Astenersi
dal voto in democrazia è pieno diritto.
Ci si
astiene per i più svariati e spesso fondati motivi. Non solo l'impedimento
fisico al voto (tipo se ci si trova lontani dal Comune di residenza o se si è
malati) ma anche altri. Ci si astiene ad esempio per incertezza. Per
disinteresse. Perché "per me pari sono". Per mandare un messaggio di
rabbia o sfiducia ai rappresentanti - che peraltro di solito se ne fottono e il
giorno dopo stanno a litigare sui resti, altro che astensione.
Comunque, da
giovane scrutatore, anch'io trovai una volta nella scheda la famosa fetta di
prosciutto con la scritta "mangiatevi anche questa". Un modo lecito,
per quanto inutile, di esprimere il proprio dissenso. In effetti, ridendo, uno
scrutatore un po' goliardico se la mangiò, dopo una breve ispezione olfattiva.
Di solito
questo astensionismo - per impedimento fisico o per consapevole decisione -
viaggia tra il 20 e il 30 per cento. Un po' di più, di recente, per via della
crisi della rappresentanza, della disaffezione verso i partiti. Così
ultimamente è attorno al 40 per cento. È quella che viene chiamata
"astensione fisiologica". Propria cioè di chi o non può andare alle
urne o deliberatamente sceglie di non scegliere.
Al
referendum del 17 aprile, così come a quello sulla fecondazione assistita del
2005, c'è invece un altro tipo di astensione.
È
l'astensione di chi, se giocasse lealmente, voterebbe No. Invece ha paura che
votando No non vincerebbe. Perché potrebbe essere in minoranza. Quindi assomma
la propria astensione a quella fisiologica di cui sopra, sperando di vincere
così.
Curioso no?
In democrazia di solito vince chi è maggioranza tra quanti scelgono di
scegliere. In questo caso non è detto che accada, invece: proprio come nel
2005, quando i vescovi vinsero assommarono il No di una minoranza - i cattolici
più integralisti contrari alla fecondazione assistita - all'astensione
fisiologica. E vinsero. Anche se la maggioranza di chi aveva un'opinione sul
merito li avrebbe fatti perdere.
Fu una
sconfitta, per i referendari, sì. Ma fu soprattutto una sconfitta per la
democrazia. Perché fu deformata: da una parte si contarono i
favorevoli alla procreazione assistita; dall'altra, i contrari più l'astensione
fisiologica. Da soli, i contrari non ce l'avrebbero fatta.
Chi il 17
aprile è per il No e invece non va alle urne, non è propriamente un
astensionista. È più un giocatore di frodo. Un ciclista che si dopa mentre gli
altri no. Uno che vince un concorso perché ha lo zio in commissione. Uno che
con gli specchi vede le carte dell'avversario a poker.
Nel mondo
anglosassone, dove una cosa così sarebbe motivo tale di vergogna da non dirlo
nemmeno in famiglia, si definirebbe semplicemente unfair. Niente di
più, niente di diverso.
Da noi
invece c'è chi se ne vanta, senza un briciolo di vergogna, né di stima di sé.
Dopo tutto
questo, credo che il 17 aprile forse non si voti nemmeno più sulla durata delle
concessioni alle trivelle: questione di rilevanza non epocale, con tutto il
rispetto dei referendari. Si vota soprattutto per contarsi fra giocatori di
frodo e no. Tra deformatori della democrazia e no.
Il 17 aprile
ci si conta sulla nostra lealtà, sulla nostra onestà nel confrontarci e
contarci. Sul nostro rispetto di noi stessi e del giocare leali in democrazia.
Sullepratiche, quindi, prima ancora che sui contenuti. In buona
sostanza, tra chi pensa che il fine giustifichi ogni mezzo e chi crede invece
siano i mezzi a qualificare il fine.
Ah, fra
l'altro. Ricordo il primo referendum che ho vissuto da ragazzo, nel 1974. Era
quello sul divorzio. La consultazione era proposta dai cattolici integralisti,
per abolirlo. I laici - noi laici - eravamo quindi per il No. Ma a nessuno
della nostra parte - Berlinguer, Nenni, La Malfa, gente così - venne in mente
l'arzigogolo bizantino di assommare l'astensione fisiologica ai No, boicottando
la conta reale tra favorevoli e contrari al divorzio. Proprio a nessuno. Si
andò invece tutti lealmente a votare, rischiando molto. Era la democrazia. È la
democrazia.
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