Qual è
stata la mia lezione migliore, chiedete.
Ai tempi del Liceo pensavo di
trovarmi nel peggior istituto della città. Parlo di quando ci insegnavo: uno
schifo totale. Sai chi si iscrive al Classico per poter dire “sì, studiamo un
sacco noi del Classico”, “no, altro che le vostre materie, noi studiamo greco”,
chi studia per poter dire di aver studiato? Una scuola piena di gente così,
annoiata e noiosa. Ho assistito a scene di pianto isterico per un nove e
mezzo che non era dieci. Più di una volta. E questa era una delle
preoccupazioni più in voga: una scuola di gente senza coscienza, che non aveva
il polso della realtà.
Ho insegnato storia e
filosofia in quel Liceo per sedici anni, fino alla pensione. Al di là
dell’imbarazzante superficialità media dell’istituto, ho avuto degli alunni
notevoli. Il più delle volte provenivano da famiglie povere. A volte mi sono
sforzato di credere che le due cose non fossero collegate, ma ora credo
fortemente che lo siano. Più la tua famiglia è povera, meno possibilità ti dà per
un futuro dignitoso. Meno possibilità hai, più cerchi di inventartene - se sei
uno sveglio. E se sei sveglio, sai che la cultura è la più grossa delle
possibilità.
Fra tanti fighetti, dicevo,
c’era anche qualche poveraccio sveglio. Più di qualche poveraccio sveglio. Io
ho avuto una classe intera, di poveracci svegli. Allora io ero al primo anno di
Liceo da docente, loro all’ultimo da studenti. Mi avevano quasi illuso di
essere arrivato in una scuola normale: mi bastò il secondo anno per ricredermi,
ma quella è un’altra storia.
La 3°H. Ecco, lì dentro ho
tenuto la mia lezione migliore, l’unica che tuttora vale la pena di
raccontare. Avrei potuto replicare la stessa scena in tutte le altre
classi che poi ho avuto, e sono certo che non sarei riuscito a farmi capire
chiaramente come allora. La 3°H era la classe povera di un Liceo pieno di gente
ricca: conoscevano il peso delle rinunce e percepivano il divario fra loro e
gli altri, e per questi motivi mi capirono, durante quella lezione.
La mia prima cattedra fu in
una scuola media, una supplenza di un giorno solo, all’ultimo dell’anno, con
una terza. Terza media di un paese di campagna, cinquecento anime: ultimo
giorno di scuola lì significa ultimo giorno di scuola in assoluto. Basta la
terza media.
Ora, lì erano poveri per
davvero. Lo vedevi dai vestiti, dagli odori e dai libri di seconda mano. Dai
colloqui affollati di madri. I padri, quelle sere come ogni altra sera, a
cercare di tenersi stretto il lavoro.
Feci giusto un paio di domande
ai ragazzini della terza media, per capire cosa volessero fare una volta
completato l’esame.
Uno, il più grasso, disse di
voler fare il meccanico, insieme a suo padre. E basta con la scuola, meno
male. Una ragazza con i denti storti e le lentiggini non aveva ancora
deciso, probabilmente si sarebbe iscritta all’istituto magistrale. Ma non
sapeva bene, c’era anche l’azienda del padre da gestire, e dopo l’incendio
ancora di più. Dal primo banco, da sotto un berretto marrone: io non ne ho
idea, forse organizzo qualche rapina. Risero tutti fragorosamente, tranne
me.
Gli altri non risposero alla
domanda. Rimasero in silenzio tutti per una decina di minuti, finché uno mi
chiese se potessero uscire fuori, a giocare a pallone. Acconsentii, non avrei
comunque saputo cos’altro fare o dire.
Alla 3°H raccontai l’aneddoto
della scuola media, ma specificando bene.
"Ragazzi. Pietro, il
figlio del meccanico, non voleva fare il meccanico anche lui. Non è detto.
Probabilmente non aveva mai neppure considerato la possibilità di non essere
meccanico. Il suo futuro era nero, come il grasso sulle mani del
padre. Mara non è mai diventata maestra. Ha continuato a vivere in azienda
con suo padre, si è sposata con il servo pastore dopo essere rimasta incinta.
Il suo futuro era colore del fieno bruciato nella sua tenuta: nero. Il
ragazzo del primo banco la rapina l’ha organizzata davvero, non aveva ancora
diciott’anni. È partito un colpo di pistola, è rimasto senza futuro, e ha
lasciato a sua madre e suo padre il nero del lutto.
Questo, è non avere futuro.
Non il vostro.”
Replicò Giacomo: “Professore,
non capisco perché questa storia.”
Continuai: “Arriverà un giorno
in cui vi diranno che siete una generazione senza futuro. Vi racconteranno che
non ci sarà posto per voi, che non troverete lavoro e che dovrete andare via,
lontani dai vostri affetti e dalla vostra terra. Vi parleranno di un futuro
cupo e nero. Nero, useranno proprio quest’aggettivo. E vi spaventerete, perché
ve lo diranno in tanti. Io non voglio che ci crediate.
E se vi diranno che il vostro
è un futuro nero, date loro ragione. Ma che lo sappiano, il vostro è un nero
che non si aspettano.”
"Che nero? Te lo aspetti
o non te lo aspetti, sempre nero rimane."
"Nero come le lavagne,
sulle quali si possono scrivere soltanto storie colorate. Non se lo aspetteranno."
Capirono di cosa stessi
parlando, erano ragazzi svegli. Me ne accorsi dal silenzio alla fine della
frase. Sai quando ti dici “come ho fatto a non pensarci prima”? Una classe
piena di gente così, in quel silenzio così, a sorridere.
Se mi chiedete perché questa
lezione e perché a loro: se la meritavano e avevano bisogno di speranza. E poi
volevo loro un gran bene. Ho provato poi con altre classi, per un paio d’anni,
ma non ha mai più funzionato, quindi ho smesso. Peccato.
Ad una certa età dicono che ci sia il rischio di diventare sentimentali o cinici, gli ormoni, preferisco il rischio sentimentale. È toccante questa lettera aperta che ci regali, il dramma è che la frase "arriverà un giorno in cui vi diranno che siete una generazione senza futuro..." viene detta anche a dei cinquantenni.
RispondiEliminaa volte si ascoltano parole che ti ricordi dopo anni, a volte si dicono parole che ti ricordano dopo anni.
Eliminain realtà mai pensare che non si ha futuro, fare come se ci fosse, magari dopo è doloroso perché si capisce, ma non fa niente