sembra uno che hai già conosciuto, che hai visto da qualche parte.
…Non fu ucciso in piazza, negli scontri seguiti alla contestazione del comizio del missino Niccolai. Fu selvaggiamente bastonato dalla polizia, lui che non poteva difendersi perché – senza occhiali – quasi niente poteva più vedere. Fu arrestato, gettato in cella e lasciato morire senza praticamente ricevere quell’assistenza cui aveva diritto e che l’avrebbe salvato. E, come in altri casi analoghi, il suo prolungato assassinio sarebbe rimasto avvolto nel nulla se i suoi compagni non si fossero subito mossi, se tante e tante persone oneste non si fossero subito battute contro chi voleva tutto nascondere, se ad un certo punto il giornalista Corrado Stajano non avesse dato alle stampe quel libro Il sovversivo che ci ha restituito a tutto tondo la sua vita e poi la sua morte, se…
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…Franco Serantini nasce a Cagliari il 16 luglio1951. Abbandonato al brefotrofio vi rimane due anni. Poi viene dato in affidamento e due coniugi siciliani. Lui è una guardia di pubblica sicurezza, la moglie possiede qualche tumulo di terra a Campobello di Licata, in provincia di Agrigento, in collina, nella fascia sud orientale della Sicilia, a una ventina di chilometri dal mare, un paese bruciato, di vita grama. La coppia vive felicemente a Cagliari per due anni con il bambino, poi la moglie si ammala in modo grave e tutti e tre partono per la Sicilia. La donna muore nel 1955. Franco viene affidato allora alla famiglia della moglie della guardia, diventato brigadiere di PS. Ma la famiglia si sfascia – malattie, emigrazioni, bisogni materiali – e chiede che Franco venga ricoverato in qualche istituto di assistenza in Sicilia per poterlo andare a trovare. Ma l’amministrazione provinciale di Cagliari, responsabile del destino del ragazzo, nell’aprile 1960 ordina che Franco sia invece affidato all’Istituto del Buon Pastore di Cagliari.
Sembra una storia ottocentesca, questa di Franco Serantini, ai limiti dell’invenzione settaria, priva di ogni luce, colma soltanto di miseria, di violenza, d’ ingiustizia. Fin dalla nascita Serantini conosce ad una ad una e senza pietà le sfortune dei poveri, passa attraverso le catene di sofferenza e di dolore che toccano sempre in sorte agli esclusi: la morte come una condanna che distrugge anche i precari equilibri di sussistenza, le disgrazie famigliari, le malattie, la disoccupazione, i conflitti di interesse tanto più crudi quanto più la roba contestata è modesta, gli affetti carenti come il mangiare, come la speranza.
L’Istituto del Buon Pastore è alla periferia di Cagliari in un quartiere chiamato “Il Giorgino”. Un ghetto sottoproletario, allora, con una desolata aria di abbandono, in un paesaggio nord-africano dove le stagioni sono segnate, dall’estate alla primavera successiva, dall’arrivo dei fenicotteri, una lunga striscia di uccelli bianchi, rosa e rossi che prendono dimora nello stagno di Santa Gilla.
Franco non ha ancora compiuto dieci anni, finisce le elementari. Poi le suore del collegio lo iscrivono alla scuola media “Giuseppe Manno” di Cagliari. È un bambino e poi un ragazzo chiuso, taciturno, infelice. Di carattere duro, difficile, bisognoso d’affetto e d’attenzione, matura nella solitudine i suoi pensieri attorcigliati e contorti. Non è un bravo scolaro e neppure un bravo studente. Ha ormai quindici anni, i suoi rapporti con le suore non sono buoni, il conflitto non ha tregua. A quell’età, negli istituti di assistenza, avviene quasi sempre la rottura con i ricoverati perché le amministrazioni provinciali smettono di pagare le rette. Agli inizi del 1968 le suore del Buon Pastore si rivolgono al giudice del Tribunale dei minorenni, esprimono l’impossibilità di continuare a ospitare Franco nell’Istituto, motivano le ragioni del conflitto con l‘umore del ragazzo, il cattivo carattere, la maleducazione, l’aggressività. Il Tribunale decide allora in questo modo, un capolavoro di umanità e di razionalità: “Siccome la personalità del giovane appare gravemente disturbata per assoluta carenza affettiva e lunga istituzionalizzazione, la personalità del soggetto deve essere bene aiutata con un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore”.
