giovedì 31 ottobre 2024

Quanti errori grossolani a furia di considerare intoccabili e non criticabili le forze dell’ordine - Lorenzo Guadagnucci


(da Altreconomia)


Giorgia Meloni sdegnata (“Le forze dell’ordine meritano rispetto, non simili ingiurie”), Matteo Salvini indignato (“Se a questi signori piacciono tanto rom e clandestini, se li portino a Strasburgo”), il presidente Sergio Mattarella perfino “stupito”.

A giudicare dalla reazione dei vertici istituzionali, il meno che si possa dire del nuovo rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri), è che la Repubblica italiana ha dimostrato di avere davvero un serio problema con sé stessa e in particolare con le sue forze dell’ordine, che difende con cieco ardore, ma a prescindere dalla realtà.

L’Ecri ha messo nero su bianco, forte di una documentazione che nessuno ha osato mettere in discussione, ciò che già sappiamo, ossia che le forze dell’ordine italiane praticano forme di razzismo istituzionale, specialmente verso persone immigrate (specie se africane), famiglie rom, persone non eterosessuali. E c’è davvero da stupirsi che sia così?

Viviamo nel Paese in cui il discorso d’odio è pratica quotidiana di leader politici di primo piano (è ancora fresco il truce e francamente ignobile commento del ministro Salvini dopo l’uccisione di un giovane immigrato da parte di un agente: “Con tutto il rispetto, non ci mancherà”). Viviamo nel “Paese dei campi”, l’unico in Europa che da decenni segrega le famiglie rom e sinti fuori dai centri urbani e così le espone alla diffidenza e riprovazione sociale, accusandole poi di non volersi integrare.

Nel Paese che mantiene una tardo-ottocentesca legge sulla cittadinanza e nega la carta d’identità, fino ai 18 anni, perfino a chi nasce, vive e cresce sul suolo patrio, se i genitori sono stranieri. Nel Paese che contrasta l’immigrazione con tutti i mezzi: dal divieto d’ingresso generalizzato, ai centri di detenzione (ora anche delocalizzati), fino alla guerra alle navi di soccorso impegnate nei salvataggi dei naufraghi nel Mediterraneo. Nel Paese che chiama “clandestini” i rifugiati e i richiedenti asilo, e “immigrati di seconda e terza generazione” chi immigrato non è, se figlio o nipote di persone straniere (specie se di pelle nera).

Nel Paese che oltre vent’anni fa mostrò all’Europa e al mondo ciò che le sue forze dell’ordine possono arrivare a fare: era il 2001, Genova ospitava il G8 e ai torturati di Bolzaneto capitò di sentire gruppi di agenti intonare un coro che faceva così: “Uno-due-tre viva Pinochet; quattro-cinque-sei morte agli ebrei; sette-otto-nove il negretto non commuove”.

No, non c’è da stupirsi, e tanto meno da indignarsi, se la Commissione del Consiglio d’Europa segnala casi di “profilazione razziale” da parte delle polizie italiane e fa notare che queste “non sembrano essere consapevoli della gravità del problema”. Non c’è da stupirsi se “si rammarica del fatto che negli ultimi anni poco o niente sia stato fatto per garantire una maggiore responsabilità nei casi di abusi razzisti o LGBTI-fobici commessi da agenti della polizia di Stato, carabinieri e altri agenti delle forze dell’ordine”.

Non c’è nulla di cui stupirsi, nel Paese in cui i vertici politici e delle forze dell’ordine non hanno mai rinnegato e “sanato” nemmeno gli enormi abusi commessi al G8 di Genova, e semmai ci sarebbe da ringraziare la Commissione, perché il suo sguardo esterno consente di vedere ciò dall’interno resta invisibile, a causa dell’incapacità delle istituzioni italiane di essere oneste con sé stesse.

A furia di considerare le forze dell’ordine intoccabili e non criticabili, errori e abusi si sono accumulati senza mai essere affrontati, e ora si pretenderebbe di avere -o di far credere di avere- apparati di polizia immuni dal discorso d’odio, dal razzismo strisciante, dall’antiziganismo, dall’omotransfobia che circolano largamente nella società, nei media, nel discorso politico corrente.

Le parole spese da vari ministri, dalla presidente del Consiglio e dal capo dello Stato purtroppo non sorprendono, semmai avviliscono, perché i “consigli” indicati dal rapporto Ecri vanno nella direzione giusta, avendo un unico difetto: per essere considerati e accolti, è necessario che vi sia nelle istituzioni la consapevolezza di avere un problema. Senza indignarsi e tanto meno stupirsi.

da qui

Ci mangiamo la Georgia? - Andrea Lombardi

 

mercoledì 30 ottobre 2024

Amazzonia – James Rollins

un'avventura in Amazzonia alla ricerca della sostanza che ha fatto ricrescere un braccio a chi non ce l'aveva.

senza risparmio di colpi di scena, un gruppo guidato dalla CIA (maledetti!) e dalle imprese farmaceutiche a stelle e strisce contribuisce al genocidio amazzonico, alla ricerca dell'elisir rigenerativo.

resistono gli indigeni e alcuni loro alleati.

un libro appassionante da cui non ti stacchi fino alla parola fine.


 

 

 

E’ uno spettacolo orribile quello che si presenta a padre Garcia, il sacerdote della missione di Wauwai, in Amazzonia: un uomo emaciato e coperto di piaghe esce dalla giungla e si accascia ai suoi piedi, esalando poco dopo l’ultimo respiro. Padre Garcia non sa che, quattro anni prima, quell’uomo faceva parte di una spedizione scientifica poi svanita nel nulla. La CIA, invece, lo identifica come Gerald Clark, un ex agente delle Forze Speciali, la cui carriera era stata stroncata dalla perdita di un braccio durante una missione in Iraq. Adesso, però, Clark ha entrambe le braccia. Per trovare una spiegazione a un evento così sconvolgente, il governo incarica Nathan Rand di organizzare una nuova missione per seguire l’itinerario della prima spedizione che sembra condurre al villaggio di una leggendaria tribù. Ma il cuore della giungla nasconde un segreto inviolabile, un segreto che genera paura, follia e morte.

da qui

 

Uno dei romanzi meglio riusciti di Rollins. Una storia così avvincente che ti tiene incollato al libro fino all'ultima pagina, con un finale per nulla scontato. Il ritmo è incalzante. Ci ricorda la grande responsabilità a cui siamo chiamati rispetto agli ultimi paradisi del nostro pianete e come sia fondamentale considerare alcuni luoghi e alcuni valori beni comuni globali perché il loro danneggiamento o deterioramento sono a detrimento dell'intera umanità. L'ambientazione del testo è meravigliosa e intrigante.

da qui

 

È uno dei miei libri preferiti ed ogni tanto lo rileggo. La trama è avvincente, i personaggi interessanti e la parte naturalistica eccezionale. La base è d'avventura, ma con quel tocco di fantascientifico che caratterizza Rollins. Mi piace molto quando questi due mondi si mischiano, perché non sai mai che risultato aspettarti. E vi assicuro che il risultato di Amazzonia merita!

da qui

EMMANUEL TODD - ecco come gli USA spiano e ricattano le nostre classi dirigenti

 

martedì 29 ottobre 2024

per il Governo Meloni, la guerra a Gaza è una polizza assicurativa - Tommaso Di Francesco

 

Vita contro denaro. Elogio delle follie necessarie - John Holloway

 

Il denaro, silenzioso e incontestato, colora il mondo con un grigio che non percepiamo perché non ne conosciamo altro. Tuttavia la ribellione contro il dominio del denaro è costante, diffusa in tutto il mondo e assume ogni giorno direzioni diverse, alcune sono alimentate perfino dalle nuove destre. Ma come fa il denaro a governare il mondo? Perché è possibile sostenere che la vita è contro il denaro? Prendere le parti della vita contro il denaro è follia? Un testo di John Holloway fa sue queste domande


Nella serie di comunicati del 2021 che annunciavano il loro Viaggio per la vita, iniziato in Europa, gli zapatisti hanno parlato del “conflitto attuale in tutto il mondo: denaro contro la vita. E in questo conflitto, in questa guerra, nessuna persona onesta dovrebbe essere neutrale: con il denaro o con la vita”. Probabilmente la maggior parte di noi riconosce una verità in questo. E allo stesso tempo, sentiamo che è ridicolo, impossibile. Come possiamo pensare una verità impossibile? Soldi contro la vita, la vita contro il denaro: follia. Voglio esplorare questa follia.

