Non si parlava più di nuovi assalti. La calma sembrava ridiscesa per lungo
tempo sulla vallata. Dall'una parte e dall'altra, si rafforzavano le posizioni.
I zappatori lavoravano tutta la notte. Il cannoncino da 37 continuava a darci
fastidi, sempre invisibile. Rimaneva dei giorni interi senza sparare un colpo,
poi, improvvisamente, apriva il fuoco contro una feritoia e ci feriva una
vedetta.
Il mio battaglione era sempre in linea e attendevamo che il battaglione di
rincalzo ci desse il cambio. Io volevo poter dare indicazioni precise al
comandante del reparto che mi avrebbe sostituito. Giorno e notte, avevo un
servizio speciale di osservazione, nella speranza che il bagliore dello sparo o
il movimento dei serventi tradisse l'appostazione del pezzo.
La notte precedente a quella del cambio, poiché il servizio di vigilanza non ci
aveva dato alcun risultato, accompagnato da un caporale, io stesso m'ero voluto
mettere in osservazione. Il caporale era uscito molte volte di pattuglia, ed
era pratico del luogo. La luna rischiarava il bosco e, all'apparire di qualche
raro razzo, la luce improvvisa dava un'apparenza di movimento alla foresta. Era
difficile capire se si trattasse sempre d'una illusione. Potevano anche essere
uomini che si spostassero, non alberi che, per la velocità del passaggio della
luce dei razzi attraverso i rami, sembrassero muoversi. Noi due eravamo usciti
all'estrema sinistra della compagnia, nel punto in cui le nostre trincee erano
piú vicine alie trincee nemiche. Camminando carponi, eravamo arrivati dietro un
cespuglio, una decina di metri oltre la nostra linea, una trentina
dall'austriaca. Un leggero avvallamento separava le nostre trincee dal
cespuglio, e questo coronava un rialzo di terreno dominante la trincea
antistante.
Eravamo là immobili, indecisi se avanzare ancora oppure fermarci, quando ci
parve di notare un movimento nelle trincee nemiche, alla nostra sinistra. In
quel tratto di trincea, non v'erano alberi: non era quindi possibile si
trattasse di una illusione ottica. Comunque, noi constatavamo di essere in un
punto da cui si poteva spiare la trincea nemica, d'infilata. Un simile posto
non l'avevamo ancora scoperto, in nessun altro punto. Decisi perciò di rimanere
là tutta la notte, per essere in grado di osservare l'animarsi della trincea
nemica, ai primi chiarori dell'alba. Che il cannoncino sparasse o tacesse, mi
era ormai indifferente. L'essenziale era mantenere quell'insperato posto di
osservazione.
Il cespuglio e il rialzo ci mascheravano e ci proteggevano così bene che decisi
di ricollegarli alla nostra linea e di farne un posto clandestino
d'osservazione permanente. Rimandai indietro il caporale e feci venire un
graduato dei zappatori al quale detti le indicazioni necessarie al lavoro. In
poche ore, tra il cespuglio e la nostra trincea, fu scavato un camminamento di
comunicazione. Il rumore del lavoro fu coperto dal rumore dei tiri lungo la
nostra linea. Il camminamento non era alto, ma consentiva il passaggio al
coperto, anche di giorno, ad un uomo che avesse camminato strisciando. La terra
scavata fu ritirata indietro nella trincea, e dello scavo non rimasero tracce
appariscenti. Piccoli rami freschi e cespugli completarono il mascheramento.
Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte,
senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci
compensò dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei
camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era
certo la corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza
curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti, ché le trincee e i traversoni
laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra
linea, Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci:
vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di
città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale
che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia
meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che
gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava
improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato
tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi
finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi,
rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro
vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il
nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in
uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè,
proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri
stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente.
Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il
caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso
le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse
che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora,
quale la ragione del mio stupore?
Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea,
fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in
tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi.
Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero piú grande degli altri,
perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un
ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva
scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima.
Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da
una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva
apparire ancora piú giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni.
Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che
lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non
vedevo che l'ufficiale.
Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa
acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non
era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo
solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto,
egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un
pensiero, senza una volontà precisa, ma cosí, solo per istinto, afferrai il
fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo
stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che
avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in
ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una
difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le
comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.
L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta
creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io
sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io
avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico,
divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno.
L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato
a pensare.
Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente.
La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei
doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma
alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili,
della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo
dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che
io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo
che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero
bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su
quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se
non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io
continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio,
io avevo il dovere di tirare.
E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto
nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito
quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non
ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere piú calmo, in una
camera di casa mia, nella mia città.
Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra.
Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli
sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella
distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe
stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia
volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva piú
chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi, a pochi
passi, su un uomo... come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto
cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un
uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: "Ecco, sta' fermo, io
ti sparo, io t'uccido " è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la
guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, cosí, è
assassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo
abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due
individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! non sarai tu
che ucciderai un uomo, cosí! "
Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare
l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo piú
chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io
pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la
coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel
cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del
fucile e gli dissi, a fior di labbra:
- Sai... cosí... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il
calcio del fucile e mi rispose:
- Neppure io.
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo
anche noi.
La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.