo senza uscita…, un tunnel dove la speranza muore e si azzera, dove le prospettive divengono piatte e inutili, dove il futuro s’annulla e diventa paura.

La povertà quindi non è nulla di poetico e il trovare poesia deriva dalla compassione che hai già, non quella che troverai intorno a te, perché nessuno realmente te ne darà se non formalmente… per il semplice fatto che non capiscono, non sanno davvero con che cosa hanno a che fare. Non lo sanno i politici, non lo sanno gli ecclesiastici, non lo sanno i finti santoni, non lo sanno gli sbirri, non lo sanno i giudici, non lo sanno i pietosi, pelosi, perbenisti, non lo sanno i caritatevoli piccolo borghesi annoiati buonisti, ne sanno poco e poco ne comprendono persino gli addetti ai lavori. Solo i poveri capiscono realmente la povertà, perché bisogna provarla per sapere davvero cosa sia, come essa divori morale, etica, dignità, come essa azzeri e annulli tutte le chiacchiere inutili fatte intorno a lei.

I poveri nessuno li ascolta davvero, fingono i più, i compassionevoli sono pochi, pochissimi, quelli che capiscono ancora meno, perché un povero non è credibile, non potrebbe mai essere un intelligente, un saggio, uno scrittore vero, un poeta o un artista, figlio d’arte come me.

La povertà è legata alla filosofia corrente, all’ignoranza, alla stoltezza, all’alienazione, ed oggi più che mai essa viene vissuta e descritta dai più come una forma di colposa e degenerante autoesclusione, quasi fosse scelta cosciente.

Non parlate di povertà se non sapete, non irridete con la vostra patetica e distratta attenzione qualcosa di cui non avete intenzione di scrutare la profondità…, che non vi interessa, che vi spaventa, che rappresenta un peso inutile nel vostro risiko delle strategie.

[prof. Giovanni Scavazza]

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lunedì 29 luglio 2024

I nuovi Potlach: il vicolo cieco dell’Occidente

 

L’Occidente a guida americana ha un interesse, inconfessabile ma imperativo, a creare in modo crescente ferite sistemiche, in modo che le forze produttive siano chiamate a lavorare a pieno ritmo e i margini di profitto si vitalizzino.

La parabola dell’Occidente e i nuovi Potlatch

Nel quadro politico internazionale che caratterizza questa fase storica c’è un fattore che trovo estremamente preoccupante. Si tratta della combinazione, nel mondo Occidentale, di un fattore strutturale e un fattore culturale. Provo a tratteggiarne in modo volutamente schematico gli aspetti di fondo.

Il retroterra strutturale

L’Occidente ha notoriamente acquisito una posizione globalmente egemonica negli ultimi tre secoli. Lo ha fatto in grazia di alcune innovazioni (europee) che gli hanno permesso di incrementare in modo decisivo la produzione industriale e la tecnologia militare.

Nel corso dell’800 l’Occidente ha imposto le proprie leggi, o i propri contratti, sostanzialmente a tutto il mondo. Alcune parti del mondo come il Nord-America e l’Oceania hanno cambiato radicalmente configurazione etnica, divenendo insediamenti stabili di popolazioni di origine europea.

Imperi asiatici millenari si sono trovato in condizione di protettorato, colonia o comunque di sottomissione. L’Africa è diventata un cespite cui attingere liberamente forza lavoro e materie prime.

Tutto ciò è avvenuto alla luce di un modello economico che aveva strutturalmente bisogno di crescere costantemente per mantenere la propria funzionalità, inclusa la pace interna. La dinamicità espansiva occidentale è stata spinta in modo decisivo dal fatto che il sistema aveva bisogno di margini costanti di profitto e le imprese estere garantivano cospicui ritorni (rendendole perciò robustamente finanziabili).

Questo processo è continuato tra alti e bassi fino all’inizio del XXI secolo. Più o meno con la crisi subprime (2007-2008) si segnala una difficoltà rilevante nel mantenere il dominio su un sistema-mondo demograficamente, politicamente, culturalmente troppo vasto.

Il sistema di sviluppo occidentale, ampiamente basato sulla libera iniziativa decentrata, nella sua ricerca di margini di profitto ha commesso alcuni errori imperdonabili per un potere imperiale, quale ne frattempo era divenuto (prima come impero britannico, poi come impero americano).

Siccome la sfera finanziaria presenta maggiori margini di profitto rispetto alla sfera industriale si è assistito in Occidente ad uno spostamento costante delle manifatture in paesi remoti con salari bassi. Mentre quest’operazione è riuscita in alcuni paesi con un’organizzazione interna fragile, che sono stati e rimangono dei semplici produttori sussidiari, politicamente subordinati a potenze occidentali, questo non è riuscito in alcuni paesi che offrivano per ragioni culturali maggiore resistenza, Cina in testa.

L’emergere di alcuni contropoteri nel mondo è oramai un dato storico incontrovertibile e inemendabile. Un Occidente che ha giocato per anni tutte le sue carte sul predominio finanziario e tecnologico si ritrova sfidato da contropoteri capaci di opporre efficace resistenza sia sul piano economico che militare.

In questo senso la guerra russo-ucraina, con gli errori fatali commessi dall’Occidente, rappresenta un momento di passaggio storico: aver spinto Russia e Cina ad un’alleanza obbligata ha creato l’unico polo mondiale realmente invincibile anche per l’Occidente unificato.

Gli USA erano così preoccupati di interrompere una possibile proficua collaborazione tra Europa (Germania in particolare) e Russia che hanno trascurato una collaborazione molto più potente e decisiva, quella tra Russia e Cina appunto.

Ma cosa accade nel momento in cui un Occidente a guida americana si trova di fronte ad un contropotere insuperabile? Molto semplicemente il modello – sperimentato nell’ultima fase sotto il nome di “globalizzazione” – basato sull’aspettativa di un’espansione incontrastata e di margini continuamente dilatabili di profitto si arresta bruscamente.

Le catene di fornitura appaiono sovraestese e incontrollabili, nel momento in cui gli USA non sono più l’unico pistolero del paese. Si profila l’incubo sistemico del modello liberal-capitalistico: la perdita di un orizzonte di espansione. Senza prospettive di espansione l’intero sistema, a partire dalla sfera finanziaria, entra in una crisi senza sbocchi.

Il retroterra culturale

Ed è qui che subentra il secondo protagonista dello scenario corrente, ovvero il fattore culturale. La cultura elaborata negli ultimi tre secoli in Occidente è qualcosa di assai caratteristico. Si tratta di un approccio culturale universalistico, astorico, naturalistico, che – anche grazie ai successi ottenuti sul piano tecnoscientifico – ha finito per autointerpretarsi come Ultima Verità, sul piano epistemico, politico ed esistenziale.

La cultura occidentale, che ha conquistato il mondo non per le capacità persuasive delle proprie virtù morali, ma per quelle dei propri obici, ha però immaginato che una cultura capace di costruire obici così efficienti non poteva che essere intrinsecamente Vera.

