La buona notizia è che le violenze in Burundi non sono ancora sfociate in
una guerra civile come quella che ha ucciso trecentomila persone tra il 1993 e
il 2005, né tantomeno un genocidio come quello che ne uccise ottocentomila nel
vicino Ruanda nel 1994. La cattiva notizia è che questo potrebbe succedere
presto.
È difficile dire qualcosa di positivo sull’ex presidente della Fifa Sepp
Blatter. Ma l’Africa gli sarebbe stata molto riconoscente se fosse riuscito a
convincere il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza a non presentarsi per un
terzo mandato e ad accettare invece il ruolo di “ambasciatore del calcio” per
la Fifa.
Poco tempo fa, quando questa storia è emersa nell’autobiografia di Blatter,
il ministro degli esteri svizzero che aveva avuto quest’idea ha spiegato che
“l’obiettivo era contribuire a una soluzione pacifica che evitasse l’attuale
crisi in Burundi”.
La cosa avrebbe potuto persino funzionare. Nkurunziza è un appassionato di
calcio e ha già messo da parte abbastanza denaro per la sua pensione. Ma ha
deciso di restare al potere e presentarsi per un terzo mandato, rimettendo il
Burundi in marcia verso l’inferno.
I presidenti africani hanno due gravi difetti. Il primo è che sono convinti
di essere insostituibili: nel 2000 quasi due terzi dei paesi africani
prevedevano un massimo di due mandati presidenziali nelle loro costituzioni, ma
da allora in dieci di questi stati i presidenti hanno cercato di abolire tale
limite. L’ultimo in ordine di tempo è stato il Ruanda, il cui presidente Paul
Kagame potrebbe restare in carica fino al 2034.
Ma la scusa di Nkurunziza è stata particolarmente patetica. Era diventato
presidente alla fine della guerra civile, nel 2005, quando la pace era ancora
precaria. Non c’era tempo per organizzare delle elezioni, ed è quindi stato
eletto presidente tramite un voto parlamentare.
Così l’anno scorso Nkurunziza ha cominciato a sostenere che il suo primo
mandato non doveva essere considerato perché era stato scelto dal parlamento e
non dal popolo. Anche il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, al settimo
mandato, ha trovato la cosa divertente. “Dici che il primo mandato non conta,
ma sei comunque rimasto in carica per cinque anni!”, ha dichiarato durante un
vertice dell’Unione africana a giugno.
La Corte costituzionale del Burundi però ha accettato la rivendicazione di
Nkurunziza, anche perché contraddirlo sarebbe stato pericoloso. In seguito uno
dei giudici ha lasciato il paese e ha rivelato che lui e i suoi colleghi erano
stati tutti minacciati. I partiti d’opposizione hanno boicottato le elezioni
dello scorso luglio, e già allora il livello di violenza aveva cominciato a
salire rapidamente.
Le violenze sono cominciate dopo un tentativo di colpo di stato per
impedire le elezioni farsa. Il conto dei morti è attualmente intorno ai
quattrocento. Le vittime note sono perlopiù attivisti politici e comuni
cittadini assassinati dalla polizia nella capitale Bujumbura. Il vero numero è
probabilmente molto più alto. È raro che gli omicidi nelle aree rurali vengano
denunciati, ma nel 2015 almeno 250mila persone sono fuggite dal paese e vivono
attualmente in campi profughi nei paesi vicini.
Fino a poco tempo fa l’unica consolazione era che non si trattava di uno
scontro tribale. Sia il genocidio del Ruanda sia la guerra civile del Burundi
hanno opposto la maggioranza hutu (85 per cento della popolazione) alla
minoranza tutsi, un tempo dominante. Dai tempi della guerra civile, tuttavia,
l’esercito del Burundi è equamente diviso tra i due gruppi etnici, e i gruppi
d’opposizione comprendono sia hutu sia tutsi.
Purtroppo l’altro grave difetto dei presidenti africani, è che se
appartengano al gruppo dominante (come spesso accade) quando sono in difficoltà
la loro soluzione predefinita è rispolverare le alleanze tribali. Ed è proprio
quello che sta facendo Nkurunziza. I tutsi vengono epurati dall’esercito, e i
sostenitori hutu del presidente stanno cominciando a usare la stessa retorica
che si sentiva prima del genocidio in Ruanda.
Révérien Ndikuriyo, il presidente del senato del Burundi, ha definito gli
oppositori del regime “scarafaggi”, lo stesso termine usato per riferirsi ai
tutsi dagli estremisti hutu in Ruanda. Ha persino invitato i sostenitori del
governo a “mettersi al lavoro” (kora), la stessa parola d’ordine usata
in Ruanda nel 1994.
Nkurunziza sta cercando di trasformare uno scontro politico che rischiava
di perdere in un conflitto etnico che potrebbe vincere. Il prezzo da pagare
sarebbe però un nuovo genocidio. Il futuro di tutto un paese potrebbe essere
sacrificato alla sua ambizione personale.
L’Unione africana si è offerta d’inviare cinquemila soldati per sedare le
violenze, ma ha fatto marcia indietro quando Nkurunziza si è opposto. Ci sono
19mila caschi blu delle Nazioni Unite appena al di là del confine con la
Repubblica democratica del Congo, ma non c’è la volontà politica di impiegarli.
Finora i partiti d’opposizione (che naturalmente sono perlopiù hutu) stanno
resistendo ai tentativi di Nkurunziza di usare i tutsi come capro espiatorio.
Ma nel paese più povero del mondo molti hutu potrebbero sfruttare le bugie del
regime per impadronirsi della terra dei loro vicini tutsi. Il prossimo
genocidio africano potrebbe essere questione di giorni.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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