Prima di tutto devo fare una confessione,
una confessione forse strana, ma franca. Fin da quando sono salito sull’aereo
per venire qui a Stoccolma a ricevere il Premio Nobel per la letteratura di
quest’anno avverto ininterrottamente, alle mie spalle, lo sguardo indagatore di
qualcuno che mi osserva freddo e, in questo momento solenne che mi pone d’un
tratto al centro dell’attenzione di tutti, io mi sento piuttosto questo
osservatore distaccato che non lo scrittore di colpo letto nel mondo intero.
C’è solo da sperare che il discorso che ho l’onore di tenere in questa
circostanza mi aiuti a rimuovere tale dissociazione e a riunificare una volta
per tutte le due persone che vivono in me.
Tanto per cominciare, non mi è del tutto
chiaro di quale tipo sia l’aporia che colgo fra questo alto riconoscimento e la
mia opera, la mia vita. Forse sono vissuto troppo tempo in una dittatura, in un
ambiente intellettuale a me ostile, disperatamente estraneo, per poter
acquisire una sicura coscienza di me come scrittore: era ozioso star lì a
scervellarsi sul punto. Per soprammercato, mi si faceva capire in tutti i modi
che ciò di cui scrivo, il cosiddetto “tema” che mi occupa, era fuori tempo e
non attraeva. Per questo – e ciò ha coinciso con il mio proprio convincimento –
ho sempre considerato la scrittura una faccenda rigorosamente privata.
Faccenda privata, il che naturalmente non
esclude che fosse seria, anche se tale serietà appariva un tantino ridicola in
un ambiente in cui solo la menzogna veniva presa sul serio. Lì vigeva l’assioma
filosofico secondo cui il mondo è la realtà oggettiva, che esiste
indipendentemente da noi. E però a me nel 1955, un bel giorno di primavera,
inaspettatamente capitò di pensare che esisteva un’unica realtà e che questa
realtà ero io stesso, la mia vita, questo dono fragile che mi era stato
destinato per qualche tempo e che poteri ignoti, estranei, avevano sequestrato,
statizzato, fissato e stampigliato e io dovevo portarla via alla cosiddetta
Storia, a questo Moloch tremendo, perché apparteneva soltanto a me e dunque
soltanto io dovevo averci a che fare.
Ciò stava comunque in nettissima antitesi
con tutto quanto intorno a me costituiva la realtà, magari non oggettiva, ma pur
sempre incontestabile. Parlo dell’Ungheria comunista, del socialismo in fiore.
Se il mondo è una realtà oggettiva, che esiste indipendentemente da noi, allora
l’uomo non è altro che un oggetto – anche per se stesso – e la storia della sua
vita nient’altro che una serie slegata di accidenti, davanti ai quali egli può
certo stupirsi ma con i quali non ha nulla a che fare. Collegarli in un tutto
coerente non serve, dentro vi resteranno sempre momenti troppo oggettivi perché
il suo io soggettivo possa assumersene la responsabilità.
Un anno dopo, nel 1956, esplose la
rivoluzione ungherese. Per un attimo il paese divenne soggettivo. I carri
armati sovietici ristabilirono subito l’oggettività.
Se dovesse sembrare ch’io stia
ironizzando, si rifletta su quanto è accaduto alla lingua, alle parole nel
ventesimo secolo. Probabilmente una delle prime e più sconvolgenti scoperte per
gli scrittori odierni è che la lingua così com’è, pervenutaci quasi da un’epoca
culturale che stava prima della nostra cronologia, è semplicemente inidonea a
rappresentare i processi reali e le idee una volta chiare per tutti. Si pensi a
Kafka, a Orwell, nelle cui mani la vecchia lingua si disfa, come se, per così
dire, la rigirassero nel fuoco, per poi additarne la cenere mentre vi vengono alla
luce forme nuove, finora ignote.