L’universalismo naturalistico ci ha disabituato a valutare le differenze storiche e culturali, assumendone il carattere contingente, di mero pregiudizio che verrà superato.

Quest’impostazione culturale ha creato un danno devastante, che ha coinciso in Europa con la galoppante americanizzazione delle proprie grandi tradizioni: l’Occidente, divenuto il sistema di vassallaggio del potere americano, appare oggi culturalmente del tutto incapace di comprendere il proprio carattere di determinazione storica, non serenamente universalizzabile.

L’Occidente, pensandosi come incarnazione del Vero (la Liberaldemocrazia, i Diritti Umani, la Scienza) non ha dunque gli strumenti culturali per pensare che un altro mondo (e anzi più d’uno) sia possibile.

 Il vicolo cieco della storia occidentale

Ecco, se ora uniamo i due fattori, strutturale e culturale, che abbiamo menzionato ci ritroviamo con il seguente quadro: l’Occidente a guida americana non può mantenere il proprio statuto di potere, garantito dalla prospettiva dell’espansione illimitata, e d’altro canto non può neppure immaginare alcun modello alternativo, in quanto si concepisce come l’Ultima Verità. Quest’aporia produce uno scenario epocale tragico.

L’Occidente a guida americana non è in grado di riconoscere alcun “Piano B”, e d’altro canto comprende che il “Piano A” è reso fisicamente impercorribile dall’esistenza di contropoteri innegabili. Questa situazione produce un’unica pervicace tendenza, quella a lavorare affinché quei contropoteri internazionali vengano meno.

Detto in termini semplificati: gli USA non hanno alcuna prospettiva diversa in campo da quella di ricondurre in una condizione subordinata – come fu in passato – i contropoteri euroasiatici (Russia, Cina, Iran-Persia; l’India è già sostanzialmente sotto controllo). Ma questa sottomissione oggi non può che passare attraverso un conflitto, o una guerra aperta o una sommatoria di guerre ibride volte a destabilizzare il “nemico”.

Ma, a questo punto, la situazione è resa particolarmente drammatica da un altro fattore strutturale. Per quanto gli USA sappiano di non poter affrontare una guerra aperta senza esclusione di colpi (nucleare), hanno un fortissimo incentivo a che la guerra non si mantenga sul piano ibrido “a basso voltaggio”.

Questo per la ragione strutturale vista in precedenza: c’è bisogno di una prospettiva di incremento produttivo.

Ma come si può garantire una prospettiva di incremento produttivo in una condizione in cui l’espansione fisica non è più possibile (o è troppo incerta)? La riposta purtroppo è semplice: una prospettiva di incremento produttivo sotto queste condizioni può essere garantita solo se simultaneamente vengono create delle fornaci dove poter bruciare costantemente quanto prodotto.

C’è la necessità sistemica di inventarsi dei colossali, e sanguinosi, Potlatch, che diversamente dai Potlatch dei nativi americani, non devono distruggere solo oggetti materiali, ma anche esseri umani.

In altri termini, l’Occidente a guida americana ha un interesse, inconfessabile ma imperativo, a creare in modo crescente ferite sistemiche da cui far defluire il sangue, in modo che le forze produttive siano chiamate a lavorare a pieno ritmo e i margini di profitto si vitalizzino.

E quali forme possono prendere queste ferite che distruggono ciclicamente, e in modo poderoso, le risorse? Di primo acchito direi che ne vengono in mente due: guerre e pandemie.

Solo un nuovo orizzonte di sacrifici umani può consentire alla Verità Ultima dell’Occidente di rimanere in piedi, di continuare ad essere creduta e venerata.

E se nulla cambia nella consapevolezza diffusa delle popolazioni europee – i principali perdenti di questo gioco – credo che queste due carte distruttive saranno giocate senza scrupoli, reiteratamente.

da qui

L’antisemitismo di Israele verso i Palestinesi - Lucio Garofalo

 

 

Chiunque abbia difeso finora il governo di Israele, si arrampica sugli specchi in modo goffo e maldestro per avallare le assurde “ragioni” di uno Stato rivelatosi terrorista e criminale. Ma è impensabile, oltre che immorale, avallare una linea strategica priva di qualunque fondamento razionale, per cui rischia di ritorcersi contro chi la sostiene.

 

Nessuno che davvero conti all’interno della “comunità internazionale” ha osato condannare gli atti di terrorismo di Stato commessi da Israele contro popolazioni inermi come quelle presenti nella striscia di Gaza. Nemmeno l’attuale pontefice ha assunto una posizione di netta esecrazione morale e politica nei riguardi dell’aggressiva e spregiudicata politica israeliana che si è spinta davvero oltre ogni limite accettabile.

 Quando si parla di “antisemitismo” ci si riferisce ovviamente all’antisemitismo storico, convenzionalmente inteso, cioè al classico razzismo contro gli Ebrei, vittime dell’Olocausto nazista. Ma esiste anche un antisemitismo commesso contro il popolo palestinese, anch’esso appartenente alla stirpe “semitica”, anch’esso vittima di una politica di persecuzione e di aggressione imperialista, di atti ostili e terroristici, di cui si conoscono i responsabili. Il peggior “antisemitismo”, non semplicemente ideologico, ma brutalmente politico e militare, è quello messo in pratica da coloro che rappresentano i veri assassini e terroristi, vale a dire il regime sionista di Israele e i suoi soci anglo-americani. Altrimenti, come si potrebbe definire la politica di persecuzione e sterminio portata avanti dallo Stato di Israele con l’appoggio, più o meno tacito, degli USA e delle altre nazioni occidentali, contro popolazioni inermi che vivono confinate nella striscia di Gaza?

Occorre ricordare alcune cifre impressionanti che indicano lo stato di grave miseria e disperazione in cui versa la popolazione palestinese di Gaza. Secondo i dati ufficiali forniti dalla Banca Mondiale, oltre il 40% dei bambini della Striscia di Gaza soffre di fame e di malnutrizione, oltre il 70% degli abitanti giace sotto la soglia della povertà, sopravvivendo a stento con meno di 2 dollari al giorno. Tali condizioni di vita intollerabili sono la conseguenza diretta di un embargo economico disumano imposto da Israele contro la gente di Gaza.

L’Occidente ha sempre decantato le virtù liberatorie della propria democrazia, ma quando un popolo sceglie di autodeterminarsi, com’è accaduto anche nel caso dei Palestinesi, e l’esito elettorale non è gradito alle potenze occidentali, queste intraprendono immediatamente una serie di manovre tese a vanificare qualsiasi fondamento di legalità. Non a caso, dopo le elezioni legislative palestinesi vinte nel gennaio del 2006 da Hamas, la comunità internazionale impose un ignobile embargo al fine di ricattare i Palestinesi e costringerli a pentirsi di aver votato per Hamas.

