Chi di noi
non manifesta quotidianamente la propria solidarietà ai lavoratori vittime
della crisi? Chi di noi non esprime vicinanza a quelle famiglie su cui cala
implacabile la scure della disoccupazione? Tutti, immagino.
Bene quella
che vi racconto brevemente è una storia di lavoratori. Di 90.000 donne e uomini
che da qui a qualche mese potrebbero precipitare nel baratro della
disoccupazione, della povertà. E’ la storia dei lavoratori dei call center,
forse quelli verso cui questo paese è in più in debito. Gli si è imposta
precarietà, sottosalari, sfruttamento.
Molti di
loro hanno iniziato a lavorare in un call center a venticinque anni e oggi ne
hanno quaranta. Come i minatori di fine ottocento raccontati nel “Germinal” di
Emile Zola, hanno conquistato un salario stabile dopo anni di lotte, presidi,
scioperi. E oggi si ritrovano aggrappati a quell’unica fonte di reddito. Mentre
fuori, qualcuno, ancora pensa che l’operatore telefonico sia una specie di
hobby. Non lo è: i lavoratori hanno vincoli, orari, doveri e qualche diritto ed
esercitano un’attività emotiva che nel tempo può divenire usurante. Sono operai
di una catena di montaggio immateriale…
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In queste settimane, per il libro a cui sto lavorando, mi capita di
intervistare molti esponenti – parlamentare non – del Pd e della sinistra più
radicale, che quando parlano delle “nuove forme di lavoro” mi fanno quasi
sempre lo stesso esempio, cioè quello dei call center.
È un mondo che marginalmente conosco, per motivi non
professionali. Non è certo il solo in cui si declina la piaga del nuovo
sfruttamento, ma è uno di quelli più robusti per numeri e più impressionanti
per accadimenti: so di call center in cui la paga è arrivata sotto i 3,5 euro
all’ora, sempre con la stessa minaccia: sennò ce ne andiamo in Albania, in
Romania, in Serbia eccetera…
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