Il denaro contro la vita

Il denaro pervade le nostre vite così profondamente che non lo vediamo. È una seconda natura: una costruzione sociale data per scontata come l’aria che respiriamo. Il centro stesso del potere, ma non appare quasi mai nelle discussioni sul potere. Pur essendo la chiave per il modo in cui le persone si relazionano tra loro, è quasi assente dalla sociologia. È il più grande tabù, più della sessualità o del genere. Possiamo mettere in discussione i ricchi, ma non il denaro come forma di relazione sociale. Possiamo studiare i dettagli dei movimenti finanziari, ma la nozione di una società senza denaro è assurda. Il denaro, silenzioso e incontestato, colora il mondo con un grigio che non percepiamo perché non ne conosciamo altro. Modella la grammatica del nostro pensiero e del nostro discorso con la stessa sicurezza che i paraocchi mettono sugli occhi di un cavallo.

Il denaro è l’armatura dell’attività sociale. Ogni società è un modello di coesione sociale o, meglio, una confluenza sociale di attività. Le attività umane sono socializzate, in qualche modo messe in relazione. Nel capitalismo, come ha sottolineato Marx, questa confluenza è realizzata prevalentemente attraverso lo scambio di merci e questa confluenza di merci genera ed è facilitata dal denaro. È soprattutto attraverso il denaro che le attività umane sono messe in relazione tra loro.

Come modo di sfruttare le attività, il denaro è enormemente potente. Come dice Ferguson (2019), “il denaro è la radice del maggior progresso… l’ascesa del denaro è stata essenziale per l’ascesa dell’uomo … l’innovazione finanziaria è stata un fattore indispensabile nell’avanzamento dell’uomo dalla misera sussistenza alle vertiginose vette della prosperità materiale che oggi hanno così tante persone…”. Oppure, come Marx ed Engels lo definiscono, la regola del denaro, concentrata nelle mani della borghesia “è stata la prima a mostrare ciò che l’attività dell’uomo può produrre. Ha compiuto meraviglie ben superiori alle piramidi egiziane, agli acquedotti romani e alle cattedrali gotiche” (1848/1976, 487). Se confrontiamo le meraviglie che l’attività umana ha realizzato da allora attraverso la gestione del denaro con ciò che Marx ed Engels avevano visto, un progresso ben al di là di qualsiasi cosa avrebbero potuto immaginare, diventa chiaro quanto sia folle proporre l’abolizione del denaro.

Il problema sta nell’imbracatura. Un’imbracatura viene messa su un cavallo (o su una coppia di cavalli) per imporre una certa direzione ai suoi movimenti. Se due cavalli sono imbrigliati (o aggiogati) insieme per tirare un aratro, ad esempio, questo dirige il loro movimento, su e giù, su e giù, in modo molto efficace per lo scopo di coltivare i raccolti, ma molto lontano da quello che sarebbero le loro attività in assenza dell’imbracatura (o giogo). Nel denaro abbiamo un cablaggio che impone una direzione all’attività umana. Converte l’attività in lavoro, o ciò che Marx chiamava “lavoro astratto” o “alienato”. Le attività sono legate tra loro in un certo modo, determinato non dagli attori stessi ma dalla socialità impersonale del denaro-vincolo: questa socialità impersonale che è la regola del denaro è spinta avanti non da una decisione consapevole ma dal perseguimento della propria espansione personale. Il progresso umano è modellato dall’impulso costante dell’auto-espansione del denaro, o del valore (di cui il denaro è l’espressione più visibile).

L’enorme progresso compiuto senza dubbio dalla capitalizzazione del denaro non è un progresso neutro: esso è determinato dal perseguimento del profitto (l’auto-espansione del valore/denaro). Ciò crea due grossi problemiPrimo, quello che fa all’attività umana: costringendo all’attività-lavoro, impone alle persone un’attività-vita che non controllano né per contenuto né per ritmo e il cui prodotto è appropriato al servizio del profitto. In altre parole, il progresso monetario è basato sullo sfruttamento. Oltre a questo, il progresso monetario è enormemente distruttivo. “I prezzi economici delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa sbatte giù tutte le mura cinesi” (Marx ed Engels 1848/1976, 488). Distrugge comunità, lingue, foreste, modi di relazionarsi con altre forme di vita. Abbatte la possibilità di sopravvivere fuori dal denaro: milioni di agricoltori di sussistenza sono costretti a integrarsi nel dominio del denaro lasciando le loro fattorie e trasferendosi nei bassifondi delle grandi città. Ed è sempre più evidente che la sua artiglieria pesante sta distruggendo le condizioni necessarie per l’esistenza umana, sta distruggendo l’ambiente naturale.

Soldi contro la vita. Ovvio, ma difficile da dire. La preoccupazione per il futuro della vita umana è cresciuta enormemente negli ultimi anni, ma il tabù del denaro è enormemente potente. Moltissime persone dedicano la loro vita alla lotta contro la distruzione dell’ambiente, lottano per la conservazione delle specie vegetali e animali, lavorano per la sostituzione dei combustibili fossili con altre fonti di energia. Tutto questo è molto importante, ma resta entro i limiti imposti non mettendo in discussione l’incontestabile, non menzionando l’indicibile: la regola del denaro.

La vita contro il denaro

Il cavallo armato va su e giù tirando l’aratro, su e giù. L’umano armato va al lavoro la mattina, va al lavoro la mattina, va al lavoro la mattina…

“Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. […] la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle leggi naturali della produzione, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse”.

La regola del denaro è la regola della ottusa compulsione delle relazioni economiche. Marx ha ragione. Ma Marx ha torto.

Quali che siano i pensieri e le azioni ribelli dei cavalli, non è certo vero che per gli esseri umani la ottusa compulsione delle relazioni economiche sia totale. La ribellione contro il dominio del denaro è costante. Si esprime nei sogni, nel sabotaggio, negli scioperi, nelle malattie reali o finte, nei collassi mentali, negli studenti che fanno il dottorato come fuga temporanea, nei progetti che sviluppano modi alternativi di vivere senza denaro, in relazioni d’amore e di amicizia dalle quali il denaro è escluso, nell’evidenza speculare di tutto l’apparato di contenimento e controllo, dalla polizia alle carceri, dalle scuole agli psicologi. Il denaro governa, ma la vita reagisce. Il denaro non è solo dominio, ma antagonismo, un processo di attacco affrontato da contrattacco.

La vita contro il denaro è insita nel dominio antagonista del denaro. Il denaro contiene ma la vita trabocca. La vita è più che la sopravvivenza: la sopravvivenza è la vita contenuta da una ottusa compulsione, per seguire la distinzione di Raoul Vaneigem, ma la vita è più di questo. La vita è il traboccamento di ricchezza dal denaro-ricchezza, la presenza oggi del mondo che non è ancora, ma potrebbe essere. Il grigiore con cui il denaro riempie il mondo nasconde un milione di lotte, aneliti appassionati, resistenze disperate e ribellioni. Ma non è sufficiente.