La vittoria elettorale di Hamas venne ostacolata fin dall’inizio dai paladini della tanto osannata “democrazia”, gli USA. I quali ostentano una presunta superiorità di ordine morale nell’ambito dei diritti e delle libertà democratiche, che non corrisponde nemmeno lontanamente alla realtà dei fatti. Basti pensare solo che la pena capitale, vigente in vari Stati della Confederazione USA, è un “nobile” esempio della civiltà giuridica e politica statunitense, per cui gli USA presumono di avere le carte in regola per “esportare la propria democrazia” nel mondo. A riguardo gli islamisti non hanno torto quando accusano la cosiddetta “democrazia occidentale” di essere una “foglia di fico” usata allo scopo di occultare la natura feroce e sanguinaria ed i crimini dell’imperialismo made in USA. D’altronde, gli stessi concetti sono formulati dai teorici marxisti, sia pure in termini differenti, in chiave comunista, cioè su una base ideologica e un’impostazione ateistica e storico-materialista. In particolare, Lenin e Rosa Luxemburg definirono la democrazia parlamentare come un “involucro” dentro cui si annida la violenza della dittatura di classe della borghesia imperialistica.

La logica manichea che oppone la “democrazia” liberale borghese alla “teocrazia” islamistica è l’ennesima trappola propagandistica ed ideologica escogitata dalle potenze imperialiste per mistificare la realtà ed ingannare l’opinione pubblica internazionale, distraendola dai problemi e dalle emergenze reali e, in questo caso, dalle contraddizioni presenti in Medio Oriente o in altre aree geo-strategiche del pianeta. Non c’è dubbio che Hamas rappresenti un’organizzazione culturalmente retrograda e politicamente retriva ed islamico-fascista.

Ma è altrettanto ineccepibile che la politica praticata dal governo israeliano nei riguardi delle popolazioni palestinesi di Gaza sia oggettivamente crudele ed aggressiva, criminale e terroristica. A questo punto sorge spontanea la seguente domanda: ma i Palestinesi, come le altre popolazioni arabe, sono o no di origine “semitica”, come gli Ebrei? Secondo l’antica narrazione biblica, il genere umano sarebbe suddivisibile in tre filoni o in tre macro-gruppi etnici, discendenti dai tre figli del patriarca Noè: Sem, da cui discenderebbero i popoli “semiti”, come gli Ebrei e gli Arabi; Cam, da cui deriverebbero i popoli “camiti”, quali Egiziani ed altri popoli africani; infine, Ar, da cui avrebbero avuto origine i popoli di stirpe “ariana”, altrimenti noti come “indoeuropei”, incluse le popolazioni italiche e via discorrendo.

Quanto finora affermato, sarebbe accreditato dalla stessa tradizione biblica. Da questo punto di vista, ciò che comunemente si tende ad identificare come “antisemitismo”, ovverosia il razzismo e la persecuzione contro gli Ebrei, dovrebbe ricevere un’estensione semantica, oltre che storico-politica, nel senso che dovrebbe includere gli atti di ostilità e di terrorismo perpetrati dal regime di Israele, con la complicità dei governi anglo-americani, ai danni di un altro popolo di stirpe “semitica”, vale a dire il popolo palestinese. I principali responsabili di questa nuova versione dell’antisemitismo sono il governo israeliano, cioè il sionismo internazionale e i suoi tradizionali alleati anglo-americani. In effetti, temo che il nuovo “antisemitismo” consista proprio nella politica di sterminio, pulizia etnica e persecuzione terroristica condotta da Israele e dall’intero establishment sionista, che fa capo alle potenti lobbies ebraiche statunitensi, nonché al Mossad, i servizi segreti israeliani, a discapito di un altro popolo di origine “semitica”: i Palestinesi confinati all’interno di un enorme lager cinto da un gigantesco muro, che è la Striscia di Gaza.

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domenica 28 luglio 2024

Uno straordinario esempio di giornalismo d’inchiesta contro abusi e brutalità poliziesche - Camille Polloni

 

Un giornalista si è infiltrato nella polizia francese, descrivendone la violenza, il razzismo quasi quotidiano di alcuni agenti di polizia e l’assurdità delle missioni rispondenti alla politica dei numeri.

(traduzione a cura di Salvatore Turi Palidda)

 

Il giornalista Valentin Gendrot ha spinto l’inchiesta giornalistica sino all’infiltrazione nei ranghi della polizia realizzando quindi un’etnografia esemplare perché efficace anche dal punto di vista militante antirazzista e antifascista. Tutta la sua lunga, paziente, penosa e molto pesante esperienza l’ha raccontata nel suo libro Flic pubblicato quattro anni fa e che ora è diventato anche prova giudiziaria nel processo che la Procura di Parigi ha intentato contro un poliziotto. Ma come vedremo la procura non va molto oltre l’attitudine dell’ispezione interna dell’IGPN che da sempre tende a confermare la garanzia di impunità accordata a quasi tutti gli operatori delle polizie come avviene in Italia.

Per questa inchiesta giornalistica di tipo etnografico Gendrot ha quindi scelto di farsi reclutare come “assistente di sicurezza” (il primo stadio per entrare nella polizia francese come poliziotto semplice).

Già al corso di formazione scopre che il suo vicino di branda è un giovane cattolico praticante che da tempo è collezionista di oggetti che glorificano il Terzo Reich come un busto di Hitler e si scopre anche che il collega Mick chiama gli arabi reietti o “monnezza araba” [e dice] che li “rimanderebbe indietro i migranti con appositi charter”. Finita la formazione percepisce uno stipendio di 1.340 euro al mese ed è assegnato all’infermeria psichiatrica della questura di Parigi (I3P). In questo servizio situato in una dependance dell’ospedale Sainte-Anne, la questura trattiene in arresto, per un massimo di 48 ore, persone affette da disturbi comportamentali e che rappresentano un “pericolo imminente per la sicurezza delle persone”. Sebbene abbiano diritto a un avvocato, Valentin racconta che non ne vede nessuno durante i suoi quindici mesi di presenza. “Sono dimenticati dagli dei e dagli uomini”, gli disse un giorno un’infermiera. Persone in crisi, tossicodipendenti, senzatetto, migranti.”