Vorrei però tornare alla mia faccenda
rigorosamente privata, alla scrittura. Vi sono domande che uno nella mia
situazione nemmeno si pone. Jean-Paul Sartre, per esempio, ha dedicato a una di
esse tutto un libretto: “Per chi scriviamo?” La domanda è interessante, ma può
anche risultare pericolosa, e in ogni caso sono grato alla sorte di non avervi
mai dovuto riflettere sopra. Vediamo dove sta il pericolo. Quando ad esempio
scegliamo uno strato sociale e vogliamo, non solo dilettarlo, ma anche
influenzarlo, dobbiamo prima di tutto esaminare il nostro stile per vedere se è
davvero adatto a produrre l’effetto voluto. Immediatamente lo scrittore viene
assalito dai dubbi: il peggio è che, in ogni caso, non fa altro che osservare
se stesso. E poi, come venir a sapere quali desideri in effetti il suo pubblico
ha, che cosa in effetti gli piace? Non può mica mettersi a interrogare ogni
persona. Per altro, sarebbe un lavoro vano. Ne può uscirne solo affidandosi a
come s’immagina che quel determinato pubblico sia, a quali sono le attese che
gli attribuisce e a ciò che potrebbe esercitare su di lui l’effetto che lui
vuol ottenere. Allora, per chi scrive lo scrittore? La risposta è evidente: per
se stesso.
Di me stesso posso dire almeno che sono
arrivato a questa risposta senza passare per vie traverse. Beh, certo, era più
facile: non avevo pubblico, né volevo influenzare nessuno. Non ho cominciato a
scrivere pensando a un fine determinato e quanto scrivevo non era diretto a
qualcuno. Se un fine esplicito nella mia scrittura c’era, si trattava di
nient’altro che della fedeltà formale e linguistica all’oggetto. Importante
metterlo in chiaro nell’epoca ridicola, ma triste, della letteratura che si
diceva impegnata ed era pilotata dallo stato.
Con maggiore difficoltà sarei riuscito a
rispondere all’altra domanda, posta non senza qualche giustificato dubbio, sul
perché scriviamo. Anche qui ho avuto fortuna, infatti non è mai capitato che io
abbia potuto scegliere a tale proposito. Com’è andata, l’ho del resto
puntualmente descritto nel romanzo intitolato Fiasco. Mi trovavo nell’atrio di
un edificio pubblico, non c’era anima viva e tutto quello che accadde fu che
sentii dei passi sordi provenire da un corridoio trasversale. Mi prese una curiosa
eccitazione, tanto più che i passi si avvicinavano e, sebbene fossero di
un’unica invisibile persona, d’improvviso m’investì la sensazione che fossero
centinaia di migliaia. Era come si andasse avvicinando una colonna in marcia,
io udivo il rimbombo dei passi e d’un tratto compresi quale risucchio
provenisse da essa. Lì, in quell’atrio, nello spazio di un minuto mi divenne
chiara l’estasi della rinuncia a se stesso, l’ebbra voluttà di perdersi nella
massa, quel che Nietzsche – in un altro contesto, ma in maniera calzante anche
qui – ha chiamato esperienza dionisiaca. M’incalzava un’energia quasi fisica,
m’attirava nei ranghi, e sentii che dovevo tenermi alla parete e lì
rannicchiarmi per resistere a quel seduttivo risucchio.
Sto raccontando di questo momento intenso
al modo in cui l’ho vissuto; come se la fonte da cui la visione scaturiva si
trovasse in qualche luogo fuori e non dentro di me. Ogni artista conosce
momenti così. Una volta si chiamavano ispirazioni improvvise. Tuttavia quel che
io ho vissuto non lo annovererei fra le esperienze di tipo artistico. Lo
definirei piuttosto un acquisto di coscienza esistenziale. Quel momento non mi
fece impadronire della mia arte, i cui mezzi ho dovuto cercare ancora a lungo,
ma della mia vita, da me quasi perduta. Annunciava solitudine, una vita più
difficile di quella di cui ho parlato all’inizio: lo star fuori dalla marcia
inebriante, dalla Storia che ci ruba personalità e destino. Sbigottito, mi resi
conto che dopo un decennio dal mio ritorno dai campi di concentramento dei
nazisti, e tuttora mezzo incantato dal terrore stalinista, di tutto ciò non mi
restava che un’impressione nebulosa e qualche aneddoto. Quasi che non fosse
capitato a me, come si usa dire.