 

Denaro, violenza e contratto sociale

Non è abbastanza. Il denaro governa ancora. Perché permettiamo a questa peculiare forma di organizzazione chiamata denaro, a questo porcile, di entrare in noi e di spingerci verso la nostra stessa estinzione? In parte è semplicemente violenza. Il governo del denaro è sostenuto quotidianamente dall’uso e dalla minaccia della violenza, molto più di quanto suggerisca la citazione di Marx. Ma c’è anche un elemento di compulsione ottusa. La compulsione ottusa implica una nozione di contratto. Nel caso del cavallo imbrigliato, c’è un implicito accordo che il proprietario del cavallo nutrirà il cavallo e fornirà riparo. Nel caso dei lavoratori umani, esiste un contratto esplicito di lavoro che fornisce al lavoratore cibo e riparo e assicura la ripetizione quotidiana del lavoro.
Al di là del contratto salariale, esiste una sorta di contratto sociale. La nozione liberale di contratto sociale è fuorviante, in quanto suggerisce l’esistenza di un popolo omogeneo che accetta il sistema attuale di governo. Eppure la riproduzione del dominio del denaro non è basata solo sulla violenza diretta o sull’egemonia ideologica. Esiste un compromesso materiale (o contratto sociale) che sottende il contenimento della vita all’interno del denaro. Esiste una sorta di accordo in base al quale le persone (compresi i lavoratori oppressi) dicono “chiuderemo gli occhi alla violenza e all’ingiustizia e agli orrori del sistema, a condizione che…”. Il “purché” possa essere “purché noi abbiamo abbastanza da mangiare, purché i nostri figli abbiano una vita più facile di quella che abbiamo avuto, purché noi siamo in grado di avere gli smartphone, purché ci sia un buon servizio sanitario, purché il riscaldamento globale sia tenuto sotto controllo, a condizione che la crescita economica consenta di soddisfare le nostre aspettative”. “Chiuderemo gli occhi su Gaza e sul coinvolgimento attivo nel genocidio di tanti governi, a condizione che possiamo andare a casa ogni giorno e avere una buona cena”.

L’ottusa costrizione della vita quotidiana che mantiene in vigore il governo del denaro è assicurata non solo dalla violenza o dall’ideologia ma da un compromesso materiale e in continuo cambiamento che varia enormemente per diversi gruppi di persone, ma è sufficiente a tenere gli occhi chiusi, per mantenere i nostri paraocchi al loro posto. Si è detto che il governo cinese accetta di dover mantenere un tasso di crescita annuo del 6 per cento per garantire la stabilità sociale: questo può non essere vero, ma esprime graficamente la nozione di un compromesso materiale tra la nostra accettazione e un certo livello di ricompensa materiale.

Le due fragilità di quel contratto

Che cosa succede se questo contratto si rompe? Sta succedendo?
Il contratto sociale è un contratto di contenimento: manterremo la nostra attività entro certi limiti, a condizione che ci dia quello di cui abbiamo bisogno per vivere. Questa è l’essenza del contratto di lavoro (il contratto per la vendita della nostra forza-lavoro) e del contratto sociale in generale. Un fallimento del contratto significherebbe che il contenimento non contiene più.

Le due parti del contratto sono fragili. Il capitale è la costante ridefinizione di “certi limiti” entro i quali deve essere contenuta la nostra attività. Questo fenomeno è spesso indicato come “la tendenza al calo del tasso di profitto”. Il denaro (o la sua forma sviluppata, capitale) lega insieme l’attività umana in un modo che contemporaneamente espelle quell’attività e la sostituisce con le macchine che ha prodotto. Ciò crea una pressione per intensificare il lavoro di coloro che rimangono a coprire i costi della macchina. Se ciò non può essere fatto, l’auto espansione del valore rallenterà e il tasso di profitto diminuirà. Per riprodursi, il capitale è costretto a diventare sempre più esigente, a intensificare lo sfruttamento ed eliminare ogni uso di risorse che non contribuisca alla redditività. Il capitale è una spinta costante a stringere i limiti entro cui si trova la nostra attività, a subordinare la vita umana e non umana alla sua logica. Sembra che questo contenimento stia diventando più difficile, che il capitale non sia in grado di sfruttarci a sufficienza per mantenere un tasso di crescita allo stesso livello del passato.

L’altro lato del contratto, il “a condizione che ci dia quello di cui abbiamo bisogno per vivere…” è anche fragile. Il salario reale è cresciuto poco negli ultimi quarant’anni. I sistemi statali di sostegno sociale sono diminuiti. La pandemia e le restrizioni sociali che l’accompagnavano non hanno soddisfatto le nostre aspettative della vita di cui potevamo godere. Quando pensiamo al futuro e alla vita dei nostri figli, c’è una sensazione ancora più forte che il sistema non ci stia fornendo ciò di cui abbiamo bisogno. Poi vediamo orrori come Gaza e pensiamo che va ben oltre quello che possiamo accettare. Terremo gli occhi chiusi a condizione che … , ma a condizione che … non sia soddisfatta.

C’è un problema: il capitale non si sta espandendo abbastanza

Il contratto sociale è un contratto tra denaro e vita: noi ti diamo del denaro, tu ci dai la vita. Noi ti diamo i soldi e tu accetti l’ottusa costrizione della vita quotidiana, giorno dopo giorno, su e giù, su e giù… Vi diamo i soldi e accettate una vita di sfruttamento, una vita che è soggetta e definita dalla logica della nostra auto-espansione.

Ma il capitale non si sta espandendo abbastanza. Questo ci dice che non siamo sfruttati abbastanza, che il capitale deve sfruttarci di più. Oppure, se questo non può essere raggiunto, allora deve mantenere il sistema in funzione fingendo di sfruttarci sufficientemente. Ciò si ottiene separando la rappresentazione monetaria del valore dal valore effettivamente prodotto. In altre parole, aumentando il debito. Il debito permette la riproduzione del capitale sulla base di un plusvalore che non è ancora stato prodotto, ma che si prevede sarà prodotto domani. La riproduzione del capitale negli ultimi quarant’anni o giù di lì è stata fortemente basata sull’espansione globale del debito su scala senza precedenti. Si tratta di un’espansione del capitale fittizio, capitale che non è basato sulla produzione reale di valore. Ciò favorisce la riproduzione del contratto sociale, ma lo fa sulla base di una crescente fragilità, volubilità e inefficienza.

Un lato del tentativo di mantenere la stabilità del sistema è finto basato sull’espansione del debito. L’altro lato è semplicemente la violenza: l’ascesa di Stati sempre più autoritari, il crescente potere della polizia e dell’esercito, il divieto e la repressione delle proteste.

Se la vita trabocca oltre il denaro

Il contratto sociale si sta spezzando? O, come viene talvolta detto, siamo nel bel mezzo di una crisi della civiltà? La domanda diventa più interessante se aggiungiamo: la civiltà è basata sulla regola del denaro che si rompe? È la regola del denaro sopra la vita in crisi? La vita trabocca dal suo contenitore, il denaro?

Esiste certamente una concezione liberale della crisi della civiltà che ha molto peso. In questa prospettiva, la tolleranza civile che ha prevalso nel dopoguerra è ora minacciata. Si registrano alti livelli di occupazione, si riduce la povertà, si registra una limitata migrazione, non si verificano guerre importanti, la posizione delle donne e delle minoranze sessuali è migliorata in modo evidente. Questo è ora messo in pericolo dalla crescita della nuova destra in molte parti del mondo, con le loro dottrine di odio contro i migranti, le donne, i gay e i loro attacchi alla democrazia. Di conseguenza, dobbiamo difendere la democrazia, la civiltà, la tolleranza, combattere la nuova destra e votare contro di essa in ogni occasione.