Il 9 marzo 2019, Valentin è infine trasferito alla stazione di polizia del 19° arrondissement. Questo è l’incarico che auspicava di più perché centrale per la sua inchiesta: “Era ciò che volevo ottenere e mi ero prefissato: sei mesi di immersione in questo luogo”. Lì scopre gli arresti di venditori ambulanti, le “operazioni meschine e vigliacche” che permettono di “gonfiare artificialmente le statistiche” e il razzismo quasi quotidiano di alcuni agenti di polizia contro quelli che chiamano “bastardi”, cioè ragazzi per lo più neri o arabi”. “Nella mia stazione di polizia si sentono ogni giorno parole razziste, omofobe e maciste. Sono tollerate o ignorate dagli altri.” Lì vede agenti di polizia “sbattere un migrante nero contro la pensilina dell’autobus e poi nel furgone della polizia, picchiare un altro marocchino […] schiaffeggiare diverse persone in custodia, sempre arabe o nere.” “Andiamo a caccia!” “Sangue chiama sangue”, sente dire dai suoi colleghi che “daranno la caccia ai bastardi”. [L’espressione “caccia al negro” era usata da alcuni agenti della polizia locale di Bologna già alla fine degli anni ’90 e anche da altri agenti di altre polizie locali e nazionali -vedi Polizia postmoderna e Polizie sicurezza e insicurezze].

Un giorno è costretto a redigere una falsa denuncia per insabbiare il caso di un suo collega che aveva preso a pugni un giovane. “Dal punto di vista giornalistico è oro. Ho elementi dalla A alla Z. Ma come cittadino ovviamente non posso accettarlo. So che scrivendo questo libro posso denunciare i fatti e posso anche convincere altri a farlo. Il falso in atti pubblici è punito con quindici anni di carcere, è peggio che colpire un minorenne. Tornerò ovviamente sulla mia testimonianza riguardo a questo minore”. L’immersione di Gendrot gli permette quindi di raccogliere prove del razzismo sistemico e della violenza impunita da parte della polizia. “Nel giro di sei mesi mi sono reso conto che il mio livello di umanità ed empatia era diminuito. Come se questo lavoro mi vaccinasse contro la sensibilità”.

Quattro anni dopo la pubblicazione del suo libro Flic la Procura ha aperto il processo contro un poliziotto per abusi e violenze.

Nella requisitoria definitiva del 10 luglio 2024, consultato da Médiapart, la procura del tribunale di Parigi chiede che solo un poliziotto sia inquisito per tale vicenda. Questi contesta l’accusa e il suo avocato non ha ancora reagito. La vicenda si svolse il 12 aprile 2019: una pattuglia di quattro poliziotti, fra i quali il giornalista infiltrato, controlla dei giovani che ascoltano della musica sotto un edificio. Un adolescente di 17 anni è arrestato per oltraggio e minacce a pubblici ufficiali. Sin dal suo arresto afferma che l’agente Marc F. l’ha colpito a pugni nell’auto della polizia, l’ha stretto al collo e insultato. Le violenze sono confermate da Valentin Gendrot nel suo libro. Malgrado le ferite al sopracciglio destro e a collo, constatate da un medico legale, il giovane A. non ha beneficiato di alcuna interruzione di lavoro.

In una registrazione che Gendrot ha fornito al giudice, il poliziotto Marc F. dice di aver dato “una patata” (un colpo) all’adolescente “alla bocca”. Nel corso dell’inchiesta giudiziaria ha invece detto che l’aveva solo “percosso” a mano aperta. Nella stessa registrazione dice che ha dato “dei piccoli schiaffi” al fratellino di A., che non si è mai presentato alle convocazioni dell’Ispezione generale della polizia nazionale (IGPN). Per questi colpi, la procura chiede un non-luogo a procedere. “per quanto inadatto e famigliare che tale atto possa essere -scrive il magistrato- è ancor più suscettibile di riguardare una sfera deontologica” passibile di una sanzione disciplinare “sin d’ora e già pronunciata”, oltre che penale.

Nessuna procedura per il falso: l’impunità è garantita

Il rapporto redatto dopo il fermo di A. non menziona alcun colpo del poliziotto. Gli agenti indicavano semplicemente di aver dovuto “tenerlo” su sedile nell’auto, per impedirgli di “scagliarsi contro di loro”. Scrivono anche che avevano “usato in modo proporzionato la coercizione” per farlo sedere e ammanettarlo.

Solo Gendrot è tornato su tale versione dei fatti ammettendo di aver dato una falsa testimonianza per “coprire” i suoi colleghi e continuare la sua infiltrazione senza ostacoli. Malgrado le sue dichiarazioni e quelle di Marc F., che riconosce delle omissioni in tale rapporto ma invoca “la dimenticanza”, alcun poliziotto è mai stato inquisito per falso in scrittura pubblica da parte di persona depositaria dell’autorità pubblica inerente reati penali.

La giudice d’istruzione ha deciso di mettere il poliziotto Marc F. e Gendrot come personalmente coinvolti nelle violenze e il falso come “testimone assistito”. Quanto al poliziotto Gabriel S., redattore e firmatario del rapporto sotto dettatura di Marc F., non è mai stato interrogato dalla magistrata. Davanti all’IGPN, “le sembrava normale” che i poliziotti “ne abbiano tutti discusso insieme come per qualsiasi contravvenzione”, secondo la procura costretta a chiedere un non-luogo a procedere per il falso in atto pubblico.

La requisitoria definitiva ricorda infine che il libro Flic riporta “otto infrazioni” (violenze e/o falso in atto pubblico) o, almeno, una “mancanza deontologica”. In maggioranza commessi “a pregiudizio delle vittime non identificate” soprattutto migranti particolarmente precari, ma tutti questi reati resteranno impuniti [la polizia del regime Macron e del ministro dell’interno fascista Darmanin è da tanto tempo protetta da tale impunità che come ben sappiamo in Italia è corrente sin da dopo il G8 di Genova, vedi Polizie sicurezza e insicurezze].

Un processo ridotto al minimo

L’avvocato di Valentin Gendrot, Romain Boulet, commenta così:

“Chiaramente si profila un processo ridotto al minimo … è una vera delusione constatare che la giustizia abbia sempre tante difficoltà ad accertare le infrazioni commesse dai servizi di polizia. Non possiamo non deplorare il velo pudico sulle derive eppure ampiamente documentate da Valentin Gendrot e non interrogarsi sulle motivazioni reali dell’istituzione, che rifiuta di condurre investigazioni approfondite su dei fatti di natura criminale”.

E, come di prassi, l’avvocato invoca “una polizia esemplare, che sia anche una polizia che riconosca le derive”.

Valentin Gendrot spiega nel suo libro che il suo racconto era fedele ai fatti, anche se anonimizza i luoghi e gli agenti. Ha sempre rifiutato di divulgare i veri nomi dei poliziotti coinvolti, ma ha poi confermato la loro identità facilmente stabilita nell’indagine giudiziaria e ha infine trasmesso alla giustizia i messaggi WhatsApp con i suoi ex-colleghi, e le registrazioni che ebbe a fare all’insaputa di questi insieme alle sue note di inchiesta. Valentin Gendrot non nasconde nulla. Racconta anche la precarietà delle condizioni di lavoro, il suicidio di un collega del commissariato durante la sua infiltrazione.