È evidente che tali momenti visionari
hanno una loro lunga preistoria; Freud li farebbe derivare, c’è da supporre,
dalla rimozione di un vissuto traumatico. Chissà che non avesse ragione. E
poiché anch’io propendo piuttosto per la razionalità e sono lontano da ogni
misticismo o fantasticheria, quando parlo di visione, intendo che qualcosa di
reale ha assunto un forma soprannaturale; la rivelazione improvvisa, per così
dire rivoluzionaria, di un pensiero già maturo in me, qualcosa espresso dal
grido antico “eureka!”, “ho trovato!” Sì, ma che cosa avevo trovato?
Ho avuto modo di dire una volta che il
cosiddetto socialismo ha avuto per me il medesimo significato della madeleine
per Marcel Proust, che inzuppata nel tè gli aveva d’un tratto risvegliato il
gusto dei tempi andati. Dopo la sconfitta della rivoluzione ungherese del 1956,
io, soprattutto per ragioni linguistiche, decisi di rimanere in Ungheria.
Questa volta potei perciò osservare il funzionamento di una dittatura con gli
occhi di un adulto e non, com’era successo in precedenza, di un ragazzo. Vidi
come un popolo venne indotto a rinnegare le proprie idee, vidi i primi cauti
gesti dell’adattamento, compresi che la speranza è strumento del male e che
l’imperativo categorico kantiano, l’etica, è solo una servizievole ancella
della sopravvivenza.
Ci si può immaginare una libertà maggiore
di quella di cui gode uno scrittore in una dittatura relativamente moderata,
diciamo stanca anzi decadente? Negli anni sessanta la dittatura ungherese era
pervenuta a uno stato di consolidamento che potrebbe quasi essere definito di
consenso sociale e cui il mondo occidentale più tardi diede con ilare
indulgenza il nomignolo di “comunismo al gulasch”: dopo il malanimo iniziale,
quello ungherese sembrava di colpo essere diventato il comunismo prediletto
dell’Occidente. Nel pantano profondo di tale consenso o si abbandonava
definitivamente la lotta oppure si trovavano vie tortuose per arrivare alla
libertà interiore. I costi iniziali di uno scrittore sono bassi, per esercitare
il mestiere bastano carta e matita. La nausea e la depressione con cui mi
svegliavo ogni mattina mi mettevano subito in sintonia con il mondo che volevo
rappresentare. Dovetti rendermi conto che narravo in un altro totalitarismo
l’uomo che gemeva sotto la logica di questo totalitarismo e senza dubbio ciò
faceva della lingua in cui scrivevo il romanzo un medium suggestivo. A valutare
con tutta onestà la mia situazione di allora, non so se in Occidente, in una
società libera, sarei stato capace di scrivere il romanzo che oggi è conosciuto
sotto il titolo di Essere senza destino e cui viene attribuito il massimo
riconoscimento dell’Accademia svedese.
No, sicuramente mi sarei dedicato ad
altro. Non dico che non sarebbe stato anch’esso la verità, solo che forse
sarebbe stata una verità di genere diverso. Nel libero mercato dei libri e
delle idee, probabilmente anch’io mi sarei rotto la testa intorno a una forma
di romanzo un po’ più spettacolare: per esempio, avrei potuto frammentare il
tempo narrativo e presentare soltanto le scene d’effetto. Solo che nel romanzo
il mio eroe nei campi di concentramento non vive il suo tempo personale, in
quanto non possiede né tempo, né lingua, né personalità suoi. Non presenta dei
ricordi, esiste. Per cui questo povero ragazzo ha dovuto languire negli oscuri
lacci della linearità e non ha potuto liberarsi dal tormento dei dettagli.