L’argomento liberale è enormemente potente. Ma poi ricordiamo che la civiltà di cui parlano è una civiltà basata sul governo del denaro, sul governo del capitale. La regola del denaro “abbatte tutti i muri cinesi”, come hanno detto Marx ed Engels, e ora sta abbattendo la civiltà che lo ha sostenuto. Difendere la civiltà significa difendere il dominio del denaro che sta distruggendo la civiltà.

Meglio, allora, partire dalla vita, non dalla civiltà-denaro. La vita è ricchezza contro denaro. È il nostro che-cosa-potremmo-fare contro la trappola imposta su di noi dal denaro. Il nostro che-potremmo-fare, la nostra potenza di creazione, le nostre forze produttive contro i rapporti di produzione imposti dal denaro. È antagonistico, è rabbia, rabbia contro il dominio del denaro. Vogliamo rompere questa civiltà-denaro, non difenderla.

Ma la rabbia scorre in direzioni diverse. Questo è il problema. C’è la rabbia dignitosa, la digna rabia degli zapatisti: una rabbia che lotta per la vita e contro il dominio del denaro, una rabbia che trabocca. Ma poi c’è anche l’identificazione della rabbia, la rabbia che si muove all’interno dell’identificazione del contenimento del denaro-stato-capitale. L’ascesa della Nuova Destra è l’ascesa dell’identificazione, dell’attribuzione di un’identificazione astratta alle persone, del loro etichettamento, del loro essere altro. Una volta etichettati, le persone sono disumanizzate, diventano eliminabili, homo sacer. Le etichette sono gli occhiali sui nostri occhi che ci impediscono di vedere le persone nei loro dolori e nelle loro passioni, nelle loro speranze e nei loro amori. La rabbia dignitosa lotta per far cadere quei paraocchi, per riconoscere il dolore nascosto dall’identità. Questo significa non etichettare i sostenitori della nuova destra, ma riconoscere il dolore nascosto da quella identità.

Il denaro si identifica, la vita trabocca. Identificando, la rivolta contro la civiltà-denaro rafforza il denaro. La vita va nella direzione opposta. La sfida non è difendere la civiltà (la civiltà del denaro, della morte), ma lottare contro l’identificazione della rabbia. Anche noi siamo arrabbiati, contro un sistema che sfrutta e distrugge, non contro i migranti o le donne o gli arabi. La rabbia scorre e si trasforma: negli ultimi dieci anni si è contorta e trasformata in modo spaventoso in forme identitarie che causano miseria e minacciano di accelerare la corsa verso l’estinzione.

Elogio delle follie necessarie

Follia. Siamo tornati da dove abbiamo iniziato: la vita contro il denaro. Prendere le parti della vita contro il denaro è follia. La follia dell’impossibilità necessaria, della necessità impossibile.

La lotta della vita contro il denaro è costante e onnipresente. Amore, amicizia, fratellanza, unirsi per fare le cose in modo diverso, camminare nella direzione sbagliata, resistere, lottare… Zapatisti, Rojava, tante lotte che lottano per trovare una via d’uscita. Meraviglioso. Ma non abbastanza.

Le lotte si riproducono nel capitale, si manifestano nella crisi delle forme capitalistiche, nella crisi del denaro e dell’espansione del debito per accogliere la ribellione, nella crisi degli stati i cui confini sono invasi dal crescente flusso di persone. Le lotte della vita e del denaro rendono più fragile la regola del denaro. Ma non è abbastanza. Siamo ancora pazzi.
Siamo costretti a una sorta di idea di punto di svolta. Non un crollo del capitale a causa delle sue contraddizioni interne: non è questo, perché noi siamo la contraddizione interna, il nostro rifiuto o incapacità di produrre più plusvalore. Non una rivoluzione futura, perché questo significa un momento impossibile di rottura tra subordinazione ora e poi vittoria e cambiamento. Piuttosto un punto di svolta: un accumulo di resistenze e ribellioni, di ricchezze, di non-ancora, di aneliti e pensieri e lotte e condivisioni, di creare crepe nella trama del dominio, di rifiutare di identificare la nostra rabbia, di trasformarla in odio. Una crescente consapevolezza che la vita è incompatibile con il mantenimento del dominio del denaro: una consapevolezza derivante da un reale cambiamento nel rapporto tra “progresso” e distruzione. Un sussulto di ricchezze, resistenze e ribellioni che si è scatenato sulla collina, nella speranza e con la determinazione di non venire più a rotolare giù come Sisifo, ma vadano oltre, acquistando slancio, spingendosi verso un mondo non governato da soldi: non con un decreto di abolizione di Pol Pot, ma con l’espulsione del denaro dall’istruzione, dall’assistenza sanitaria, dal diritto all’abitare, dal cibo, dalla progettazione urbana, quindi fuori dal mondo. E in questo sussulto e spinta si moltiplicano discorsi come questo, in elogio delle follie, delle follie necessarie.


Testo preparato per una lezione web (traduzione di Comune) promossa dalla rivista Resistance. A Journal of Radical Environmental Humanities, diretta da Marco Armiero e nata all’interno della casa editrice statunitense University of Nebraska Press. Qui il video-intervento di Holloway. Il tema della ribellione al dominio del denaro è al centro anche del suo ultimo libro, La speranza. In un tempo senza speranza (ed. Punto Rosso), di cui è possibile leggere un capitolo qui (il 29 ottobre, h 21, viene presentato sul canale youtube del Collettivo La gauche):

da qui

lunedì 28 ottobre 2024

Il fascismo in marcia e la debolezza degli anticorpi - Livio Pepino

Quello che va in scena in questi giorni, con le intimidazioni del Governo nei confronti della magistratura, non è un conflitto tra giudici e potere politico, ma una tappa del processo di fascistizzazione dello Stato. Una tappa che presenta singolari analogie con quanto accaduto negli anni Venti, anche nella debolezza della reazione dei vertici istituzionali contro la deriva eversiva.

da Volere la Luna

 

Lo abbiamo detto e scritto molte volte (da ultimo: https://volerelaluna.it/commenti/2024/07/26/ma-i-giudici-sono-migliori-dei-politici/) ma conviene ripeterlo: quello che va in scena in questi giorni non è, come afferma la quasi totalità dei media, un conflitto tra magistratura e potere politico, ma una tappa del processo sempre più evidente di fascistizzazione dello Stato.

Andiamo con ordine.

Nell’approssimarsi della sentenza nei confronti di Matteo Salvini per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio per avere, come ministro dell’Interno, bloccato per 20 giorni l’approdo a Lampedusa della nave Open Arms con a bordo 147 migranti soccorsi in mare e all’indomani della decisione del Tribunale di Roma che, in (doverosa) applicazione dei principi di diritto affermati in una sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia dell’Unione europea, ha negato la convalida del trattenimento nel centro di Gjadër di 12 migranti ivi tradotti manu militari dalle autorità italiane (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/21/il-grande-bluff-del-trasferimento-dei-migranti-in-albania/), la presidente del consiglio, uno stuolo di ministri, sottosegretari e parlamentari e la stessa seconda carica dello Stato hanno messo in scena uno spettacolo dai tratti genuinamente eversivi. Diversi gli attori e le parti in commedia (rectius, in tragedia): alcuni hanno gagliardamente marciato, petto in fuori, sul Tribunale di Palermo per intimidire i giudici preposti al processo contro il leader leghista; altri – e talora gli stessi – si sono esibiti in insulti («Se qualcuno ha preso il Tribunale per un centro sociale ha sbagliato mestiere»), volgarità da osteria («I magistrati fanno entrare in Italia cani e porci»), minacce («Quel magistrato andrebbe licenziato»); altri infine – il presidente del Senato in primis – hanno sostenuto la necessità di modificare la Costituzione per mettere al loro posto i giudici. Identica l’impostazione di fondo, pur diversamente modulata. Al vicepresidente del Consiglio Salvini («Ho compiuto i fatti che mi vengono contestati per proteggere i confini nazionali da sbarchi incontrollati di stranieri irregolari sulle nostre coste, e nessun giudice quindi può condannarmi perché ho agito per proteggere un interesse dello Stato, esercitando il “sacro dovere del cittadino” di “difesa della Patria” sancito dall’articolo 52 della Costituzione»: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/04/23/salvini-la-difesa-della-patria-e-lo-stato-di-diritto/) fa eco la presidente del Consiglio Meloni («Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo») in un coro sintetizzato, infine, dal giurista (si fa per dire) dell’allegra compagnia, il guardasigilli Nordio, che pronuncia la sua sentenza: «Se la magistratura esonda dai propri poteri attribuendosi delle prerogative che non può avere come quella di definire uno Stato sicuro deve intervenire la politica che esprime la volontà popolare. Noi rispondiamo al popolo, se il popolo non è d’accordo con quello che facciano noi andiamo a casa. La magistratura, che è autonoma e indipendente, non risponde a nessuno e quindi proprio per questo non può assumersi prerogative che sono squisitamente ed essenzialmente politiche».