Il suo approccio ha sollevato un certo numero di questioni deontologiche, sia sul piano giornalistico – l’infiltrazione è una tecnica contestata [ma praticata da diversi celebri giornalisti d’inchiesta nei paesi anglosassoni, vedi fra altri l’esempio del giornalista della BBC che fece l’indagine sullo sconcertante caso delle guardie private persino immigrati irregolari nei luoghi del potere a Londra compreso il ministero degli interni!]. Per legge un agente che assiste a dei reati commessi da suoi colleghi ha il dovere di comunicarlo alla sua gerarchia [ma come ben si sa quasi sempre la gerarchia vuole nascondere i reati del personale per non “sporcare” l’immagine dell’istituzione e in molti casi è anche complice o coinvolta direttamente in certi reati -vedi Polizie sicurezza e insicurezze].

Ancora in servizio come poliziotto, Marc F. è diventato pilota di droni per la questura di Parigi. Al termine dell’indagine amministrativa, ha avuto solo tre giorni di sospensione in contumacia. Tre dei suoi colleghi hanno avuto un biasimo, cioè una sanzione disciplinare ridicola.

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Le mie riflessioni sull'abbandono di Biden - Chris Hedges

 

Joe Biden è stato abbandonato dalla stessa classe di miliardari che ha assiduamente servito per tutta la sua carriera politica. A malapena in grado di inciampare nelle parole di un telepromptor e non sempre consapevole di ciò che accade intorno a lui, i suoi sostenitori miliardari gli hanno staccato la spina. Era la loro creatura - è stato in carica federale per 47 anni - dall'inizio alla fine.

È stato usato come esca per sconfiggere Bernie Sanders nelle primarie del 2020 ed è stato consacrato come candidato nel 2024 in una campagna di primarie in stile sovietico. La classe miliardaria ora ungerà qualcun altro. Gli elettori del Partito Democratico sono oggetti di scena in questa farsa politica. Donald Trump, a differenza di Kamala Harris o di qualsiasi altro apparatchik che la classe miliardaria sceglie come candidato alla presidenza, ha una base genuina e impegnata, per quanto fascista.

In Hitler e i tedeschi, il filosofo politico Eric Vogelin respinge l'idea che Hitler - dotato di oratoria e opportunismo politico, ma poco istruito e volgare - abbia ipnotizzato e sedotto il popolo tedesco. I tedeschi, scrive, hanno sostenuto Hitler e le “figure grottesche e marginali” che lo circondavano perché egli incarnava le patologie di una società malata, afflitta dal collasso economico e dalla disperazione. Voegelin definisce la stupidità come una “perdita di realtà”. La perdita della realtà significa che una persona “stupida” non può “orientare giustamente la sua azione nel mondo in cui vive”. Il demagogo, che è sempre un idiota, non è un fenomeno da baraccone o una mutazione sociale. Il demagogo esprime lo zeitgeist -spirito della società.

Biden e il Partito Democratico sono responsabili di questo Zeitgeist. Hanno orchestrato la deindustrializzazione degli Stati Uniti, facendo in modo che 30 milioni di lavoratori perdessero il posto in licenziamenti di massa. Come scrivo in America, The Farewell Tour, questo assalto alla classe operaia ha creato una crisi che ha costretto le élite al potere a ideare un nuovo paradigma politico. Sbandierato da media compiacenti, questo paradigma ha spostato l'attenzione dal bene comune alla razza, al crimine, alla legge e all'ordine. Biden è stato l'epicentro di questo cambiamento di paradigma.

A coloro che stavano subendo profondi cambiamenti economici e politici è stato detto che la loro sofferenza non derivava dal militarismo dilagante e dall'avidità delle aziende, ma da una minaccia all'integrità nazionale. Il vecchio consenso che sosteneva i programmi del New Deal e lo stato sociale è stato attaccato in quanto permetteva ai giovani neri dediti alla criminalità, alle “regine del welfare” e ad altri presunti parassiti sociali. Questo ha aperto le porte a un finto populismo, iniziato da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, che avrebbe dovuto difendere i valori della famiglia, la moralità tradizionale, l'autonomia individuale, la legge e l'ordine, la fede cristiana e il ritorno a un passato mitico, almeno per gli americani bianchi. Il Partito Democratico, soprattutto sotto Bill Clinton e Biden, è diventato in gran parte indistinguibile dall'establishment del Partito Repubblicano al quale è ora alleato.

Il Partito Democratico rifiuta di accettare la propria responsabilità per la conquista delle istituzioni democratiche da parte di un'oligarchia rapace, per la grottesca disuguaglianza sociale, per la crudeltà delle corporazioni predatrici e per un militarismo incontrollato. I Democratici ungeranno un altro politico amorale, probabilmente Harris, da usare come maschera per l'avidità delle aziende, la follia della guerra infinita, la facilitazione del genocidio e l'assalto alle nostre libertà civili più elementari. I Democratici, strumenti di Wall Street, ci hanno dato Trump e i 74 milioni di persone che hanno votato per lui nel 2020. Sembrano pronti a darci di nuovo Trump. Che Dio ci aiuti.

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sabato 27 luglio 2024

Capitalismo, morte e politica - Gian Andrea Franchi

 

Il dominio del denaro si è affermato con la crisi delle religioni che per secoli hanno offerto alcune risposte all’angoscia per la morte. Ma una società del denaro è necessariamente una società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, l’unico modo di accogliere la morte. Per mettere in discussione quel dominio abbiamo bisogno di una nuova cultura politica, abbiamo bisogno cioè di luoghi nei quali la capacità di muoversi come collettivi che riscoprono l’azione politica si interseca con l’esperienza del singolo che viene riconosciuto come tale. Appunti dalla “Piazza del Mondo” di Trieste, abitata ogni giorno dai migranti della Rotta balcanica.

 

Tre punti di partenza ineludibili mi sembrano i seguenti: tutte le rivoluzioni sono fallite; tutti i processi di trasformazione radicale, sono in crisi, anche nell’ambito di culture non occidentali (anche lo zapatismo, ad esempio, vive difficoltà e trasformazioni); il capitalismo, con un passo di morte, ci sta portando verso il disastro sociale e biologico. In questo scenario ci sono lotte e anche tentativi di alternative, ma non sembrano in grado di produrre un cambiamento significativo in una macchina di potere globale nella quale le questioni di egemonia, come tra Stati Uniti e Cina, rendono ancora più devastanti le dinamiche politico-economiche.

Di certo, la cultura del capitale, nata in Europa fra il XV° e il XVII° secolo, diffusa ovunque con violenza estrema, ha infranto il nesso vitale tra riproduzione della vita e produzione degli elementi vitali necessari alla riproduzione; detto con concetti più pregnanti, il capitale ha spezzato il nesso fra cura e bisogno. Ha ridotto la cura, indispensabile alla nascita e al lungo processo di crescita dell’essere umano, al minimo, confinandola nel genere femminile e facendo della produzione del necessario per i bisogni vitali un oggetto di compravendita, una merce. Il sorgere e la potente affermazione di questa dinamica storica hanno rotto il vincolo vitale dei bisogni con l’effetto di spingerli all’eccesso, moltiplicandone illimitatamente la produzione. Lo scopo, infatti, non è più la necessaria soddisfazione del bisogno, ma la produzione tendenzialmente illimitata dello scambio, cioè del valore di scambio, del denaro.