Il dispositivo della sentenza conclude che Serantini “per rimediare alla lunga istituzionalizzazione” deve essere rinchiuso in un riformatorio. Lo permette una legge fascista, un regio decreto del 1939 allora in vigore, non so se lo sia ancora oggi: “Le case di rieducazione per minorenni sono destinate ai minori che per abitudini contratte o in dipendenza dello stato di abbandono in cui si trovano dànno manifeste prove di traviamento ed appaiono bisognosi di correzione morale”.
Davvero il rimedio più appropriato per aiutare un giovane incensurato che ha avuto una difficile vita. Il sistema più adatto a trasformare onesti ragazzi in criminali.
L’Istituto di osservazione per i minori di Firenze destina Franco Serantini all’Istituto di rieducazione maschile Pietro Thouar di Pisa in regime di semilibertà. L’équipe formata da uno psichiatra, da uno psicologo, da un assistente sociale, dopo un lungo esame, ritiene intelligente il ragazzo sardo. Il suo quoziente intellettuale è di 1,02, il quoziente medio è in genere di 0,70. Il direttore e gli educatori sono pregati di fare in modo di esaudire, al compimento del ventunesimo anno di età, il desiderio di Franco di arruolarsi in marina. Il mare, la libertà, e anche la madre…
…Franco Serantini si trova subito a suo agio in quel gran trambusto. Si è come risvegliato. Va a scuola volentieri, prende la licenza media, mancata in Sardegna, si iscrive all’Istituto professionale di Stato per il commercio che fa conseguire diplomi di contabili, segretari d’azienda, addetti agli uffici turistici.
È attento a tutto e a tutti, come se volesse recuperare un tempo perduto. Studia, legge quel che trova, confusamente, acerbamente, con difficoltà, privo com’è di ogni base di saperi. Non ha dimenticato i torti e le umiliazioni subìti da bambino, è naturalmente dalla parte del progresso sociale e civile. Frequenta la Federazione giovanile comunista, poi la federazione giovanile socialista. Non possiede idee generali, neppure a livello elementare, cerca di supplire con la volontà di capire. Spesso non comprende i linguaggi che devono tener conto delle tattiche partitiche. È una lastra levigata. Rifiuta le prudenze, le contraddizioni, gli opportunismi.
La strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, è un evento essenziale per comprendere quegli anni infuocati. Una cesura. Serantini si appassiona di quel che è accaduto a Milano, vuol sempre parlare di Valpreda, di Pinelli, della strage di Stato. Comincia a farsi vedere nella sede di Lotta Continua, è individualista, non accetta neppure le regole più normali del gruppo.
Si dà da fare, il ragazzo sardo. Donatore di sangue, cameriere d’estate a Viareggio, operaio stagionale in una fabbrica di piastrelle. Se non si racconta con minuzia la povera, ma orgogliosa vita di Franco Serantini, non si può comprendere appieno la ferocia della sua morte.
L’esperienza del mercato rosso al Cep, nato da un’idea di Lotta Continua, lo coinvolge come tutto quello di cui si occupa. Un gruppo di ragazzi compra negli orti frutta e verdura e la vende agli abitanti di quel quartiere popolare a prezzi molto inferiori ai negozi. Un’economia primitiva alla Robinson Crusoe. I commercianti della zona protestano, il clima di tensione si fa caldo, la polizia interviene, picchia i ragazzi, fa degli arresti. Franco se la cava a malapena durante una retata.
Il ragazzo sardo continua a leggere, vuol colmare i suoi vuoti, si appassiona a tutti i libri che gli capitano in mano. Compra, chissà come, chissà perché, “Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295” di Gaetano Salvemini. La sua è la faticata conquista di quell’istruzione che ha rifiutato e che gli è stata anche negata negli anni acerbi dell’adolescenza. La cultura come vita, strumento essenziale per capire il mondo. Costruita dal nulla sulla cera vergine.