Tacciare il giudice sgradito di esondare dal ruolo e – il passo è breve e conseguente – di essere “comunista” è stato un leitmotiv della stagione berlusconiana (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/06/toghe-rosse-e-calzini-azzurri/) ma con precedenti illustri in epoca fascista, come ricorda Piero Calamandrei in Elogio dei giudici scritto da un avvocato (risalente al 1935) raccontando la storia di un miliardario che, per sottrarre il figlio dallo “sconcio” di un processo per omicidio colposo stradale, mette sul piatto una somma ingente e, all’obiezione del difensore che «la giustizia non è una merce in vendita», sbotta nella conclusione: «Ho capito, abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista».

Ma oggi c’è un salto di qualità: la teorizzazione (e la conseguente pretesa) che la giurisdizione abbia un ruolo servente nei confronti della politica, ne debba affiancare e sostenere le scelte, interpretandone e traducendone lo spirito e avendo come stella polare l’utilità contingente e non il rigoroso rispetto delle regole. È il ribaltamento dello Stato di diritto, la cui essenza – per usare le parole del più autorevole teorico del garantismo, Luigi Ferraioli – è il fatto che «ci sia un giudice indipendente che interviene a riparare i torti subiti, a tutelare il singolo anche se la maggior parte o persino la totalità degli altri si schierano contro di lui, ad assolvere in mancanza di prove quando l’opinione comune vorrebbe la condanna o a condannare in presenza di prove quando la medesima opinione vorrebbe l’assoluzione».

Il conflitto con i giudici è solo la punta di un iceberg fatto di insofferenza per ogni regola. E ciò mentre, per la nostra carta fondamentale, l’investitura del voto non attribuisce un potere assoluto e incontrollato, come precisato nell’articolo 1 (scritto in italiano, a beneficio del guardasigilli, notoriamente a disagio con la lingua francese delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, e posto all’inizio della Carta, con conseguente possibilità di agevole e immediata lettura), in forza del quale «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»: forme e limiti analiticamente indicati negli articoli successivi che prevedono, tra l’altro, diritti e libertà inviolabili tutelati da una magistratura soggetta soltanto alla legge. Di più: il fatto che l’atto politico incontri i limiti del diritto (anche quello penale) è un’acquisizione fondamentale delle democrazie, come hanno insegnato, tra gli altri, la Camera dei Lords di Londra, che, con sentenza 25 novembre 1988, ha negato l’immunità all’ex presidente del Cile Augusto Pinochet Ugarte per i crimini commessi durante la dittatura, e la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con sentenza 22 marzo 2001, ha respinto i ricorsi dell’ex Ministro della Difesa e dell’ex presidente del Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca, condannati dai giudici nazionali per gli omicidi di 133 persone che cercavano di oltrepassare il muro di Berlino, con la motivazione che persino in uno Stato autoritario le autorità politiche, anche nell’esercizio della legittima facoltà di difesa delle frontiere, dovevano rispettare le leggi penali poste a tutela del bene della vita e della libertà delle persone (https://www.domenicogallo.it/2024/10/meloni-e-salvini-uniti-a-berlino/).

Democrazie, si è detto. Già, perché è proprio questo che si sta cercando di abbandonare. C’è, nella nostra storia nazionale, un precedente attualissimo, persino nelle parole utilizzate. Un precedente che riguarda i passaggi dalla democrazia al fascismo e il consolidamento del regime. «La magistratura – proclamò solennemente in Parlamento, il 19 giugno 1925, il guardasigilli Alfredo Rocco – non deve far politica di nessun genere. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista. Questo nella immensa maggioranza dei casi accade. I magistrati politicanti costituiscono una trascurabile eccezione, una insignificante minoranza». Che cosa significava essere apolitici lo precisò lo stesso Rocco appena quattro anni dopo: «Lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Fino ad arrivare al 1939 quando i più alti magistrati del regno – come ricorda ancora Piero Calamandrei – si radunarono in divisa a palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al riconoscimento del ministro di avere finanche superato «i limiti formali della norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge», applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala al canto di inni della Rivoluzione…

Il precedente è tanto inquietante quanto pertinente e proietta un’ombra ulteriore. Il fascismo si affermò grazie all’ignavia del re e all’accettazione della classe dirigente dell’epoca. Dobbiamo, dunque, interrogarci oggi sull’adeguatezza della resistenza dei vertici delle istituzioni alla deriva in atto. E la risposta non autorizza ottimismi se finanche il presidente della Repubblica, di fronte all’aggressione eversiva nei confronti della magistratura, si ferma all’auspicio che «le istituzioni non si limitino a visioni di parte, perché collaborare rafforza la democrazia»… Non siamo di fronte a una semplice mancanza di collaborazione tra poteri!

da qui

domenica 27 ottobre 2024

L'elenco di quello che BlackRock possiede oggi in Italia - Alessandro Volpi

 

Per rendere chiaro il peso di BlackRock nell'economia italiana può essere utile elencare tutte le società quotate a cui partecipa: un elenco in cui sono comprese le grandi partecipate pubbliche, le multiutility, l'energia, la moda, le banche, la meccanica, le armi e altro ancora.

Ecco l'elenco: A2a, Amplifon, Azimut, Mps, Banca Generali, Banco Bpm (dove ha il 4,75), Banca Mediolanum, Bper Banca, Brunello Cucinelli, Buzzi, Campari, Diasorin, Enel (dove ha il 5%), Eni (dove ha superato il 5%), Erg, Ferrari, FinecoBank (dove ha quasi il 10%), Generali (dove ha il 3%), Hera, Interpump, Intesa San Paolo (dove ha il 4%), Inuit, Iveco, Leonardo, Mediobanca (dove ha il 5%), Moncler (dove ha il 5%), Nexi, Pirelli, Poste italiane, Prysmian (dove ha il 7%), Recordati, Saipem, Snam (dove ha il 5%), Stellantis (dove ha il 4%), StMicroeletronics (dove ha il 5%), Telecom, Tenaris, Terna (dove ha il 5%), Unicredit (dove ha più del 7%) e Unipol.