Questa frattura fra cura (riproduzione) e bisogno (produzione) si manifesta come una ferita irreparabile all’equilibrio della vita: una ferita mortale.

Il capitalismo ha trasformato il valore d’uso in valore di scambio, ovvero in qualcosa di quantificabile, che vuol dire di controllabile, anche se paradossalmente – un paradosso che vorrei chiamare ontologico – è proprio questo esasperato bisogno di controllo che provoca il suo contrario: la perdita di ogni controllo, siamo su una nave nel mare in tempesta.

Mi chiedo e chiedo: come mai il valore di scambio è diventato così importante da costituire lo scopo dominante, se non unico, della civiltà che negli ultimi secoli si è imposta in tutto il mondo, al punto di mettere a rischio la vita stessa? La risposta – nella misura in cui è possibile rispondere a questa domanda – si può cercare nella crisi europea della visione religiosa della società e della vita, fra XV° e XVII° secolo, in cui è apparsa e si è sviluppata una variante che ha aperto prima un sentiero poi un’autostrada in grado di rimuovere il problema fondamentale di tutte le società, di tutte le culture: la questione della morte.

L’essere umano è il vivente consapevole della morte: questo produce un’angoscia che deve essere elaborata o rimossa. Le religioni, in senso lato, servono appunto ad elaborare l’angoscia per la morte, attraverso rituali in cui gestire il transito dalla vita alla morte mediante l’accoglienza comunitaria del lascito del defunto.

In questa nuova cultura, che da Marx in poi chiamiamo correntemente capitalismo, la forma fondamentale dell’organizzazione della società è ciò che, con nome di origine greca, chiamiamo economia: il nomos dell’oikos (casa o luogo della vita quotidiana), che invece dovremmo chiamare polinomìa, il nomos della polis. Questa cultura è caratterizzata dalla tendenza a ridurre i rapporti sociali a rapporti tenuti insieme da un criterio quantitativo, misurabile attraverso uno strumento di calcolo: il denaro, per cui il valore e il potere individuali, e quindi il potere sociale, si misurano essenzialmente con il possesso o il controllo del denaro diventato la forma fondamentale di relazione sociale. Il potere della ricchezza è sempre stato notevole, soprattutto nelle società più grandi e complesse, ma con il capitalismo è diventato la forma stessa del vivere sociale, non solo: della vita intera, trasformata in un magazzino di merci.

Una società caratterizzata da una forma valoriale e organizzativa misurabile quantitativamente è risultata molto efficace proprio per il potere dell’astrazione nel rimuovere l’angoscia per la morte, eliminando nel contempo ogni forma rituale. Una società del denaro è necessariamente una società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, ma la comunità è l’unico modo di accogliere la morte.

C’è una notissima riflessione storica che può aiutare a comprendere in Europa il passaggio dalla società precapitalistica, in cui il valore del denaro era anche molto forte ma non totalizzante, alla società capitalistica. Mi riferisco a Max Weber che individua la formazione di un’élite capitalistica a partire dalla cultura calvinista, soprattutto nelle sue varianti anglosassoni, in cui si elabora “l’adempimento del proprio dovere nelle professioni mondane come il più alto contenuto che potesse assumere l’attività etica”1, una cultura emigrata anche in nord America. Di questa cultura, inizialmente propria di una élite di origine borghese, Oliver Cromwell in Gran Bretagna e Benjamin Franklin in America del nord sono due figure esemplari: il primo con una terribile violenza coloniale contro gli irlandesi nella feroce convinzione, su base religiosa, che vadano educati al lavoro, analoga al “Manifest destiny” che ha guidato culturalmente l’affermazione degli Stati Uniti; il secondo offrendo l’esempio concreto di una quotidianità operosa tutta dedita all’onesto guadagno: “ricordati che il tempo è denaro”, “ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo”, in cui risulta evidente il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia nell’operatività quotidiana. I due aspetti sono complementari: la violenza estrema, giunta fino al genocidio e la serena operosità di ogni giorno e si sono a lungo appoggiati reciprocamente. Oggi – possiamo dire che il primo è scomparso a favore del secondo:

“un imprenditore, Elon Musk, CEO di Tesla, ha domandato e ottenuto una remunerazione annuale di 56 miliardi di dollari. Nel vecchio capitalismo industriale (ma ancora negli anni Cinquanta) il rapporto tra il salario dell’operaio e il compenso del padrone era al massimo di 1 a 20. Negli anni 80, di 1 a 42. Nel 2000, di 1 a 120 e via via aumentando fino all’1:56 miliardi di dollari di oggi. […] la presidente di Tesla, Robyn Denholm, in una lettera ha spiegato agli azionisti che lo «stipendio», serve «a mantenere l’attenzione di Elon e a motivarlo a concentrarsi sul raggiungimento di una crescita sorprendente per la nostra azienda». Musk «non è un manager tipico» e per motivarlo «serve qualcosa di diverso»”2.

Un chiaro esempio di come il denaro ha acquistato una valenza insieme simbolica, di altissimo status sociale, e di potere concreto.

Il denaro si è rivelato come il fondamentale strumento di rimozione dell’angoscia per la morte nella misura in cui è uno strumento di potere in grado di diffondersi nelle società attraverso la gestione della soddisfazione dei bisogni vitali trasformata in produzione in merci: il denaro è modernamente il diaframma tra il bisogno e la sua soddisfazione. Ciò ha moltiplicato illimitatamente i bisogni, trasformando il cittadino in individuo consumatore. Il denaro è penetrato alla radice del carattere relazionale della soggettività.

Senza denaro siamo nudi in mezzo al deserto, come i migranti che attraversano il Sahara – e anche in molti vi muoiono.

Con il denaro siamo chiusi in una gabbia dall’estensione illimitata.

Trasformare la vita intera in una produttrice di denaro – cioè di potere dei pochissimi su tutti, su tutto – sta però avvelenando la vita: la morte rimossa tracima dal pavimento della cella, delle innumerevoli celle della terra. Con un paradosso, che ancora mi permetto di chiamare ontologico, la morte è diventata il mercato più importante: la produzione di strumenti direttamente o indirettamente legati alla produzione di morte, in tutte le sue forme, con alto sviluppo tecnologico, come l’Intelligenza Artificiale, di cui l’esercito di Israele si serve nel genocidio di Gaza.

In tale contesto, con un brusco salto storico ed esistenziale che contiene un sofferto nesso biografico, è inevitabile la domanda “Che fare?”.