Invece di una bella serie di grandi momenti tragici, è stato costretto ad
attraversare il tutto, il che è opprimente e offre scarse variazioni, come la
vita.
Ne sono venute però inattese lezioni. La
linearità richiedeva che le situazioni venissero presentate con completezza.
Non ammetteva l’eleganza di saltare, diciamo, venti minuti, semplicemente
perché questo tempo stava davanti a me come un ignoto e tremendo buco nero,
come una fossa comune. Sto parlando dei venti minuti trascorsi davanti alla
banchina di carico del campo di sterminio di Birkenau prima che le persone
discese dal treno arrivassero davanti all’ufficiale che eseguiva la selezione.
Questi venti minuti io li ricordavo un po’ alla grossa, ma il romanzo esigeva
che non mi rimettessi alla memoria. Infatti per quanti resoconti,
testimonianze, ricordi di sopravvissuti leggessi, quasi tutti concordavano nel
dire che la cosa si era svolta velocissima e senza particolari rilevanti: le
porte dei vagoni vennero spalancate, si sentirono urla e cani che abbaiavano,
le donne e gli uomini vennero separati, in questa confusione caotica essi
finivano davanti a un ufficiale che, dando loro un rapido sguardo, allungava il
braccio per indicare qualcosa e subito dopo essi si ritrovavano in tenuta da
internati.
Questi venti minuti me li ricordavo
diversi. In cerca di fonti autentiche, cominciai a leggere i racconti chiari,
spietati, masochisti di Tadeusz Borowski, tra cui Signore e signori, per di qui
al gas. Successivamente ebbi tra le mani la serie delle fotografie, di mano di
una SS, dei trasporti umani che arrivavamo sulla banchina di Birkenau e che i
soldati americani trovarono nella caserma delle SS del campo liberato di
Dachau. Studiavo, sgomento, le foto. Bei volti di donne che ridono, giovanotti
dallo sguardo intelligente, pieni delle migliori intenzioni, pronti a
collaborare. Allora capii perché e come quegli umilianti venti minuti di
inattività e impotenza avevano potuto cancellarsi in loro. E considerando che
tutto quello si era ripetuto in continuazione, alla stessa maniera, giorno dopo
giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, per una lunga serie di anni,
mi resi conto di quale fosse la tecnica di tale orrore, afferrai com’era stato
possibile voltare perfino la natura umana contro la vita di un essere umano.
Così, passo dopo passo, ho proceduto per
il cammino della conoscenza lineare; se si vuole, è stato questo il mio metodo
euristico. Mi accorsi in fretta che non m’interessava affatto per chi scrivevo
e neanche perché scrivevo. M’interessava solo una questione: che cosa c’entravo
io con la letteratura? Perché una cosa era chiara: dalla letteratura, dallo
spirito e le idee che si collegano a tale concetto, mi separava una
invalicabile linea di demarcazione, la quale linea – così come molto altro – si
chiamava Auschwitz. Chi scrive su Auschwitz, deve aver chiaro che Auschwitz
abroga – almeno in certo senso – la letteratura. Su Auschwitz si può scrivere
solo un noir, un, sia detto senza offesa, un romanzo d’appendice a puntate, che
inizia lì e arriva fino a oggi. Con questo voglio dire che dopo Auschwitz non è
accaduto nulla che abbia abrogato, contraddetto Auschwitz. L’Olocausto nei miei
scritti non è mai riuscito a comparire nella forma del passato.
Di me si dice di solito - a volte per
lodarmi altre per biasimarmi – che ho un solo tema, l’Olocausto. Non ho nulla
da obiettare; per quale motivo dovrei non accettare – a parte qualche
chiarimento – di venir collocato negli scaffali delle biblioteche a ciò
destinati? Quale scrittore oggi non è uno scrittore dell’Olocausto? Intendo
dire che l’Olocausto non deve necessariamente divenire il tema esplicito per
avvedersi del tono spezzato che da decenni domina l’arte moderna in Europa.