Ha un carattere più aperto, meno difeso. fa la conoscenza di tre giovani coppie della borghesia colta. Lo invitano nelle loro case accoglienti. Sono spiritosi, affettuosi, cercano di dare anche un ordine al suo povero bagaglio culturale. È lieto, geloso di quelle amicizie, felice dell’amabile comprensione di persone così lontane dai mondi conosciuti fino ad allora.
Acquista un quaderno dalla copertina nera, ci scrive sopra tutto quel che gli viene in mente, Valpreda, Pinelli, i fatti della Bussola del ‘68, il ferimento di Soriano Ceccanti, la contestazione, l’autunno caldo. Appiccica sul quaderno articoli di giornale, fotografie, i testi delle canzoni di protesta, ma anche pezzi di saggi sull’esistenza di Dio e sull’immortalità dell’anima.
Frequenta un corso di contabilità d’azienda, fa lavori precari in un ufficio di perforazione schede appaltato dall’ IBM.
Con i suoi guadagni ha messo da parte qualche soldo e ha comprato un Ciao usato color blu. Su e giù per le strade della città, una festa…
…Franco Serantini è immobile, solo – un segno del destino – all’angolo tra il Lungarno Gambacorti e via Mazzini. Avrebbe potuto facilmente fuggire, salvarsi. Gli saltano addosso almeno in dieci poliziotti, lo tempestano di colpi, coi calci dei fucili, i manganelli, i piedi, i pugni, con ferocia, con crudeltà. Manifestano su quel povero ragazzo inerme tutta la loro rabbia, la loro furia, la loro frustrazione. Il suo corpo viene massacrato, al capo, al torace, sulle braccia, sulle spalle. L’esame necroscopico è impressionante, segno di quella terribile violenza. I 55 “rilievi fotografici eseguiti sul cadavere e su preparati istologici di frammenti di visceri prelevati nel corso dell’autopsia” fanno da atroce specchio al linciaggio. Neppure una piccola superficie del corpo di Franco è rimasta intoccata.
Due pagine del “Sovversivo” riproducono parola per parola i risultati ufficiali dell’autopsia. Dario Fo, alla presentazione del libro tenuta a Milano, alla Palazzina Liberty, lesse con voce grave quelle due pagine atroci. Senza un commento. Nel silenzio di ghiaccio di un migliaio di persone.
Anche nella morte Franco Serantini soffre della stessa sfortuna che gli è toccata in vita. Viene arrestato, poco dopo le 8 della sera di quel venerdì 5 maggio. Il commissario di PS annota sul suo verbale quel che gli viene contestato:”manifestazione sediziosa, vilipendio delle forze dell’ordine”. Non ha mosso un dito. Gridava insulti, nient’altro.
Viene portato in una caserma. Non riesce a restar ritto, dicono i testimoni. All’una di notte è rinchiuso nel carcere Don Bosco. Sta visibilmente male, è bianco come un cencio, ha il corpo spezzato. Dopo il mezzogiorno del sabato è interrogato in carcere dal sostituto procuratore della Repubblica Giovanni Sellaroli: non si rende conto che Franco sta morendo.
“Chiesto all’imputato – recita il verbale – per quale ragione si era recato nel luogo della città dove si verificarono i tumulti, risponde:”Ci andai perché ci si crede”. C’è tutto il carattere di Franco Serantini in questa risposta,la sua fierezza, il suo orgoglio.
“Chiesto al’imputato in che cosa crede, risponde:’Sono anarchico’”. Andò al comizio come “un cane sciolto”. Sta male, non riesce neppure a tener su la testa, risponde alle domande del magistrato con il capo appoggiato al tavolo. Viene chiuso in una cella di isolamento. Dev’essere considerato pericoloso un giovane ridotto in quello stato.
Un medico frettoloso lo visita nell’infermeria del carcere alle 4 e mezzo del pomeriggio. Gli prescrive: ”Sympatol-Cortigen, borsa di ghiaccio in permanenza”.