Il totale del valore azionario di BlackRock in queste società è pari a 25 miliardi di euro. Nel giro di pochissimi anni, la politica italiana è riuscita a trovarsi un nuovo padrone, che ha realizzato formidabili dividendi mentre l'economia reale languiva e le retribuzioni diventavano tra le più basse d'Europa. Non un bel modello.

da qui

Lo Stato è una forma di organizzazione brutale, razzista e disumana - John Holloway

 

Quanto accade a Gaza e in Libano svela l’essenza di ciò che è lo Stato nella società capitalista, anche se cerca di convincerci che è qualcosa di neutrale. Lo Stato non solo divide i cittadini dagli stranieri ma, sia lo Stato autoritario che quello democratico, esclude chi vuole cambiare l’ordine delle cose: lo fa con le elezioni (“Vi abbiamo ascoltato, ora andate a casa e ci vediamo tra qualche anno”) e sempre più spesso con la repressione. Per questo dobbiamo proteggere i tentativi che prendono forma ovunque di far nascere una cultura politica che, fuori dallo Stato, si riappropria di quello che lo Stato esclude. Scrive John Holloway: “Il capitale attraversa un processo ripetuto di crisi e lo Stato si concentra sempre più sul sostegno al capitale che si trova sul suo territorio, in modo che sopravviva… Ciò implica un’intensificazione della competizione con altri Stati e anche un’intensificazione della disciplina sociale all’interno del territorio dello Stato. È in questo contesto che bisogna comprendere l’ascesa dell’autoritarismo e del militarismo nel mondo in questo momento e le tendenze all’espansione della guerra. Gaza non è un’eccezione, ma l’espressione di una tendenza globale. Siamo tutti Gaza, non solo per empatia con i palestinesi, ma anche perché guardiamo al nostro possibile futuro”

 

È impossibile parlare di Stato in questo momento senza parlare di Gaza. Svela lo Stato, non solo lo Stato israeliano, ma l’essenza di ciò che lo Stato è come forma di organizzazione sociale: brutale, razzista, disumana. Ho quindi deciso di cambiare il titolo del mio articolo. Invece di “Stato e capitale: lo stato dell’arte nel dibattito sulla derivazione dello Stato”, ho deciso di intitolarlo “Lo Stato è una forma di organizzazione brutale, razzista e disumana. E allora? Cosa facciamo?”.

Cosa c’entra questo con il “dibattito sulla derivazione” dello Stato? Molto. Il dibattito (diventato importante negli anni Settanta, intende lo stato come una componente necessaria del capitalismo, ndr) è condotto in termini molto astratti, ma ha implicazioni politiche molto forti e rilevanti. Gli stalinisti lo capirono quando giustiziarono Pashukanis nel 1937.

Quali sono queste implicazioni? In primo luogo, che lo Stato è uno Stato capitalista. Ha l’apparenza di essere uno Stato potenzialmente neutrale all’interno della società capitalista, ma non lo è. È uno Stato capitalista. Immagino che tutti voi abbiate votato per Lula contro Bolsonaro alle ultime elezioni, io avrei fatto lo stesso. Ma questo non cambia il fatto che Lula è a capo di uno Stato capitalista, parte di quella dinamica di distruzione che è il capitalismo.

Questa è la prima conclusione del “dibattito derivazionista”. Lo Stato è uno Stato capitalista. Non è che abbia una relativa autonomia dal capitale, come sostenuto da Poulantzas, le cui idee sono ancora molto influenti. Contrariamente alle apparenze, lo Stato è una forma particolare di capitale, di relazioni capitalistiche, una forma che genera la propria apparenza di neutralità. Il Capitale è un insieme di forme particolari che proclamano la loro autonomia ma fanno parte della stessa totalità. Nel Capitale, Marx critica questa autonomia delle forme sociali attraverso un processo di derivazione di una forma dall’altra: merce-valore, lavoro astratto dal valore, merce-lavoro-valore astratto-denaro, capitale dal denaro e così via. Se pensiamo a qualsiasi società come a una coesione sociale, una totalità più o meno coerente di relazioni sociali, allora il metodo derivazionista di Marx nel Capitale dimostra la forza di questa coesione, il carattere chiuso di questa totalità. Ciò che mancava era la derivazione dello Stato. Una questione molto importante, perché sembra che lo Stato non faccia parte di questa coesione, di questa totalità chiusa, ma che possa funzionare come contrappeso al capitale. L’obiettivo dei partecipanti al dibattito, così come quello di Pashukanis nel 1924, era quindi quello di dimostrare che, nonostante le apparenze, lo Stato fa parte dello stesso insieme capitalistico di forme sociali, cioè della stessa totalità capitalistica. È un modo specificamente capitalista di relazionarsi l’uno con l’altro.

Quindi No allo Stato. Questa è la conclusione più importante del dibattito, per me. La particolarizzazione della forma statale viene talvolta confusa con l’idea di un’autonomia relativa dello Stato. Ma non è così. L’idea di autonomia relativa è un’argomentazione a favore della partecipazione allo Stato, come la intendeva Poulantzas e come la intendono persone come Álvaro García Linera, l’ex vicepresidente della Bolivia. Parlare di particolarizzazione dello Stato, non di autonomia relativa dello Stato, significa dire innanzitutto che lo Stato è una forma capitalistica di relazioni sociali. Se siamo contro il capitale, siamo contro lo Stato come forma di organizzazione sociale.

Ci sono in realtà due linee di argomentazione che emergono dal dibattito sulla derivazione dello Stato (e immagino che entrambe siano presenti qui). Entrambe sono importanti, sono molto diverse, ma non sono necessariamente incompatibili. La prima può essere intesa come una teoria dello Stato, la seconda come una teoria dell’antistato.

La prima si concentra sullo Stato. Se intendiamo lo Stato come una particolare forma di capitale, ne conseguono diverse cose.

In primo luogo, se l’esistenza dello Stato deriva dal capitale, è chiaro che lo Stato deve promuovere la riproduzione del capitale. In altre parole, deve garantire la massima redditività possibile del capitale. Se non lo fa, il capitale andrà altrove. Se non lo fa e il capitale se ne va, ci saranno più disoccupazione e più povertà. Se non lo fa, non ci saranno abbastanza tasse per pagare i dipendenti pubblici. Questo impone limiti molto forti a ciò che un governo di sinistra può fare. Lula può essere migliore di Bolsonaro, ma non dobbiamo aspettarci troppo dal governo di Lula. Non si tratta di un tradimento delle lotte della classe operaia, ma semplicemente del fatto che è bloccato in un’istituzione che gli impone limiti molto forti.

Questo diventa più chiaro se teniamo presente che lo Stato non è uno Stato, ma più di duecento Stati, una molteplicità di Stati. Questa considerazione non era presente nei primi contributi al dibattito, ma è stata il tema principale di un articolo di Claudia von Braunmühl, che ha detto che dobbiamo comprendere lo Stato non a prescindere dal capitale nazionale, ma dal mercato mondiale o dal movimento globale del capitale. C’è un capitale che si muove nel mondo alla ricerca del massimo profitto possibile e ci sono molti Stati che cercano di attrarlo, dicendo al capitale “vieni qui, vieni qui, ti darò tutto ciò di cui hai bisogno”. Gli Stati sono Stati competitivi, come dice Joachim Hirsch in un libro successivo, esistono in competizione tra loro per attirare i capitali. Il capitale non ha nazionalità.

Un altro aspetto che emerge dal dibattito e che influisce sul modo di intendere lo Stato è che la sua particolarizzazione comporta una vera e propria separazione tra Stato e capitale. Lo Stato deve garantire le migliori condizioni per la redditività del capitale, ma non sa necessariamente come farlo. La politica pubblica è necessariamente un processo di tentativi ed errori, come sottolineato nel lavoro di Alberto Bonnet e Laura Álvarez.

Inoltre, questa reale separazione tra capitale e Stato è importante per la riproduzione del capitale nel suo complesso. Se uno Stato diventa troppo legato a un gruppo di capitali, come spesso accade, può ostacolare la riproduzione del capitale nel suo complesso. Da qui l’importanza delle elezioni come ristrutturazione periodica del rapporto tra Stato e capitale.