Colloco questa domanda nell’esperienza di vivere su un confine di Stato, di fronte, quindi, a uno strumento caratteristico di produzione di quella violenza. Arrivo allora al luogo che chiamiamo “Piazza del Mondo”: la piazza alberata di fronte alla stazione di Trieste. I migranti in fuga e in cerca che arrivano dalla Rotta balcanica mi danno – anzi: ci danno perché non può che accadere in una dimensione collettiva – l’opportunità di produrre un tentativo di risposta: il loro cammino mi spinge, ci spinge, lungo il nostro cammino. La piazza del Mondo è un luogo in cui si manifesta il fondo della soggettività: la ricerca di riconoscimento, sia come disperato bisogno di autoaffermazione che come ricerca di sé nell’altro. È un luogo, quindi, in cui traspare la prima matrice del gesto politico, che, nell’azione di massa tende a confondersi nello slancio emotivo e corporeo della moltitudine, momento necessario, di entusiasmo e di lotta, ma insufficiente – come dovremmo aver dolorosamente compreso – se non accompagnato dall’esperienza del singolo.

 

Il tempo della singolarità e quello della moltitudine tendono a divaricarsi: il primo molto più lento e complesso del secondo, che vive di slanci. Io credo che sia nata in questa drammatica divaricazione la crisi dei periodi di azione politica radicale, come quello a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ma solo un rapporto tra le due dimensioni temporali può garantire la continuità, collocando i momenti di massa lungo un cammino.

Nella Piazza del Mondo si agitano molto concretamente, nell’incontro fra corpi, queste problematiche. I bisogni elementari, necessari, si intersecano con i bisogni di riconoscimento, il dolore fisico e psichico con la gioia, l’allegria, la frustrazione, come le lingue molteplici, la diversità di culture…


1 Max Weber, Etica protestante e spirito del capitalismo, Sansoni 1965 (1922), p. 145.

2 Maurizio Lazzarato, La “guerra civile” in Francia”, da Machina rivista on line.

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venerdì 26 luglio 2024

I 10 principi per la pace perpetua nel XXI secolo - Jeffrey Sachs

 Le strutture basate sulle Nazioni Unite sono fragili e hanno bisogno di un aggiornamento urgente; dovremmo prendere in considerazione questo aspetto al Vertice del futuro delle Nazioni Unite di settembre.

 

L'anno prossimo ricorrerà il 230° anniversario del celebre saggio di Immanuel Kant sulla “Pace perpetua” (1795), nel quale il grande filosofo tedesco propose una serie di principi guida per raggiungere la pace tra le nazioni del suo tempo. Alle prese con un mondo in conflitto e con il rischio terribile dell'Armageddon nucleare, dovremmo applicare l'approccio kantiano al nostro tempo e proporre una serie di principi aggiornati per la pace perpetua al Vertice Onu del Futuro che si terrà a settembre.

Kant era pienamente consapevole che le sue proposte avrebbero incontrato lo scetticismo dei politici “pratici”:  


Il politico pratico assume l'atteggiamento di guardare con grande autocompiacimento al teorico politico come a un pedante le cui idee vuote non minacciano in alcun modo la sicurezza dello Stato, in quanto lo Stato deve procedere su principi empirici; così al teorico è permesso di giocare il suo gioco senza interferenze da parte dello statista che sa come va il mondo.

 

Tuttavia, come ha notato lo storico Mark Mazower nel suo magistrale resoconto sulla governance globale, quello di Kant è stato un “testo che ha influenzato in modo costante generazioni di pensatori sul governo mondiale fino ai nostri giorni”, contribuendo a gettare le basi per le Nazioni Unite e il diritto internazionale sui diritti umani, la pratica di guerra e il controllo degli armamenti.

Le proposte principali di Kant erano incentrate su tre idee. In primo luogo, il diniego degli eserciti permanenti, che “minacciano incessantemente gli altri Stati con il loro apparire in ogni momento pronti alla guerra”. In questo modo, Kant ha anticipato di un secolo e mezzo il famoso avvertimento del Presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower sui pericoli di un complesso militare-industriale. In secondo luogo, Kant chiedeva di non interferire negli affari interni di altre nazioni. Da questo punto di vista, il filosofo tedesco anticipava la condanna di quelle operazioni segrete che gli Stati Uniti hanno usato senza sosta per rovesciare governi stranieri. In terzo luogo, Kant chiedeva una “federazione di Stati liberi”, che nel nostro tempo è diventata l'ONU, una “federazione” di 193 Stati che si impegnano a operare secondo la Carta delle Nazioni Unite.

Kant riponeva grandi speranze nel repubblicanesimo, in contrapposizione al governo di una sola persona, come freno alla creazione di guerre. Il filosofo Tedesco, infatti, ragionava sul fatto che un singolo governante avrebbe ceduto facilmente alla tentazione della guerra:

 

... una dichiarazione di guerra è la cosa più facile del mondo da decidere, perché la guerra non richiede al sovrano, che è il proprietario e non un membro dello Stato, il minimo sacrificio dei piaceri della sua tavola, della caccia, delle sue case di campagna, delle sue funzioni di corte e simili. Può quindi decidere di fare la guerra come una festa di piacere per i motivi più banali, e lasciare con perfetta indifferenza la giustificazione che la decenza richiede al corpo diplomatico che è sempre pronto a fornirla.

 

Al contrario, secondo Kant:

 

... se per decidere di dichiarare la guerra è necessario il consenso dei cittadini (e in questa costituzione [repubblicana] non può che essere così), non c'è nulla di più naturale che essi siano molto cauti nell'iniziare un gioco così povero, decretando per sé tutte le calamità della guerra.

 

Kant era troppo ottimista sulla capacità dell'opinione pubblica di limitare la guerra. Sia la repubblica ateniese che quella romana erano notoriamente bellicose. La Gran Bretagna è stata la principale democrazia del XIX secolo, ma forse la potenza più guerrafondaia. Per decenni, gli Stati Uniti si sono impegnati in guerre senza sosta e in rovesciamenti violenti di governi stranieri.

Ci sono almeno tre ragioni per cui Kant si è sbagliato. In primo luogo, anche nelle democrazie, la scelta di scatenare guerre spetta quasi sempre a un piccolo gruppo elitario, di fatto largamente isolato dall'opinione pubblica. In secondo luogo, e altrettanto importante, l'opinione pubblica è relativamente facile da manipolare attraverso la propaganda che riesce a portare le masse a sostenere il conflitto. In terzo luogo, l'opinione pubblica può essere isolata nel breve periodo dagli alti costi della guerra, finanziando la guerra con il debito piuttosto che con le tasse, e affidandosi ad appaltatori, a reclute pagate e mercenari piuttosto che alla coscrizione.