Anche un profano capirebbe che il ragazzo ha la testa rotta o qualcosa di molto grave, ma non risulta che gli sia stata misurata nemmeno la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la temperatura, la reattività della pupilla alla luce, prove che avrebbero rivelato subito la drammaticità delle condizioni del detenuto. Dentro il carcere Don Bosco, tra l’altro, funziona un attrezzato centro medico-specialistico adatto a ogni genere di intervento. L’ospedale è vicino.
Franco Serantini non viene ricoverato, non gli viene fatta una radiografia, viene semplicemente rimandato in cella da dove era venuto. Ma entro sera avrà la borsa di ghiaccio da mettere sul capo prescritta dal medico.
Muore alle 9,45 del 7 maggio 1972. Il certificato di morte parla di emorragia cerebrale. Tutto qui…
Sembra una storia ottocentesca, questa di Franco Serantini, ai limiti dell’invenzione settaria, priva di ogni luce, colma soltanto di miseria, di violenza, d’ ingiustizia. Fin dalla nascita Serantini conosce ad una ad una e senza pietà le sfortune dei poveri, passa attraverso le catene di sofferenza e di dolore che toccano sempre in sorte agli esclusi: la morte come una condanna che distrugge anche i precari equilibri di sussistenza, le disgrazie famigliari, le malattie, la disoccupazione, i conflitti di interesse tanto più crudi quanto più la roba contestata è modesta, gli affetti carenti come il mangiare, come la speranza.
L’Istituto del Buon Pastore è alla periferia di Cagliari in un quartiere chiamato “Il Giorgino”. Un ghetto sottoproletario, allora, con una desolata aria di abbandono, in un paesaggio nord-africano dove le stagioni sono segnate, dall’estate alla primavera successiva, dall’arrivo dei fenicotteri, una lunga striscia di uccelli bianchi, rosa e rossi che prendono dimora nello stagno di Santa Gilla.
Franco non ha ancora compiuto dieci anni, finisce le elementari. Poi le suore del collegio lo iscrivono alla scuola media “Giuseppe Manno” di Cagliari. È un bambino e poi un ragazzo chiuso, taciturno, infelice. Di carattere duro, difficile, bisognoso d’affetto e d’attenzione, matura nella solitudine i suoi pensieri attorcigliati e contorti. Non è un bravo scolaro e neppure un bravo studente. Ha ormai quindici anni, i suoi rapporti con le suore non sono buoni, il conflitto non ha tregua. A quell’età, negli istituti di assistenza, avviene quasi sempre la rottura con i ricoverati perché le amministrazioni provinciali smettono di pagare le rette. Agli inizi del 1968 le suore del Buon Pastore si rivolgono al giudice del Tribunale dei minorenni, esprimono l’impossibilità di continuare a ospitare Franco nell’Istituto, motivano le ragioni del conflitto con l‘umore del ragazzo, il cattivo carattere, la maleducazione, l’aggressività. Il Tribunale decide allora in questo modo, un capolavoro di umanità e di razionalità: “Siccome la personalità del giovane appare gravemente disturbata per assoluta carenza affettiva e lunga istituzionalizzazione, la personalità del soggetto deve essere bene aiutata con un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore”.
Il dispositivo della sentenza conclude che Serantini “per rimediare alla lunga istituzionalizzazione” deve essere rinchiuso in un riformatorio. Lo permette una legge fascista, un regio decreto del 1939 allora in vigore, non so se lo sia ancora oggi: “Le case di rieducazione per minorenni sono destinate ai minori che per abitudini contratte o in dipendenza dello stato di abbandono in cui si trovano dànno manifeste prove di traviamento ed appaiono bisognosi di correzione morale”.
Davvero il rimedio più appropriato per aiutare un giovane incensurato che ha avuto una difficile vita. Il sistema più adatto a trasformare onesti ragazzi in criminali.