Un’altra implicazione del dibattito per la comprensione dello Stato è che ci dà modo di capire le tendenze storiche dell’organizzazione statale. Se lo Stato deve garantire l’accumulazione del capitale, il suo sviluppo è segnato dallo sviluppo dell’accumulazione. Il capitale attraversa un processo ripetuto di crisi e di possibile ristrutturazione, e lo Stato si concentra sempre più sul sostegno al capitale che si trova sul suo territorio, in modo che sopravviva e si ristrutturi attraverso la crisi. Ciò implica un’intensificazione della competizione con altri Stati e anche un’intensificazione della disciplina sociale all’interno del territorio dello Stato. È in questo contesto che bisogna comprendere l’ascesa dell’autoritarismo e del militarismo nel mondo in questo momento e le tendenze all’espansione della guerra. Gaza non è un’eccezione, ma l’espressione di una tendenza globale. Siamo tutti Gaza, non solo per empatia con i palestinesi, ma anche perché guardiamo al nostro possibile futuro.

Credo che tutto questo sia molto importante, ma ho detto poco fa che ci sono due linee di argomentazione che emergono dal dibattito sulla derivazione statale. La prima è quella che ho appena illustrato e che probabilmente è accettata da tutti coloro che seguono il dibattito. L’altra sottolinea il rifiuto dello Stato come forma di organizzazione sociale.

La particolarizzazione dello Stato in relazione al capitale è allo stesso tempo una particolarizzazione in relazione alla società. La violenza necessaria per mantenere una società basata sullo sfruttamento è separata dallo sfruttamento e si costituisce in uno Stato apparentemente neutrale. Da qui il titolo dell’articolo di Wolfgang Müller e Christel Neusüss che ha dato il via al dibattito: “L’illusione dello Stato sociale e la contraddizione tra lavoro salariato e capitale”. Da qui anche la nota domanda di Pashukanis: “Perché la dominazione di classe non rimane ciò che è, cioè la subordinazione di una parte della popolazione a un’altra parte?”. L’esercizio della violenza e dell’amministrazione sociale necessaria per mantenere l’intero sistema di sfruttamento si concentra in questa istanza chiamata Stato. È un recinto, un “ritorno a casa”. La costituzione dello Stato è la creazione di un corpo di funzionari pubblici che lavorano a tempo pieno per amministrare la società.

Devono farlo in modo da promuovere l’accumulazione del capitale. Ciò richiede l’esclusione di logiche alternative, la costruzione quotidiana di una logica che sostenga l’accumulazione, cioè il dominio del denaro, della redditività. Se sorge un movimento per cambiare qualche aspetto sociale, lo Stato risponde “Sì, vi abbiamo sentito, ora andate a casa, lo risolveremo”. Con questo si chiude la porta e si cerca di risolvere o gestire il problema in modo da non interrompere l’accumulo di capitale. L’esistenza dello Stato è un processo quotidiano di esclusione, di esclusione di noi. Questa esclusione è necessaria per promuovere l’accumulazione del capitale. È una caratteristica di qualsiasi Stato, autoritario o democratico. Le elezioni sono una forma di esclusione molto efficace: “Vi abbiamo ascoltato, ora andate a casa e ci vediamo tra sei anni, altrimenti dovremo reprimervi”.

È un processo di esclusione. La parola “processo” è molto importante. Lo Stato è una forma di relazioni capitalistiche, come il valore, il denaro e così via. Ma tutte queste relazioni sono processi che incontrano continuamente resistenza. Le forme capitalistiche sono infatti processi-forma, processi di formazione, processi che generano contro-processi.

Anche lo Stato è un processo che genera opposizione. È un processo di esclusione che genera una lotta contro l’esclusione. Il “vai a casa” che è al centro della forma di Stato si confronta con “No, non ce ne andiamo. Vogliamo risolvere questo problema. Non vogliamo essere esclusi dal determinare lo sviluppo della nostra società”. In generale, lo Stato, come forma di relazione sociale, come esclusione, si confronta con un anti-Stato, con la pratica e il progetto di fare le cose in modo diverso, secondo un’altra logica. La teoria dello Stato ci porta a una teoria dell’antistato, della politica antistatale. Questo per me è l’aspetto più importante del dibattito sulla derivazione dello Stato.

Cosa intendo per politica antistatale? È una politica che combatte la particolarizzazione dello Stato, cioè una politica che cerca di superare l’esclusione che è insita nell’esistenza dello Stato. Se lo Stato è costituito dalla sua separazione dalla società, l’antistato si muove nella direzione opposta, come un riassorbimento del pubblico all’interno dello Stato.

Innanzitutto, un aspetto che tocca tutti noi che lavoriamo nello Stato. Sappiamo di lavorare in un’istituzione capitalista, ma siamo contro il capitalismo. Lavoriamo dentro e contro lo Stato. Se lavoriamo nell’istruzione, ad esempio, siamo consapevoli di far parte di un sistema progettato per produrre lavoratori sfruttabili, ma cerchiamo di andare nella direzione opposta, di dare un contenuto critico o anticapitalista alla nostra attività di insegnamento. Se lavoriamo nella sanità, siamo consapevoli di far parte di un sistema che tratta i pazienti come oggetti e cerchiamo di creare un altro concetto di medicina e di assistenza medica. Si tratta di pensare alla nostra attività quotidiana come a un’attività che va contro la forma-stato, contro la particolarizzazione della società. Un libro che un gruppo di noi ha realizzato (come London Edinburgh Weekend Return Group), nel 1979, In and Against the State, ha cercato di esplorare questo tipo di politica quotidiana anti-statale e ha avuto un successo sorprendente, il che mi fa pensare che ci sono molti di noi che, per un motivo o per l’altro, lavorano all’interno dello Stato ma allo stesso tempo cercano di camminare nella direzione opposta. Anche questo congresso può essere inteso in questi termini: un congresso all’interno di un’istituzione statale che cerca di promuovere la riflessione e l’azione antistatale.

Quando penso alla politica antistatale, penso anche alla grande tradizione delle lotte anticapitaliste. I movimenti contro il capitalismo sono stati storicamente organizzati in due modi principali. Da un lato, abbiamo la tradizione dei partiti: i partiti comunisti, socialisti e rivoluzionari. I partiti hanno come punto di riferimento centrale lo Stato e cercano di conquistarlo per cambiare la società. Ciò implica l’adozione della forma statale, come modo di relazionarsi, di comportarsi, di organizzarsi. Il risultato è sempre stato la riproduzione dello Stato che esclude. È vero che ci sono stati tentativi da parte degli Stati di superare questa esclusione (come i bilanci partecipativi a Porto Alegre o i consigli di quartiere promossi dal governo chavista in Venezuela), ma si sono sempre inseriti nel quadro generale del rispetto della priorità dell’accumulazione del capitale.

L’altra tradizione di organizzazione anticapitalista è quella assembleare, consiliare, comunale: la comune di Parigi, i soviet russi, le comuni in Spagna, le assemblee curde e zapatiste. Sono antistatali nel senso che, anche se non usano il linguaggio del dibattito sulla derivazione dello Stato, cercano di superare la particolarizzazione caratteristica della forma statale. Cercano cioè di riappropriarsi dell’organizzazione sociale che viene espropriata dallo Stato, cercano di riassorbire l’amministrazione sociale all’interno della società stessa. La natura capitalista dello Stato non è una questione di chi lo controlla, ma di una logica di esclusione che si adatta alla riproduzione del capitale. Il rifiuto del capitale è un rifiuto di questa logica e la formulazione e l’attuazione di un altro modo di fare le cose con altre forme di organizzazione.

Comprendere lo Stato come forma sociale ci aiuta a capire l’urgenza del suo superamento. La particolarizzazione in relazione alla società significa astrazione, identificazione, categorizzazione, cioè disumanizzazione delle persone. Lo Stato non si rapporta a me, John, come persona con le mie idiosincrasie, le mie follie, i miei amori, ma come cittadino o straniero, come numero, come anziano. Mi impone delle categorie, mi impone una logica basata sull’astrazione, sull’identificazione, su una grammatica. Si può dire “beh, sì, ma non importa”. Oppure si può dire che questa separazione di base tra cittadino e straniero, questa separazione che è una condizione costitutiva dello Stato come forma di dominio territoriale, ha portato al massacro di milioni e milioni di persone nel secolo scorso e continua a causare la miseria dell’enorme e crescente numero di migranti in tutto il mondo. Lo Stato come forma di organizzazione è un allenamento costante all’identificazione astratta e disumanizzante.