Dico di più: non esiste, a mia conoscenza, alcuna arte vera e autentica in cui
non si percepisca questa rottura, per così dire come se uno, rotto e
irresoluto, si guardasse attorno nel mondo dopo una notte di incubi.
Io non ho mai tentato di interpretare il
complesso di problemi definito Olocausto come qualcosa di simile a un conflitto
ineluttabile fra tedeschi ed ebrei; non ho mai creduto che sia un po’ l’ultimo
capitolo della storia dolorosa degli ebrei, sèguito logico delle prove passate;
non l’ho mai considerato, per dir così, una sbandata unica della storia, un
pogrom superiore per dimensioni a tutti quelli che lo hanno preceduto, la
precondizione della nascita dello stato ebraico. Io ho visto nell’Olocausto la
situazione dell’essere umano, lo stadio terminale della grande avventura, cui
l’uomo europeo è giunto dopo duemila anni di cultura etica e morale.
Ora non ci resta che pensare a come
uscirne in avanti. Il problema Auschwitz non è, per così dire, se passarci
sopra o no un tratto di penna; se conservarlo nella memoria o chiuderlo nel
corrispettivo cassetto della storia; se innalzare monumenti per i milioni di
assassinati e quale aspetto debbano avere. Il vero problema Auschwitz è che è
accaduto e che noi, con la migliore o anche la peggiore nostra volontà, non
possiamo cambiare questo fatto. Il poeta cattolico ungherese János Pilinszky ha
dato forse la definizione più precisa di questa situazione difficile
chiamandola uno “scandalo”; e con tutta evidenza egli intendeva che Auschwitz,
essendo avvenuto nell’ambito culturale cristiano, per la mente metafisica è
irredimibile.
Vecchie profezie dicono che Dio sarebbe
morto. Certo è che dopo Auschwitz noi siamo lasciati a noi stessi. Dobbiamo
farci i nostri valori da noi, giorno per giorno, con quell’incessante, anche se
invisibile, operare etico che un giorno li porterà alla luce e forse li eleverà
a nuova cultura europea. Il Premio, con cui l’Accademia svedese ha ritenuto
giusto contraddistinguere la mia opera, io lo considero un indizio del nuovo
bisogno che l’Europa ha di possedere le esperienze che i testimoni di
Auschwitz, dell’Olocausto, furono costretti a subire. Ai miei occhi, questo, mi
sia permesso dirlo, è segno di coraggio, per un certo verso addirittura di
ardimento in chi ha voluto che io comparissi qui, nonostante presagisse che
cosa avrebbe ascoltato da me.
Comunque sia, quel che ha trovato
espressione nella soluzione finale e nell’”uni-verso concentrazionario” non si
presta a equivoci, e l’unica possibilità di sopravvivere e di conservare la
nostra energia creatrice è riconoscere questo punto zero. Perché una tale
lucidità non dovrebbe dare frutti? Nel profondo dei grandi atti di conoscenza,
anche quando si basino su catastrofi irrimediabili, sta sempre qualcosa di ciò
che è grandioso in tutti i valori europei, il momento della libertà, che entra
nella nostra vita come un surplus, come qualcosa che ci arricchisce portando
alla nostra coscienza l’effettualità della nostra esistenza e la nostra
responsabilità per essa.