L’Istituto di osservazione per i minori di Firenze destina Franco Serantini all’Istituto di rieducazione maschile Pietro Thouar di Pisa in regime di semilibertà. L’équipe formata da uno psichiatra, da uno psicologo, da un assistente sociale, dopo un lungo esame, ritiene intelligente il ragazzo sardo. Il suo quoziente intellettuale è di 1,02, il quoziente medio è in genere di 0,70. Il direttore e gli educatori sono pregati di fare in modo di esaudire, al compimento del ventunesimo anno di età, il desiderio di Franco di arruolarsi in marina. Il mare, la libertà, e anche la madre…
…Franco Serantini si trova subito a suo agio in quel gran trambusto. Si è come risvegliato. Va a scuola volentieri, prende la licenza media, mancata in Sardegna, si iscrive all’Istituto professionale di Stato per il commercio che fa conseguire diplomi di contabili, segretari d’azienda, addetti agli uffici turistici.
È attento a tutto e a tutti, come se volesse recuperare un tempo perduto. Studia, legge quel che trova, confusamente, acerbamente, con difficoltà, privo com’è di ogni base di saperi. Non ha dimenticato i torti e le umiliazioni subìti da bambino, è naturalmente dalla parte del progresso sociale e civile. Frequenta la Federazione giovanile comunista, poi la federazione giovanile socialista. Non possiede idee generali, neppure a livello elementare, cerca di supplire con la volontà di capire. Spesso non comprende i linguaggi che devono tener conto delle tattiche partitiche. È una lastra levigata. Rifiuta le prudenze, le contraddizioni, gli opportunismi.
La strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, è un evento essenziale per comprendere quegli anni infuocati. Una cesura. Serantini si appassiona di quel che è accaduto a Milano, vuol sempre parlare di Valpreda, di Pinelli, della strage di Stato. Comincia a farsi vedere nella sede di Lotta Continua, è individualista, non accetta neppure le regole più normali del gruppo.
Si dà da fare, il ragazzo sardo. Donatore di sangue, cameriere d’estate a Viareggio, operaio stagionale in una fabbrica di piastrelle. Se non si racconta con minuzia la povera, ma orgogliosa vita di Franco Serantini, non si può comprendere appieno la ferocia della sua morte.
L’esperienza del mercato rosso al Cep, nato da un’idea di Lotta Continua, lo coinvolge come tutto quello di cui si occupa. Un gruppo di ragazzi compra negli orti frutta e verdura e la vende agli abitanti di quel quartiere popolare a prezzi molto inferiori ai negozi. Un’economia primitiva alla Robinson Crusoe. I commercianti della zona protestano, il clima di tensione si fa caldo, la polizia interviene, picchia i ragazzi, fa degli arresti. Franco se la cava a malapena durante una retata.
Il ragazzo sardo continua a leggere, vuol colmare i suoi vuoti, si appassiona a tutti i libri che gli capitano in mano. Compra, chissà come, chissà perché, “Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295” di Gaetano Salvemini. La sua è la faticata conquista di quell’istruzione che ha rifiutato e che gli è stata anche negata negli anni acerbi dell’adolescenza. La cultura come vita, strumento essenziale per capire il mondo. Costruita dal nulla sulla cera vergine.
Ha un carattere più aperto, meno difeso. fa la conoscenza di tre giovani coppie della borghesia colta. Lo invitano nelle loro case accoglienti. Sono spiritosi, affettuosi, cercano di dare anche un ordine al suo povero bagaglio culturale. È lieto, geloso di quelle amicizie, felice dell’amabile comprensione di persone così lontane dai mondi conosciuti fino ad allora.
Acquista un quaderno dalla copertina nera, ci scrive sopra tutto quel che gli viene in mente, Valpreda, Pinelli, i fatti della Bussola del ‘68, il ferimento di Soriano Ceccanti, la contestazione, l’autunno caldo. Appiccica sul quaderno articoli di giornale, fotografie, i testi delle canzoni di protesta, ma anche pezzi di saggi sull’esistenza di Dio e sull’immortalità dell’anima.
Frequenta un corso di contabilità d’azienda, fa lavori precari in un ufficio di perforazione schede appaltato dall’ IBM.