È una scuola di fascismo. Questa disumanizzazione dell’altro, implicita nell’esistenza dello Stato come forma di relazione sociale, è ciò che rende possibile il genocidio che si sta perpetrando a Gaza in questo momento. Da qui il nuovo titolo del mio articolo: Lo Stato è una forma di organizzazione brutale, razzista e disumana. E allora? Cosa facciamo?


Testo dell’intervento realizzato per un seminario (Debate sobre a Derivação do Estado: contribuições para a Economia Política da Saúde e o Trabalho) promosso dal 16 al 20 settembre a San Paolo, in Brasile, da diversi gruppi formati da ricercatori, docenti e studenti universitari. Traduzione di Comune.

da qui

sabato 26 ottobre 2024

L’età dell’oro: il Burkina Faso nazionalizza le miniere e ora attende la reazione delle compagnie occidentali - Simona Losito

 

Il Burkina Faso è uno dei maggiori produttori d’oro del continente africano. L’estrazione aurifera rappresenta una delle principali fonti di reddito per lo Stato e un pilastro dell’economia nazionale. Tuttavia, le risorse minerarie del Paese sono storicamente state sfruttate in gran parte da compagnie straniere, con benefici spesso limitati per la popolazione locale. Recentemente, il governo ha annunciato una svolta epocale: la nazionalizzazione delle miniere d’oro. Ad agosto ci sono state le prime nazionalizzazioni ai danni di società britanniche e statunitensi. Prima la miniera di Boungou, gestita dalla britannica Endeavour Mining, e quella di Wahgnion, gestita dalla statunitense Burkina Lilium Mining.

Questa decisione fa parte di una serie di azioni che vede diverse nazioni africane riappropriarsi delle risorse della propria terra al fine di riorientare i profitti a proprio vantaggio, soprattutto da parte di quegli Stati che puntano all’indipendenza dalle direttive neocoloniali occidentali. Si parla in particolar modo delle nazioni del Sahel, nonché luoghi in cui negli ultimi anni si sono verificati numerosi colpi di Stato per rovesciare i governi filoccidentali. E il Burkina Faso è tra questi.

La notizia ha suscitato sia entusiasmi sia preoccupazioni. Da un lato nazionalizzare le miniere d’oro significa ricondurre le risorse naturali e i possibili guadagni nelle mani dello Stato, accertandosi che i profitti dell’estrazione mineraria rimangano nel Paese. Dall’altro, le conseguenze per il mercato internazionale sono inevitabili.

Le miniere del Burkina Faso

Il Burkina Faso ha iniziato a sfruttare il suo potenziale minerario su larga scala negli anni Novanta, quando sono state aperte le porte agli investimenti stranieri in seguito a una serie di riforme economiche. Le compagnie minerarie multinazionali, attratte dall’abbondanza di giacimenti e dalla relativa stabilità politica, hanno iniziato a operare nel Paese, instaurando relazioni con il governo per lo sfruttamento delle risorse.

Durante il periodo coloniale, la Francia esercitava un controllo diretto sull’economia delle sue colonie, sfruttando le risorse minerarie per alimentare l’industria nazionale. Dopo l’indipendenza, nel 1960, l’influenza francese non è scomparsa del tutto, ma si è trasformata in un modello neocoloniale e ha continuato a mantenere un’influenza economica e politica attraverso accordi bilaterali e la presenza di aziende francesi.

Nel tempo, anche società provenienti da nazioni come Canada, Australia, Regno Unito e Russia sono diventate protagoniste del panorama minerario. La Russia è l’unica a non essere penalizzata, perché il governo locale ha stretti rapporti economici e militari con Mosca .

Nonostante l’aumento della produzione e delle esportazioni, i benefici per la popolazione locale sono stati spesso limitati. Il settore ha generato introiti significativi per il governo e per le imprese, ma ha anche sollevato polemiche riguardo alle condizioni di lavoro nelle miniere, all’impatto ambientale e alla distribuzione iniqua della ricchezza. Gran parte dei profitti è infatti rimasta nelle mani delle compagnie straniere, con una parte marginale che ritorna sotto forma di tasse e royalties allo Stato.

Nazionalizzare: obiettivi e motivazioni

La decisione del governo burkinabé di nazionalizzare le miniere si inserisce in un contesto di crescente desiderio di autonomia economica e di recupero della sovranità sulle risorse nazionali. Il Burkina Faso, come altri Paesi africani, ha assistito a una crescente disillusione nei confronti del modello di sfruttamento delle risorse dominato dalle multinazionali, che spesso lascia indietro la popolazione locale. La nazionalizzazione rappresenta un tentativo di invertire questa tendenza, garantendo che una quota maggiore delle entrate derivate dall’estrazione aurifera rimanga all’interno del Paese, finanziando infrastrutture, servizi pubblici e programmi di sviluppo economico.

Attraverso la gestione diretta delle miniere, lo Stato può ottenere maggiori entrate da investire in programmi di sviluppo e lotta alla povertà, affrontando la disparità economica che affligge il Paese. Inoltre, la gestione pubblica delle miniere può contribuire a creare nuove opportunità di lavoro per la popolazione locale, migliorando le condizioni di lavoro e garantendo maggiori tutele.

Dal punto di vista interno, la nazionalizzazione delle miniere d’oro rappresenta una sfida per il Paese. Se da un lato il Governo può aumentare i propri guadagni diretti dal settore minerario, dall’altro si presenta la necessità di sviluppare capacità amministrative e tecniche per gestire efficientemente le operazioni. La sfida sarà quella di dimostrare di essere in grado di gestire autonomamente le proprie risorse senza rischiare che le miniere nazionalizzate non riescano a raggiungere gli stessi livelli di produttività e profittabilità delle compagnie straniere che hanno dominato il settore fino ad ora.

La nazionalizzazione potrebbe anche creare tensioni sociali interne. Nonostante le promesse del governo di redistribuire i benefici alla popolazione, esiste la possibilità che le risorse aggiuntive vengano mal gestite o che le élite politiche ne traggano maggior vantaggio rispetto alle comunità locali. In un Paese che lotta contro la povertà e instabilità sociale, qualsiasi percezione di iniquità nella distribuzione delle ricchezze minerarie potrebbe alimentare conflitti.

Ripercussioni sul mercato internazionale

Oltre agli effetti interni, la decisione del Burkina Faso avrà sicuramente conseguenze sul mercato globale dell’oro. Con le multinazionali coinvolte nella produzione aurifera del Paese, la nazionalizzazione potrebbe portare a tensioni diplomatiche e legali. Le compagnie minerarie straniere, che hanno investito ingenti somme in infrastrutture e operazioni nel Paese, potrebbero tentare di bloccare la nazionalizzazione attraverso cause legali internazionali o tramite la pressione dei loro governi. La nazionalizzazione segna anche una rottura simbolica e concreta con l’influenza storica della Francia nella regione.

Un altro possibile effetto è una riduzione della produzione di oro nel breve termine, poiché le strutture nazionalizzate potrebbero non essere immediatamente in grado di operare alla stessa capacità delle compagnie private. Ciò potrebbe incidere sui prezzi dell’oro a livello globale, aumentando la volatilità del mercato. Tuttavia, l’impatto sul mercato globale dipenderà anche dalla reazione di altri Paesi produttori di oro, molti dei quali stanno anch’essi riconsiderando le proprie politiche di gestione delle risorse naturali.

da qui