È per me una gioia speciale poter esporre
questi pensieri nella mia lingua madre, in ungherese. Io sono nato a Budapest,
in una famiglia ebraica, il cui ramo materno proviene da Kolozsvár, in
Transilvania, mentre il ramo paterno dalla zona sudoccidentale del Balaton. I
miei nonni ancora accendevano le candele la sera del venerdì, all’inizio del
Sabato, anche se avevano già magiarizzato il nome, e per loro era scontato
considerare propria fede l’ebraismo e propria patria l’Ungheria. I miei nonni
materni hanno trovato la morte nell’Olocausto, quelli paterni sono stati uccisi
dal regime comunista di Rákosi trasferendo coattivamente sul confine
settentrionale del paese la casa di riposo per anziani ebrei di Budapest. Per
me tale breve storia familiare contiene, e simboleggia quasi, l’ultimo capitolo
di passione del paese. Da tutto ciò io ho imparato che il lutto ha in sé non
solo amarezza, ma anche straordinarie riserve morali. Essere ebreo: mi sembra
che oggi sia di nuovo, in primo luogo, un compito morale. Se l’Olocausto opera
già da fatto creatore di cultura – come in effetti innegabilmente è – può farlo
soltanto mirando a generare, dalla realtà oramai insanabile, una guarigione sul
piano dello spirito, una catarsi.
Arrivato alla fine del mio discorso, devo
onestamente confessare di non aver trovato, neppure lungo questo ragionamento,
il giusto equilibrio fra la mia vita, i miei scritti e il Premio Nobel.
Anzitutto sento una profonda gratitudine, gratitudine per l’amore che mi ha
salvato e che ancora oggi mi tiene in vita. Bisogna però ammettere che in
questo percorso ormai quasi completo, in questa, se così posso dire, “carriera”
– la mia – c’è qualcosa di sconcertante, di assurdo; qualcosa di cui non si
viene a capo con la mente senza essere tentati di credere a un ordine
oltremondano, a una provvidenza o a una giustizia metafisica: cioè senza cadere
nella trappola dell’autoillusione e con ciò naufragare, smarrirsi e perdere il
legame profondo e straziante con i milioni di persone che sono state annientate
e non hanno mai conosciuto la grazia. Non è così facile essere un’eccezione; e
se il destino ci ha consegnato all’eccezione, bisogna accettare l’ordine
assurdo del caso che, sulle nostre vite sottoposte a potenze disumane e a
dittature feroci, regna con l’arbitrio di un plotone d’esecuzione.
Comunque, mentre mi preparavo a tenere
questo discorso è accaduto qualcosa di strano che, in un certo senso, mi ha
ridato serenità. Un giorno m’è arrivata per posta una grossa busta gialla.
Veniva dal direttore del Memoriale di Buchenwald, Dr. Volkhard Knigge. Agli
auguri aveva aggiunto una busta minore il cui contenuto veniva da lui chiarito
in anticipo, affinché io, nel caso non reggessi, potessi evitare di
affrontarlo. Nella busta c’era infatti una copia della Nota giornaliera
sull’effettivo degli internati del Campo di concentramento di Buchenwald del 18
febbraio 1945. Nella rubrica Abgänge, vale a dire “uscite”, venni a sapere
della morte dell’internato sessantaquattromilacentoventuno, Imre Kertész, nato
nel 1927, ebreo, operaio industriale. I due errori, quello circa la mia data di
nascita e quello circa la mia professione, erano finiti lì perché al momento di
essere registrato nell’amministrazione di Buchenwald io avevo detto di essere
più grande di due anni, per non farmi inserire fra i bambini, e operaio invece
che studente, per risultare più utilizzabile.
Una volta, dunque, sono già morto, per
poter vivere – e forse è questa la mia vera storia. Se è questa, allora dedico
l’opera nata dalla morte di un ragazzo ai molti milioni di morti e a tutti
coloro che oggi si ricordano ancora di loro. Ma poiché in fin dei conti si
tratta di letteratura, di una letteratura che, secondo la motivazione della
vostra Accademia, è anche testimonianza, essa potrebbe forse tornare utile
anche in futuro, beh mi piacerebbe dire: un’opera che servirà il futuro.
Perché, a mio avviso, quando affronto l’effetto traumatico di Auschwitz, vado a
toccare le questioni di fondo della capacità di vita e di energia creativa
dell’uomo oggi; vale a dire che, nel momento in cui rifletto su Auschwitz,
forse paradossalmente il mio pensiero verte, piuttosto che sul passato, sul
futuro.
Traduzione di Beatrice Töttössy
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