Con i suoi guadagni ha messo da parte qualche soldo e ha comprato un Ciao usato color blu. Su e giù per le strade della città, una festa…
…Franco Serantini è immobile, solo – un segno del destino – all’angolo tra il Lungarno Gambacorti e via Mazzini. Avrebbe potuto facilmente fuggire, salvarsi. Gli saltano addosso almeno in dieci poliziotti, lo tempestano di colpi, coi calci dei fucili, i manganelli, i piedi, i pugni, con ferocia, con crudeltà. Manifestano su quel povero ragazzo inerme tutta la loro rabbia, la loro furia, la loro frustrazione. Il suo corpo viene massacrato, al capo, al torace, sulle braccia, sulle spalle. L’esame necroscopico è impressionante, segno di quella terribile violenza. I 55 “rilievi fotografici eseguiti sul cadavere e su preparati istologici di frammenti di visceri prelevati nel corso dell’autopsia” fanno da atroce specchio al linciaggio. Neppure una piccola superficie del corpo di Franco è rimasta intoccata.
Due pagine del “Sovversivo” riproducono parola per parola i risultati ufficiali dell’autopsia. Dario Fo, alla presentazione del libro tenuta a Milano, alla Palazzina Liberty, lesse con voce grave quelle due pagine atroci. Senza un commento. Nel silenzio di ghiaccio di un migliaio di persone.
Anche nella morte Franco Serantini soffre della stessa sfortuna che gli è toccata in vita. Viene arrestato, poco dopo le 8 della sera di quel venerdì 5 maggio. Il commissario di PS annota sul suo verbale quel che gli viene contestato:”manifestazione sediziosa, vilipendio delle forze dell’ordine”. Non ha mosso un dito. Gridava insulti, nient’altro.
Viene portato in una caserma. Non riesce a restar ritto, dicono i testimoni. All’una di notte è rinchiuso nel carcere Don Bosco. Sta visibilmente male, è bianco come un cencio, ha il corpo spezzato. Dopo il mezzogiorno del sabato è interrogato in carcere dal sostituto procuratore della Repubblica Giovanni Sellaroli: non si rende conto che Franco sta morendo.
“Chiesto all’imputato – recita il verbale – per quale ragione si era recato nel luogo della città dove si verificarono i tumulti, risponde:”Ci andai perché ci si crede”. C’è tutto il carattere di Franco Serantini in questa risposta,la sua fierezza, il suo orgoglio.
“Chiesto al’imputato in che cosa crede, risponde:’Sono anarchico’”. Andò al comizio come “un cane sciolto”. Sta male, non riesce neppure a tener su la testa, risponde alle domande del magistrato con il capo appoggiato al tavolo. Viene chiuso in una cella di isolamento. Dev’essere considerato pericoloso un giovane ridotto in quello stato.
Un medico frettoloso lo visita nell’infermeria del carcere alle 4 e mezzo del pomeriggio. Gli prescrive: ”Sympatol-Cortigen, borsa di ghiaccio in permanenza”.
Anche un profano capirebbe che il ragazzo ha la testa rotta o qualcosa di molto grave, ma non risulta che gli sia stata misurata nemmeno la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la temperatura, la reattività della pupilla alla luce, prove che avrebbero rivelato subito la drammaticità delle condizioni del detenuto. Dentro il carcere Don Bosco, tra l’altro, funziona un attrezzato centro medico-specialistico adatto a ogni genere di intervento. L’ospedale è vicino.
Franco Serantini non viene ricoverato, non gli viene fatta una radiografia, viene semplicemente rimandato in cella da dove era venuto. Ma entro sera avrà la borsa di ghiaccio da mettere sul capo prescritta dal medico.
Muore alle 9,45 del 7 maggio 1972. Il certificato di morte parla di emorragia cerebrale. Tutto qui…
Corrado Staiano – Rivista anarchica n. 363 giugno 2011
…Lo interessa la storia, il fascismo, la Resistenza, è rimasto molto colpito dalla morte di Pinelli, ne parla con la professoressa di italiano, Anna Maria Montella. In un tema scrive della Sardegna, si vanta di esser capace di fare il formaggio e la ricotta per aver vissuto, chissà quando, con dei pastori.