Le idee fondamentali di Kant sulla pace perpetua hanno contribuito a portare il mondo verso il diritto internazionale, i diritti umani e la condotta dignitosa in guerra (come le Convenzioni di Ginevra) nel XX secolo. Tuttavia, nonostante le innovazioni nelle istituzioni globali, il mondo rimane terribilmente lontano dalla pace. Secondo il Doomsday Clock del Bulletin of Atomic Scientists, mancano solo 90 secondi alla mezzanotte: siamo più vicini alla guerra nucleare che in qualsiasi altro momento dall'introduzione dell'orologio nel 1947.

L'apparato globale delle Nazioni Unite e il diritto internazionale hanno probabilmente impedito una terza guerra mondiale fino ad oggi. Il Segretario generale dell'ONU U Thant, ad esempio, ha svolto un ruolo fondamentale nella risoluzione pacifica della crisi dei missili di Cuba del 1962. Tuttavia, le strutture delle Nazioni Unite sono fragili e necessitano, con urgenza, di essere riformate.

A tal fine, invito a formulare e adottare una nuova serie di principi basati su quattro realtà geopolitiche chiave del nostro tempo.

In primo luogo, viviamo con la spada di Damocle nucleare sopra le nostre teste. Il Presidente John F. Kennedy lo disse in modo eloquente 60 anni fa nel suo famoso discorso sulla pace, quando dichiarò:

Parlo di pace a causa del nuovo volto della guerra. La guerra totale non ha senso in un'epoca in cui le grandi potenze possono mantenere grandi forze nucleari relativamente invulnerabili e rifiutarsi di arrendersi senza ricorrere a tali forze. Non ha senso in un'epoca in cui una sola arma nucleare contiene quasi 10 volte la forza esplosiva erogata da tutte le forze aeree alleate nella Seconda guerra mondiale.

 

In secondo luogo, siamo arrivati a un vero multipolarismo. Per la prima volta dal XIX secolo, l'Asia ha superato l'Occidente in termini di produzione economica. Abbiamo superato da tempo l'era della Guerra Fredda in cui dominavano gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, o il “momento unipolare” rivendicato dagli Stati Uniti dopo la scomparsa dell'Unione Sovietica nel 1991. Oggi gli Stati Uniti sono una delle diverse superpotenze, tra le quali annoveriamo Russia, Cina e India, oltre a diverse potenze regionali (tra cui Iran, Pakistan e Corea del Nord). Gli Stati Uniti e i loro alleati non possono imporre unilateralmente la loro volontà in Ucraina, in Medio Oriente o nella regione indopacifica. Gli Stati Uniti devono imparare a cooperare con le altre potenze.

In terzo luogo, oggi disponiamo di un insieme storicamente senza precedenti di istituzioni internazionali per la formulazione e l'adozione di obiettivi globali (ad esempio, in materia di clima, sviluppo sostenibile e disarmo nucleare), per l'applicazione del diritto internazionale e per l'espressione della volontà della comunità globale (ad esempio, nell'Assemblea generale e nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite). Certo, queste istituzioni internazionali sono ancora deboli quando le grandi potenze scelgono di ignorarle, ma offrono strumenti preziosi per costruire una vera federazione di nazioni nel senso kantiano del termine.

In quarto luogo, il destino dell'umanità è più strettamente interconnesso che mai. I beni pubblici globali - sviluppo sostenibile, disarmo nucleare, protezione della biodiversità della Terra, prevenzione della guerra, prevenzione e controllo delle pandemie - sono molto più centrali per il nostro destino comune che in qualsiasi altro momento della storia umana. Anche in questo caso, possiamo ricorrere alla saggezza di JFK, che vale oggi come allora:

 

Non siamo ciechi di fronte alle nostre differenze, ma concentriamoci anche sui nostri interessi comuni e sui mezzi con cui queste differenze possono essere risolte. E se non possiamo porre fine alle nostre differenze, almeno possiamo contribuire a rendere il mondo sicuro per la diversità. Perché, in ultima analisi, il nostro legame comune più fondamentale è che tutti noi abitiamo questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali.

 

Quali principi dovremmo adottare nel nostro tempo per contribuire alla pace perpetua?  

Propongo 10 principi per la pace perpetua nel XXI secolo e invito gli altri a rivedere, modificare o creare il proprio elenco.

I primi cinque principi sono i Principi di coesistenza pacifica proposti dalla Cina 70 anni fa e successivamente adottati dai Paesi non allineati. Questi sono:

 

  1. Rispetto reciproco dell'integrità territoriale e la sovranità di tutte le nazioni;
  2. Non aggressione reciproca;
  3. Non interferenza reciproca di tutte le nazioni negli affari interni di altre nazioni (ad esempio attraverso guerre di scelta, operazioni di cambio di regime o sanzioni unilaterali);
  4. Uguaglianza e vantaggi reciproci nelle interazioni tra le nazioni.
  5. Coesistenza pacifica di tutte le nazioni.

 

Per attuare questi cinque principi fondamentali, ne raccomando altri cinque che richiedono azioni specifiche:

 

  1. La chiusura delle basi militari all'estero, di cui gli Stati Uniti e il Regno Unito ne hanno di gran lunga il maggior numero.
  2. La fine delle operazioni segrete di cambio di regime e delle misure economiche coercitive unilaterali, che sono gravi violazioni del principio di non interferenza negli affari interni di altre nazioni. (La politologa Lindsey O'Rourke ha documentato attentamente 64 operazioni segrete di cambio di regime da parte degli Stati Uniti nel periodo 1947-1969 e la pervasiva destabilizzazione causata da tali operazioni).
  3. Adesione di tutte le potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) all'articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare“Tutte le Parti devono perseguire negoziati in buona fede su misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari e al disarmo nucleare, e su un trattato sul disarmo generale e completo sotto un rigoroso ed efficace controllo internazionale”.
  4. L'impegno di tutti i Paesi “a non rafforzare la propria sicurezza a scapito della sicurezza di altri Paesi” (come da Carta dell'OSCE). Gli Stati non stringeranno alleanze militari che minaccino i loro vicini e si impegneranno a risolvere le controversie attraverso negoziati pacifici e accordi di sicurezza sostenuti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
  5. L'impegno di tutte le nazioni a cooperare nella protezione dei beni comuni globali e nella fornitura di beni pubblici globali, compreso l'adempimento dell'accordo di Parigi sul clima, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile e la riforma delle istituzioni delle Nazioni Unite.

 

 

Gli attuali scontri tra grandi potenze, in particolare i conflitti degli Stati Uniti con la Russia, la Cina, l'Iran e la Corea del Nord, sono in gran parte dovuti al continuo perseguimento dell'unipolarismo da parte dell'America attraverso operazioni di cambio di regime, guerre di scelta, sanzioni coercitive unilaterali e la rete globale di basi e alleanze militari statunitensi. I 10 principi sopra elencati contribuirebbero a portare il mondo verso un multilateralismo pacifico governato dalla Carta delle Nazioni Unite e dallo Stato di diritto internazionale.

 

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

Fonte: https://www.commondreams.org/opinion/10-principles-peace-21st-century

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