Il New York Times non è solo il più apprezzato quotidiano degli Stati
Uniti, ma anche una sorta di apripista delle tendenze intellettuali e politiche
del paese. È quindi un fatto degno di nota che il 4 aprile la rubrica Room
for debate (Spazio al dibattito) presentasse cinque diverse opinioni in risposta a
queste domande: l’antisionismo è un antisemitismo mascherato? Quand’è che la
critica verso Israele diventa intolleranza? Criticare lo stato ebraico equivale
a criticare gli ebrei?
Lasciando da parte il fatto che le domande si concentrano sui sentimenti
israeliani invece di cercare un punto di vista equidistante tra le diverse
posizioni, mi sembra comunque un fatto notevole perché, negli annali del
conflitto israelopalestinese e più in generale araboisraeliano, la critica
aperta e decisa delle azioni d’Israele contro i palestinesi è diventata una
questione molto delicata e le contromisure adottate, pilotate da Israele, sono
state usate per minimizzare tali critiche.
Questo perché chi si oppone alle politiche più vergognose e illegali
attuate dal governo israeliano – in particolare occupazione, colonizzazione,
incarcerazione di massa, omicidi e l’assedio diretto o indiretto delle comunità
civili palestinesi – oggi chiede delle misure per scoraggiare o punire Israele.
Lo stesso spirito della lotta antiapartheid
Tali azioni sono guidate dall’iniziativa globale della società civile
palestinese nota come Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds),
una serie di misure da prendere contro Israele e divise in aree d’azione
rivolte a tre gruppi di palestinesi: quelli che vivono nello stato d’Israele
come cittadini, quelli che vivono nei territori occupati nella guerra del 1967,
e quelli che sono esuli o rifugiati in altre zone della regione o del mondo.
Il movimento è andato pian piano rafforzandosi negli Stati Uniti e altrove,
poiché è riuscito a presentare con successo le sue azioni con lo stesso spirito
delle sanzioni antiapartheid avanzate contro il regime razzista del Sudafrica
di mezzo secolo fa. Gli israeliani e i loro amici respingonoquesti paralleli e
alcuni di loro accusano il movimento Bds di nascondere semplicemente il vecchio
antisemitismo, che impediva agli ebrei di avere pieni diritti come gli altri
cittadini.
Il dibattito si è animato nell’ultimo decennio, facendosi strada nel cuore
delle società occidentali, e non solo nelle sue frange più radicali. Gli
israeliani hanno cominciato a preoccuparsi e a reagire negli ultimi anni.
Soprattutto quando, negli Stati Uniti, alcune importanti chiese, associazioni
sindacali, accademiche o professionali hanno mostrato la loro volontà di
sanzionare o boicottare le aziende e le organizzazioni israeliane o straniere
che traggono profitto dall’occupazione e dalla colonizzazione dei palestinesi.
L’intensificarsi della discussione sul fatto che la critica alle politiche
israeliane equivalga o meno a un antisemitismo mascherato ha danneggiato sia
Israele sia i suoi detrattori. Israele, perché le sue politiche ricevono molta
più attenzione pubblica globale nel quadro delle discussione sull’apartheid. I
palestinesi e i loro sostenitori, invece, perché sono attaccati con l’accusa di
antisemitismo.
È importante notare che l’antisemitismo è tra i peggiori marchi d’infamia
che esistono oggi nel mondo, a causa del suo diretto legame con le proporzioni
inumane, la criminalità e la brutalità dell’olocausto compiuto contro gli ebrei
negli anni trenta e quaranta. L’antisemitismo ha aperto la strada all’olocausto,
e ha continuato a esistere dopo la sconfitta dei nazisti.
In un certo senso, questa è la nuova prima linea del conflitto
israelopalestinese negli Stati Uniti e, in misura minore, in Europa e altrove
È quindi significativo che i nemici del movimento Bds scelgano di definirlo
antisemita. Eppure oggi è ancora più significativo il fatto che le accuse di
antisemitismo non sembrano aver raggiunto il loro obiettivo, ma potrebbero
addirittura avere avuto l’effetto opposto: le discussioni sul fatto che uno critichi/sanzioni
o meno le politiche israeliane ha puntato i riflettori su queste stesse
politiche, invece di mettere a tacere la discussione sul modo in cui Israele
tratta i palestinesi o rispetta il diritto internazionale.
In un certo senso, è diventata questa la nuova prima linea del conflitto
israelo-palestinese negli Stati Uniti e anche, in misura minore, in Europa e in
altre parti del mondo. La vicenda ha anche sollevato una riflessione sulla
libertà di parola negli Stati Uniti, compreso il diritto di criticare le azioni
o le politiche del governo. Ma sottolinea anche le contraddizioni o l’ipocrisia
di quanti rifiutano di boicottare Israele per le sue azioni, ma appoggiano il
boicottaggio dell’Iran o di altri stati o gruppi politici a causa delle loro
azioni.
Un importante traguardo simbolico
La risposta più giusta e semplice è, a mio avviso, che le azioni di ogni
paese o gruppo politico siano discusse pubblicamente, che sia tra israeliani,
arabi, iraniani, statunitensi e così via. Chi è ritenuto colpevole di compiere
azioni criminali o terroristiche dovrebbe essere soggetto a sanzioni,
boicottaggi, disinvestimenti o altre azioni punitive, come quelle che lo stesso
governo degli Stati Uniti porta regolarmente avanti contro i suoi nemici o
contro coloro che, a suo avviso, hanno comportamenti criminali.
Il fatto che questo dibattito sia approdato sulle pagine del New York Times
è un importante traguardo simbolico, che mostra come questo argomento meriti
una discussione pubblica e non debba rimanere confinato ad accuse confuse di
razzismo, colonialismo e antisemitismo o di altri crimini simili che rimangono
così profondamente parte del nostro mondo attuale.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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