Non è settario, gli piace discutere con tutti, con il cappellano del riformatorio, con l’insegnante di religione. Ricorda il preside, Fulgido Lucani: “Mi parlava di sé, di come avrebbe voluto la società, libera e giusta, col tacito accordo che nessuno di noi due doveva far opera di persuasione nei confronti dell’altro. Conosceva bene la mia posizione religiosa, di cattolico e ideologica, sono iscritto alla Democrazia Cristiana. Durante il periodo pasquale, quando venne il sacerdote per la benedizione delle aule, mi chiese di non assistere alla cerimonia, titubante. Gli dissi che era nel suo diritto. Le sue parole furono amare: ‘La famiglia, la religione, la società costituita sono miti che finora mi hanno fatto del male’. Non gli risposi”…
…Verbale d’interrogatorio dell’imputato Serantini Franco.
A domanda risponde: “Dicono che io abbia lanciato contro la polizia pietre ed altro materiale incendiario, ma per la verità non riesco a ricordare”.
Chiesto all’imputato per quale ragione si era recato ieri sera nel luogo della città dove si verificarono i tumulti, risponde: “Ci andai perché ci si crede”.
a.d.r. Chiesto all’imputato in che cosa crede, risponde: “Sono anarchico”.
a.d.r. “Fui arrestato nel corso di una carica, mentre scappavo. Mi giunsero addosso una decina di poliziotti e mi colpirono alla testa. Accuso infatti forti dolori al capo ancora attualmente”.
a.d.r. “Non credo di avere insultato la polizia. Uno dei poliziotti che mi fermò sostiene che io l’abbia chiamato ‘porco’, ma non credo di averlo fatto, perché non è la mia frase abituale”,
a.d.r. “Non credo di avere avuto tra le mani ieri sera pietre o bottiglie incendiarie; anche perché persi gli occhiali e non sarei stato in grado di lanciarle”.
a.d.r. “Quando mi recai alla manifestazione ieri sera non ero d’accordo con nessuno; ci andai come ‘cane sciolto’…
Non è settario, gli piace discutere con tutti, con il cappellano del riformatorio, con l’insegnante di religione. Ricorda il preside, Fulgido Lucani: “Mi parlava di sé, di come avrebbe voluto la società, libera e giusta, col tacito accordo che nessuno di noi due doveva far opera di persuasione nei confronti dell’altro. Conosceva bene la mia posizione religiosa, di cattolico e ideologica, sono iscritto alla Democrazia Cristiana. Durante il periodo pasquale, quando venne il sacerdote per la benedizione delle aule, mi chiese di non assistere alla cerimonia, titubante. Gli dissi che era nel suo diritto. Le sue parole furono amare: ‘La famiglia, la religione, la società costituita sono miti che finora mi hanno fatto del male’. Non gli risposi”…
…Verbale d’interrogatorio dell’imputato Serantini Franco.
A domanda risponde: “Dicono che io abbia lanciato contro la polizia pietre ed altro materiale incendiario, ma per la verità non riesco a ricordare”.
Chiesto all’imputato per quale ragione si era recato ieri sera nel luogo della città dove si verificarono i tumulti, risponde: “Ci andai perché ci si crede”.
a.d.r. Chiesto all’imputato in che cosa crede, risponde: “Sono anarchico”.
a.d.r. “Fui arrestato nel corso di una carica, mentre scappavo. Mi giunsero addosso una decina di poliziotti e mi colpirono alla testa. Accuso infatti forti dolori al capo ancora attualmente”.
a.d.r. “Non credo di avere insultato la polizia. Uno dei poliziotti che mi fermò sostiene che io l’abbia chiamato ‘porco’, ma non credo di averlo fatto, perché non è la mia frase abituale”,
a.d.r. “Non credo di avere avuto tra le mani ieri sera pietre o bottiglie incendiarie; anche perché persi gli occhiali e non sarei stato in grado di lanciarle”.
a.d.r. “Quando mi recai alla manifestazione ieri sera non ero d’accordo con nessuno; ci andai come ‘cane sciolto’…
Corrado Staiano – Rivista anarchica n. 281 maggio 2002
Non so se si possa piangere, eppure rileggendo dopo un'infinità di tempo queste righe, l'ho fatto con tutta l'anima.
RispondiElimina“Ci andai perché ci si crede” è una frase bellissima, basta solo una frase così a commuovere.
Eliminaquel ragazzo con gli occhiali e la bandiera è proprio come eravamo.
povero Franco.